“La vita è lunga se la sai utilizzare”, dice Seneca, perché secondo lui “è piccola la parte di vita che ci tocca”.
Giuseppe Antonello Leone, classe 1917, che avrebbe compiuto 99 anni il 6 luglio, la vita l’ha saputa utilizzare.
Leone è stato artista e poeta di respiro internazionale. Definito esponente del secondo Futurismo negli anni ’40, ha partecipato poi al neorealismo lucano accanto a Rocco Scotellaro, Emilio Sereni, Manlio Rossi Doria, Carlo Levi. Ha diretto vari Istituti d’Arte (da Potenza a San Leucio al “Boccioni” di Napoli) ed ha lasciato opere in varie parti d’Italia, dalle formelle bronzee della Via Crucis nella chiesa di San Pietro in Camerellis a Salerno, al mosaico di sant’Antonio nella omonima chiesa a Corleto Perticara (Potenza), alle vetrate della cattedrale di Benevento, ai pannelli in bronzo della porta del Duomo di Messina.
Leone è stato artista multiforme, moderno perché abbracciava la complessità odierna del reale, dominando più linguaggi, da quello della scultura a quello della pittura, del mosaico, della poesia. Proprio la raccolta delle sue poesie (sulle quali ha dato un giudizio lusinghiero Aldo Masullo che lo ha ricordato sul “Mattino”) uscirà a breve (sarebbe stato il suo modo di festeggiare i 99 anni). Ma la sua tecnica più originale era il riuso, o, come lui diceva, la risignificazione: sceglieva pietre di fiumi già “lavorate” dal tempo sulle quali interveniva con piccoli tocchi che ne facevano un’altra cosa. Perché per lui tutte le cose hanno un significato, anzi più significati, quelli che ha dato loro la natura e quelli che noi sappiamo trovarci.
Dalla moglie, Maria Padula, pittrice e scrittrice lucana, dalla quale ha attinto l’amore per la Basilicata, ha avuto quattro figli: il pittore Silvio, il famoso Bruno, che ha fatto rivivere la tradizione delle guarattelle a Napoli, Rosellina, coadiutrice di Bruno, e Nicola Giuliano, urbanista.
Avendolo conosciuto anni fa (ad una cena organizzata dal critico Maurizio Vitiello, suo amico) possiamo testimoniare che la grande espansione delle sue vedute traspariva anche dalle cose che diceva e, soprattutto, dal modo in cui le diceva, con una semplicità e una cordialità di espressione e con una brillantezza dell’eloquio che lasciavano stupefatti: la semplicità dei grandi, avrebbe detto il mio maestro di filologia Giuseppe Pompella.