C’è una poesia preislamica che parte e si sviluppa tra il V e VI secolo. In particolare essa declama usi e costumi della società araba, ma solo attraverso l’oralità. Infatti, le poesie scritte furono realizzate qualche secolo dopo, tra l’VIII e X secolo. Esse propugnavano diversi temi: la satira, l’invettiva, il lamento funebre e venivano tramandate da tribù a tribù lungo la penisola araba.
Se Imru’ul-Qays (morto tra il 530 e il 540), l’inventore della poesia classica araba (la qasīda)1, è stato il poeta più importante della poesia araba preislamica, e al-Khansā (575-645), la maggior poeta, ai giorni d’oggi (nel frattempo la poesia è diventata libera) possiamo affermare che il più importante poeta arabo è il palestinese Mahmud Darwish (1941-2008), definito da José Saramago «il più grande poeta del mondo».
La prima poesia di Darwish che proponiamo è tratta dal volume “doppio”, curato da Saleh Zaghloul (che ne è anche il traduttore dall’arabo): Inni universali di pace dalla Palestina, introdotto da Germano Garatto, ed Elogio dell’ombra alta, introdotto da Lia Aurioso (Editoriale Jouvence, 2020, pp. 80):
Ora mare,
ora mare fatto tutto di mare,
e chi non ha terra
non ha mare
e il mare è la nostra immagine
dunque non andare via del tutto
è un altro esodo, non andare via del tutto
in quel che sboccia della primavera sulla terra, nelle
sorgenti che l’aviazione ha fatto esplodere dentro di noi.
E non andare via del tutto
tra le nostre schegge per cercare un profeta che si è
addormentato in te.
È un altro esodo verso non so dove.
Mille saette hanno trascinato i miei fianchi per spingermi in avanti.
Nulla ci può spezzare
e chi fece sanguinare la fronte di Dio, o figlio di Dio,
gli diede il nome e lo fece scendere in forma di libro o
di nuvola. (p. 49)
In pratica, si tratta di due brevi sillogi autonome tra esse: la prima, raccoglie dieci poesie «che parlano dell’autore, della sua vita raminga fin dall’età di sette anni, del suo impegno senza tregua per la propria terra attraverso lo scrivere e il comunicare»2:
Per mia madre
Ho nostalgia del pane di mia madre
e del caffè di mia madre,
mi mancano le carezze di mia madre
e cresce in me l’infanzia
giorno dopo giorno.
E amo la mia vita
perché se morissi
mi vergognerei delle lacrime di mia madre!
Se un giorno tornassi, madre, prendimi
come fascia per l’orlo del tuo abito,
copri le mie ossa d’erba
battezza dal tuo candido piede,
e legami
con una ciocca di capelli,
con un filo che pende dal tuo vestito
che così forse divento dio.
Dio diverrei se toccassi il profondo del tuo cuore.
Se tornassi mettimi
come esca per il tuo fuoco,
come una corda da bucato sul tetto della tua casa
perché non so più reggermi in piedi
senza le tue preghiere.
Sono invecchiato, madre, restituiscimi le stelle
dell’infanzia
ch’io possa condividere
con i giovani uccelli
il cammino del ritorno
verso il nido della tua attesa! (p. 21)
Leggendo queste poesie mi ha assalito un brivido sulla pelle, pensando alle innumerevoli violenze e discriminazioni che ha dovuto (e ancora subisce) questo popolo. E in particolare, questa dedicata alla madre, una metafora perfetta della sua Palestina, una terra martoriata che ha perso molti suoi figli per colpa di un capitalismo occidentale assetato di potere che ha delegato a sentinella del territorio lo stato d’Israele. È una preghiera per una terra dove la speranza di un riscatto non è mai morta, ma che si allontana ogni giorno che passa se non si restituisce a questo popolo la dignità umana, la speranza di sognare.
Se le poesie preislamiche si basavano sulla descrizione di villaggi e del territorio che attraversavano i poeti, l’adorazione di pianeti, alberi e le gesta “eroiche” dei guerrieri delle proprie tribù, nelle poesie di Darwish (maggiormente nella seconda silloge) si descrive di intere regioni arabe, in un contesto già di per sé esplosivo che si poggia sull’odio e sulle diaspore tra vari popoli o etnie, ma soprattutto l’amore per la propria terra e la propria gente, il sentimento di liberazione da ogni sopruso intestino ed esterno. Ancora accesa è la diaspora in Palestina, tra arabi ed ebrei, alimentata dall’ingerenza occidentale che ha provocato più danni che soluzioni, lasciando ingrossare, per es., la guerra civile combattuta tra il 1975 ed il 1990 nella regione libanese, o riducendo a un lembo di terra quello che un tempo era territorio palestinese ed ora quasi tutto annesso dagli israeliani, creando una destabilizzazione ancor più insanabile all’indomani dell’uccisione di qualche leader locale, lasciando sul terreno una situazione frastagliata e incontrollabile, probabilmente un irrisolvibile problema geopolitico.
Dunque, l’Elogio dell’ombra alta, principalmente «denuncia il tradimento degli arabi, la sofferenza, i massacri patiti, racconta gli eroismi dei partigiani e consola il suo popolo, lo elogia per il coraggio dimostrato, gli ricorda che lui è la questione, lui il signore dell’Universo, e lo invita a continuare la lotta, a non arrendersi, a non cercare regni e troni»3. Sono poesie che denunciano, inoltre, il colonialismo, l’esilio, gli esodi per terre sconosciute e inospitali, la sete di giustizia, la ricerca dell’amore divino tra un destino imprigionato dalla solitudine e l’indifferenza:
È un altro esodo,
non scrivere il testamento e l’addio.
È venuta giù la rovina, e tu vai in alto
come un’idea
come una mano
e come una meta!
Non c’è altra terraferma che le tue braccia
non c’è altro mare che il blu misterioso che è in te
mimetizzati dunque nelle cose cosicché le cose possano
mimetizzarsi nel tuo passo proibito
e ritira le tue ombre dalla corte dei governanti arabi
perché non le possono portare come medaglie
e spezza tutte le tue ombre perché non possano stenderle
come tappeto o tenebra. (p. 50)
Per tutta la sua vita («La vita di Mahmoud Darwish è la vita della sua terra. Aveva poco più di sette anni quando fu costretto a lasciare il villaggio di al-Birwa insieme con la famiglia. L’esercito israeliano l’aveva distrutto. A diciannove anni pubblicò il primo libro di poesie, fra cui Carta d’identità4, un manifesto della lotta del popolo palestinese. Non si è mai fermato fino al 2008 quando è morto e soltanto per lui e Arafat i palestinesi hanno celebrato i funerali di Stato»5), Darwish ha lottato con la sua poesia in difesa dei diritti dei suoi connazionali, della sua martoriata terra, dei più deboli, degli ultimi, nel tentativo di ripristinare un delicato equilibrio tra i contendenti. Sono il messaggio e il messaggero, diceva, ed ho scoperto che la terra è fragile e il mare, leggero: ho imparato che lingua e metafora non bastano più a dare un luogo al luogo.
Probabilmente la sua poesia (poesia poesia sociale, civile, politica, ambientalista, che sveglia le coscienze sopite e alimenta vero amore e patrio), come quella in generale, non salverà quel territorio dall’intifada, dall’odio razziale e religioso, dall’oppressione occidentale per la conquista di territori ricchi di risorse naturali da sfruttare (questo Darwish lo sapeva bene), ma forse aprirà nei cuori dei protagonisti una piccolo rivolo di speranza, d’amore per la vita e il rispetto del prossimo. Chissà, un giorno, un giorno qualunque, qualche parola “coraggiosa” di questa poesia interessante anche per musicalità ritmo e metafora, cadrà sulle dune del deserto per far nascere un fiore.
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1 Trasmessa attraverso una lingua che è una koiné di dialetti del Najd, è un’ode poetica politematica e monorima dalla struttura codificata. Essa si apre con un preludio amoroso (nasīb) in cui il poeta piange la perdita dell’amata sui resti dell’accampamento della tribù, che partendo, ha separato la coppia. Segue la sezione del viaggio (rāhil) in cui il poeta, accompagnato dal suo fido destriero (generalmente un cammello o una cammella), attraversa il deserto, descrivendo in modo piuttosto didascalico, flora, fauna, tra l’alternarsi della notte e del giorno. Giunta alla sua meta, il poeta incontra dei personaggi ai quali dedica i versi finali del poema che ne rappresentano il fulcro: spesso l’intento è l’elogio (madīh) di un capoclan, o il dileggio (hijā) di un rappresentante di tribù rivali; più raramente è il lamento funebre: rithā. Cfr. Antonio Delisa, Poesia araba preislamica, in “In poesia – In poetry – En poesie”, 5 luglio 2017.
2 Germano Garetto, Introduzione, p. 9.
3 Lia Aurioso, Introduzione, p. 36.
4 Prendi nota / sono arabo / carta di identità numero 50.000 / bambini otto / un altro nascerà l’estate prossima. / Ti secca? / Prendi nota / sono arabo / taglio pietre alla cava / spacco pietre per i miei figli / per il pane, i vestiti, i libri / solo per loro / non verrò mai a mendicare alla tua porta. / Ti secca? / Prendi nota / sono arabo / mi chiamo arabo non ho altro nome / sto fermo dove ogni altra cosa / trema di rabbia / ho messo radici qui / prima ancora degli ulivi e dei cedri / discendo da quelli / che spingevano l’aratro / mio padre era povero contadino / senza terra né titoli / la mia casa una capanna di sterco. / Ti fa invidia? / Prendi nota / sono arabo / capelli neri / occhi scuri / segni particolari / fame atavica / il mio cibo / olio e origano / quando c’è / ma ho imparato a cucinarmi / anche i serpenti del deserto / il mio indirizzo / un villaggio non segnato sulla mappa / con strade senza nome, senza luce / Ma gli uomini della cava amano il comunismo / Prendi nota / sono arabo e comunista / ti dà fastidio? Hai rubato le mie vigne / e la terra che avevo da dissodare / non hai lasciato nulla per i miei figli / soltanto i sassi / e ho sentito che il tuo governo / esproprierà anche i sassi / ebbene allora prendi nota / che prima di tutto / non odio nessuno e neppure rubo / ma quando mi affamo / mangio la carne del mio oppressore / attento alla mia fame / attento alla mia rabbia.
5 Flavia Amabile, in “lastampa.it”, 2013.