Tra i tanti libri che sono arrivati o arrivano sulla mia scrivania di direttore della rivista “Risvolti”, il mio interesse cade prevalentemente sui libri di poesia, vuoi per una scelta di campo, vuoi perché sono anch’io un poeta, vuoi perché – come dice il buon Lamberto Pignotti ? «la poesia sa farlo meglio, la poesia sa dirlo meglio». E proprio di un volume di poesia, con impressi segni asemici fuori e dentro testo, in un tempo poco finito, dove la lingua interroga il soggetto tradito dal proferire figure della mimica, maschere per scambisti alla corte di un popolo di zombi di un mondo distopico, vorrei ora tentare di dissertare, ma nei limiti dello spazio assegnatomi: La calce di Ulkrum, di Dario Zumkeller (La Parola Abitata, 2016, pp. 56): «Stringo forte l’appiglio. / Stringo forte il guaito pestato, / come la torsione di una chiave a croce, / lo squarcio lento della dissolvenza in crescendo. // Abbrunatevi occhi tossici disumanizzati, / scotomizzati dalle sovrastrutture. // Ascoltate il canto della candida operaia che recita inesorabile il dies irae» (p. 18).
Zumkeller si è laureato nel 2017 in Sociologia all’Università degli Studi di Napoli “Federico II” e nel 2013 ha conseguito il Master in Ricerca Sociale presso l’Università di Aberdeen, in Scozia. Ma Zumkeller non è solo un giovane che ha respirato l’aria polverosa del potere accademico: dal 2008 al 2010 ha frequentato il “Laboratorio di Poesia”, istituito dal “Comitato di Napoli della Società Dante Alighieri e diretto da Enrico Fagnano. Ha preso parte a letture e interventi in varie strutture. Dal 2010 al 2013 ha vissuto in Irlanda e in Scozia, dove ha letto propri testi in diversi spazi, tra i quali “The Dock Theatre” di Carrik on Shannon, In Irlanda e il “Poetry Book and Beans” di Aberdeen, in Scozia. Nel 2013 è stato tra i fondatori dell’associazione culturale “La Parola Abitata”, con la quale è intervenuto nelle rassegne organizzate da Ferdinando Tricarico presso il caffè letterario “Il tempo del vino e delle rose”. I suoi testi sono stati pubblicati in raccolte digitali, in riviste, tra le quali «Tracce» e «Levania», e nelle antologie Accenti (S.D.A, Napoli, 2010); La Parola Abitata (id., 2012); Dintorni (id., 2015). Nel 2015 ha partecipato alla rassegna organizzata da Costanzo Ioni “Le scale Leopardi” e alle serate organizzate da Ferdinando Tricarico presso il caffè letterario “Il tempo del vino e delle rose”: «Perché siamo dannati nel fecaloma / dove anche i gabbiani di notte non dormono più. / Ma io non sono muto al loro versi / per dire all’accusatore / che di noi, residui clastici, sia fatta la calce del carceriere» (p. 47).
Nonostante il cognome che potrebbe far pensare ad un tedesco (molti sono i cognomi tedeschi che terminano con “eller”), l’autore è napoletano e a Napoli vive. Questa è la sua opera prima, per cui, come ci dice Eugenio Lucrezi nella postfazione, «Dario Zumkeller non deve aver mancato Michaux e Burroughs, Artaud, Bernhard, Landolfi: solo a tenere aperti gli occhi, solo a riuscirci, ? pare dire al lettore – c’è ancora da guardare, ed è in direzione di un’oltranza che si è fatta prossima e non più rimandabile: “Verso il giorno ultimo, è il silenzio, il non esistere felice”» (p. 51).
Ma guardare dove? Guardare cosa? Uscire da cosa? Guardare dove c’è stata quasi un’apocalisse perché tale è la situazione che oggi abbiamo davanti agli occhi, dove troviamo un «Uomo di polistirolo / voli rasoterra / attraverso praterie di amaranto / distese di ruggine / oceani popolati da cocci di vetro / correnti elettriche e meduse / algoritmi arpeggianti nella foschia» (p. 36); «cieli grezzi…; ciarpame per rigattieri…; gigli di gomma…; Uomo di polistirolo…; distese di ruggine; E poi tutto sarà up and down». Guardare la natura ridotta a mortificazione senza avere una risposta immediata, i tentativi di capire il perché di tanta sofferenza che diventano sbadigli sotto attacco di un campo minato «contemplando il fango dei galli, / sui sensi di niente, / e rifiuti di erba e vetri» (p. 13).
Qui l’uomo è assente o è diventato nichilista, ma infelice («Oh cortigiano insetto che strisci / di getto in oggetto / nel campo minato / quel vuoto d’affrontare / dinanzi alla nostra / coscienza infelice», p. 12), addirittura pare che si nasconda nell’attesa… nell’attesa di cosa? Dicevamo, uscire da cosa? Forse uscire dal buio della nostra realtà catastrofica sia sul piano sociale sia sul piano culturale, che è quasi un’utopia visto l’andamento apodittico quotidiano? E con che cosa? Per Zumkeller, con un linguaggio materico fatto di rimandi e interrogazioni sul crinale di una realtà infelice («… Nel cruciverba di fabbricati neri cubici, / dai molari cariati, / accarezzati dai lampioni di luce color ciliegio, / le colonne fracide stentano all’algoritmo inseguitore. // Ma non si voltano a curar di questo, / con carte, contratti, e sirene tutt’intorno. // Verso il giorno ultimo, è il silenzio, il non esistere felice.» (in 4a), dove l’unica fonte salvifica è la poesia. Già, la poesia, questo morbo senza cure.