Sebbene cronologicamente e geograficamente siano prossimi tra loro, non è del tutto possibile affermare che i tre illustri toscani Dante Alighieri, Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio, si badi bene natione, non moribus, siano collocabili sul medesimo piano.
La forzata abitudine a studiarli l’uno a ridosso dell’altro, quasi come se si rincorressero tra loro, non ha sempre permesso di scindere le influenze reciproche e il magistero di ogni singolo autore. E’ vero che in Toscana trascorrono solo una minima parte della propria vita; Petrarca dal canto suo quasi praticamente la ignora, vi ritorna per un breve soggiorno in età adulta, ma ne rimane alquanto deluso; ancora in fasce passa qualche mese presso Incisa, un borgo situato in Val d’Arno; la repentina partenza della famiglia di Petracco di Ser Parenzo alla volta di Avignone, fu salutata con grande entusiasmo dal cardinale Niccolò Da Prato, ricordato nella Cronica del Compagni come “Iusto et savio e di progenie ghibellina”.
L‘esperienza maturata nelle corti italiane da parte dello stesso Dante dopo l’esilio non è affatto rapportabile a quella avignonese di Petrarca ed ancor meno al soggiorno partenopeo del Boccaccio tra la succursale della banca dei Bardi e la corte di Roberto d’Angiò …ma andiamo con ordine.
Analizzando contenutisticamente e stilisticamente Dante e Petrarca, lo conferma con chiarezza un saggio di Michele Feo “L’ombra di Dante”, i tentativi di emulazione da parte dell’aretino verso il fiorentino si sprecano; nella produzione lirica petrarchesca si possono cogliere influenze a partire dalle petrose, fino al Dolce Stil Novo, ci riserviamo di citare la ballata LXIII dei Rerum Vulgarium Fragmenta per lo stile dolce e piano. Sul versante meramente strutturale la terzina dantesca della Commedia torna alla carica nei Trionfi, tuttavia senza raggiungere la medesima verve narrativa.
Per approfondire le dinamiche che coinvolgono i tre autori sarebbe opportuno iniziare dalle parole del cardinale veneziano Pietro Bembo che, nelle Prose della Volgar lingua esalta Petrarca per il suo sorvegliatissimo idioma, sostenendo che egli rappresenti in tutto e per tutto per la poesia volgare quello che Virgilio era stato per la lirica latina; ma, perché il ma c’é ed é piuttosto rilevante, il deprecato plurilinguismo della Commedia dantesca (segnalato dal Bembo nelle Prose) era necessario e legittimamente volto a rappresentare la totalità del pensiero e della cultura medievale, di cui la Commedia costituisce la summa; la scelta di Dante di costruire un’opera permeata dal plurilinguismo e dal pluristilismo non fu affatto dettata dall’ arbitrarietà, l’intero percorso della Commedia era stato accompagnato nel suo svolgimento dalla trattatistica sull’ idioma volgare (De vulgari eloquentia) e naturalmente preceduto dall’esperienza stilnovistica all’ interno della quale l’ accurata selezione e rarefazione del lessico lirico aveva già raggiunto il suo apice.
I rimandi alla Commedia nella Vita Nova sono tangibili e concreti; nella grande canzone spartiacque della Vita Nova, Donne ch’avete intelletto d’Amore la menzione dell’ inferno e della beatitudine è plateale “la v’è alcun che perder lei s’attende / e che dirà ne lo inferno “O mal nati, / io vidi la speranza de’ beati” (vv. 26-28); La critica esprime tuttavia ancora forti riserve nell’individuazione di un legame, almeno apparentemente, così palese tra le due opere.
Tirando le somme l’ impasse é evidente. Dante aveva già percorso un sentiero improntato sulla selezione accurata della lingua e naturalmente della storia di quella lingua. Selezione alla quale Petrarca necessariamente si ispira. Anche Giovanni Boccaccio riceve l’elogio del cardinal Bembo; per il certaldese, il veneziano gioca la carta di un altro antenato illustre; Boccaccio in prosa come Cicerone, ma nel volgare della lingua di sì. Sono esaltati i costrutti latineggianti nella struttura fraseologica; la bellezza e la profondità del ritratto di Guido Cavalcanti (novella IX della sesta giornata) icastica rappresentazione dell’intellettuale che rifugge la massa.
Boccaccio riconosce il magistero di Dante, ne comprende la forza e la vastità nel suo Trattatello in laude di Dante composto tra il 1351 e il 1355, che rappresenta la prima biografia propriamente intesa del Sommo. Con Petrarca, Boccaccio vive un intenso scambio epistolare, è consapevole della grandezza dell’aretino al quale si accoda come un discepolo, a sua volta Petrarca sa bene di essere secondo solo al fiorentino.
In conclusione, la vicinanza cronologica e geografica, la presenza di richiami tra le varie opere, l’interazione tra gli autori, paradossalmente non ha impedito alla triade più discussa dell’ Aureo Trecento di sviluppare singolarmente le peculiarità e la grandezza artistica in nome della quale ciascuno di loro è ricordato ancora oggi.
Solo una clausola giunge alfine, più una finezza da parte dello stesso Dante che una vera e propria frattura; nelle prime prove liriche egli aveva attinto al modello guittoniano cui si ispira anche nella prima parte della Vita Nova, per poi rinnegarlo successivamente… e allora forse ha ragione il Balduino quando ammette che in fin dei conti interpretiamo il Duecento in “funzione di Dante”, perché è proprio quel Dante Alighieri che ha avuto la consapevolezza di sé e del proprio ruolo intellettuale, passando attraverso la negazione di Guittone e dei predecessori, quelli sgraditi naturalmente, non certo i Siciliani! Dante ha contribuito alla canonizzazione di se stesso consegnandosi ai posteri come regola alla quale ispirarsi, come punto di partenza, non a caso è considerato integralmente il “Padre della nostra letteratura”.