Yari Selvetella con il libro Le stanze dell’addio edito da Bompiani nel 2018, ci racconta la storia di una perdita, quella della donna amata e madre dei suoi tre figli, scomparsa a causa di una grave malattia.
Nato a Roma il 16 febbraio del 1976, scrittore e giornalista conosciuto soprattutto per i suoi saggi e articoli sulla criminalità romana che ha indagato in libri come Roma criminale, scritto con Cristiano Armati, Banditi, Criminali e Fuorilegge di Roma e Roma, l’impero del crimine.
Nel 1994 ha vinto il premio Grinzane Cavour per la critica e ha scritto testi di argomento musicale come la biografia di Rino Gaetano edita da Bastogi nel 2001.
Ha al suo attivo tre romanzi  Male e Peggio (Avagliano, 2007), Uccidere ancora (Newton Compton, 2009), la cui trama è liberamente ispirata al massacro del Circeo e La banda Tevere (Mondadori Strade Blu 2015) e un libro di poesie dal titolo La maschera dei gladiatori. Collabora con la Rai in programmi di cui è conduttore e a volte anche autore.
Nel suo ultimo romanzo la cronaca della perdita dolorosa che l’autore ha personalmente vissuto viene ricostruita come il percorso all’indietro di una ricerca disperata che attraverso la memoria dei luoghi tenta l’impossibile ricongiunzione con la donna amata e perduta. Queste stanze dell’addio sono quelle dove il ricordo di lei si incarna nelle dimensioni, negli oggetti, nelle atmosfere, dove l’uomo cerca il senso di quell’assenza che gli ha stravolto la vita, dove la sua discesa agli inferi si ostina a rivivere un dramma dal quale sa di doversi riprendere perché in lui vivono insieme l’amante ferito e il padre responsabile di tre figli restati orfani che deve proteggere dal suo stesso dolore. Ma per far questo deve uccidere ogni illusione di ritrovarla, deve elaborare con coscienza lucida il suo lutto, deve trovare negli altri intorno a lui la possibile speranza di una vita senza di lei.
Nel tortuoso labirinto dove l’uomo si muove i personaggi si mostrano a tratti allegorici, segno di un altro e di un altrove che lentamente lo conducono alla coscienza del senso che comunque e sempre la vita ha e deve avere anche nel più atroce dei suoi drammi. I luoghi stessi del suo peregrinare diventano potenti metafore di questa ricerca esistenziale, come il mare che permea di sé vicende, personaggi, sentimenti, memorie. L’ospedale dove l’ha persa e dove si aggira alla ricerca di un ricordo che vuole caparbiamente conservare è un girone infernale dove tutto si è già consumato ma torna a rivivere nella mente martoriata dell’uomo che lo percorre con dolente attenzione ad ogni cosa. È sorprendente come un dolore così intimo sia riuscito a diventare soggetto di un romanzo che cattura il lettore anche con la forza estetica della narrazione che non scivola mai in una pietistica esposizione delle proprie ferite ma conserva costantemente pur nella verità del vissuto il valore alto della letteratura.
Yari Selvetella racconta questo suo itinerare nei ricordi e nelle emozioni con una fluidità che gioca coi vari stili narrativi, che tra un flusso di coscienza e un flashback incrocia i piani temporali del racconto scardinando la struttura lineare della narrazione e trascinandoci con lui nei vortici dell’ignoto che attraversa. Il lettore non può che seguirlo in questo labirinto dove la sofferenza costruisce nell’uomo un’identità altra, dove insieme a lui possiamo trovare la strada per scavare nei nostri stessi dolori e uscirne vivi e migliori, dove il narratore non perde mai il controllo della sua storia e utilizza con sapienza gli strumenti di uno scrittore che si rivela esperto nel costruire la storia e nel guidare le emozioni che essa produce, mantenendo un incredibile equilibrio tra fatti, personaggi e ambienti descritti con precisione, lucidità e la contenuta passione di chi si guarda vivere e apprende dalla sua vita il modo di condurla a compimento. Le immagini del libro, intense, laceranti, di una forza iconica suggestiva e indimenticabile restano nel lettore ad ancorargli nel petto una storia che potrebbe essere anche quella di tutti, un dolore inaspettato e lacerante che ci esplode d’improvviso fuori dal nostro rassicurante vivere quotidiano.
Nelle stanze dell’addio che il protagonista percorre si insegue la verità di un dolore inenarrabile che tuttavia si narra passo dopo passo cercando possibili risposte, affondando nell’ipotesi di una speranza che è già stata sconfitta, provando a risalire pian piano verso una superficie dove sia possibile vivere senza oblio ma anche senza disperazione, senza che la mancanza atrofizzi le energie vitali che ancora restano. In questo libro catartico, liberatorio, Selvetella ci mostra la dimensione del coraggio anche negli abissi più crudeli del nostro vivere, un viaggio di stanza in stanza fino all’ultima dove il sole può ancora entrare dalla finestra e illuminare una zona nuova di vita oltre il dolore. E ci rivela come sia necessario a volte lo sguardo di un altro sul nostro dolore, quello di uno sconosciuto che con semplicità ci sostenga nel percorso e ci aiuti a ritrovare il senso perduto delle cose.
Così l’addio si vive e si consuma accettando che orizzonti nuovi possano ancora aprirsi e regalare gioia. Nel mistero di questo dolore raccontato si genera nel lettore una fortissima empatia, partecipiamo del dramma, tremiamo dentro la stessa sofferenza del personaggio, ci riconosciamo fratelli di fronte allo smarrimento di una perdita così grave, ma eroici come lui nella lotta per sopravvivere, nel credere che anche dopo la tragedia sia possibile un’altra dimensione dell’amore e della felicità .