Giungiamo così, in questo viaggio attraverso le piazze della nostra storia, ad una piazza che possiamo considerare emblematica di una nuova realtà italiana, quella dei grandi flussi migratori che stanno trasformando il volto della nostra società.
Due scrittori, Carlo Emilio Gadda e Amara Lakhous, a quasi cinquant’anni di distanza l’uno dall’altro, hanno raccontato una Piazza nevralgica di Roma, Piazza Vittorio. Con loro, nella distanza di tempo e non solo, che li separa, possiamo seguirne la storia: da simbolo della borghesia umbertina alla degradazione borghese dell’epoca fascista a mercato popolare a luogo della multiculturalità oggi.
Piazza Vittorio Emanuele II, la piú grande piazza di Roma, fu progettata dall’architetto Gaetano Koch e costruita nel quartiere Esquilino, a ridosso della stazione Termini, all’indomani dell’Unità d’Italia, tra il 1882 e il 1887, in pieno stile umbertino, come testimoniano i portici con 280 colonne che circondano la piazza e gli eleganti e lussuosi palazzi borghesi che vi si affacciano.
Qui vivevano gli alti funzionari dei vari ministeri installatisi in Roma capitale. Il centro della piazza fu adornato con un capolavoro di architettura paesaggistica: un giardino di alti platani, cedri del Libano, magnolie e palme che incorporava la famosa Porta magica, circondata da due nani di pietra che rappresentano il dio egiziano Bes; questa porta adornata da segni cabalistici sembra introducesse al gabinetto di alchimia della villa del marchese Alessandro Palombara. I segni sull’architrave tracciano il cammino alchimico alla trasformazione, non solo della materia in oro ma soprattutto dell’anima verso la sua perfezione.
Dalla piazza, cuore nevralgico del quartiere, si diramano 14 strade. Questo spazio ha attraversato cambiamenti significativi. È passato ad essere da elegante scenario della borghesia umbertina a grande mercato popolare all’aperto, che per i suoi prezzi contenuti attirava compratori anche da altri quartieri.
Il mercato, nato nel 1902, come mercato ortofrutticolo, col tempo ingranditosi a dismisura, aveva completamente stravolto la fisionomia della piazza ottocentesca. Nel 2004 tutte le attività commerciali vengono spostate nella ex caserma Guglielmo Pepe.
Da quel momento la piazza restaurata torna ad assumere la sua fisionomia di luogo della socialità cittadina.
Nel 2006 è stato pubblicato dalla casa editrice e/o Assolo il romanzo “Scontro di civiltà per un ascensore in piazza Vittorio”, Vincitore del Premio Flaiano, che racconta sullo sfondo di Piazza Vittorio, una storia dei nostri tempi e di quello che oggi questa piazza va significando nel vissuto e nell’immaginario dei Romani.
L’autore, Amara Lakhous, è un cittadino romano di origine algerina che ha vissuto per molto tempo a Roma. In questo suo romanzo, molto singolare e per vari aspetti divertente, mette però il dito nella piaga di una questione molto delicata: il grande flusso migratorio nell’Italia di oggi e il processo di scontro e integrazione in atto.
Il romanzo si ispira al capolavoro di Carlo Emilio Gadda, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (1957), che racconta di un delitto e della successiva investigazione, primo esempio di un giallo che è anche romanzo sociale di aperta critica al fascismo dell’epoca, e mostra un impasto linguistico, tra italiano e dialetto romanesco, che puó rendere difficile la lettura, ma se ci lasciamo andare al ritmo della pagina, riusciremo a cogliere come, analizzando il microcosmo di Piazza Vittorio, Gadda ci racconta non solo lo “spirito” del luogo ma anche lo “spirito” dei tempi oscuri che fanno da sfondo alla vicenda, fino all’oscurità stessa che si nasconde nel cuore di ogni essere umano.
Il romanzo non ha la catarsi tipica dei polizieschi, perché non dà risposte, il delitto privato che si racconta scompare sullo sfondo della violenza istituzionale che il fascismo sta immettendo nel Paese, troviamo solo domande lanciate nel gomitolo intricato che è la vita. Nella sua bellezza apparentemente incompiuta ci pone dolorosamente di fronte ai nostri dubbi e alle nostre angoscie di contemporanei, il cui punto di riferimento non è e non puó piú essere la meta, ma bensí il viaggio stesso con le sue contraddizioni e i suoi pericoli.
Anche nel romanzo di Amara Lakhous la storia, come nel romanzo di Gadda, si presenta come un giallo, ma la ricerca dell’assassino (il morto è un individuo chiamato il Gladiatore e mal considerato dalla comunità) e l’indagine sul delitto hanno per sfondo una realtà altra e diventano l’occasione per un’approfondita analisi esistenziale e sociale dei tempi che stiamo vivendo. Narrando la vita che si svolge nel condominio, mostrandoci le tracce dell’emigrazione che ha trasformato l’edificio, la piazza, il quartiere Esquilino in un bazar di lingue, esperienze e culture, l’autore penetra in questa casbah di etnie, di volti, di memorie, di visioni del mondo, per guidarci nel cuore dell’esilio, della rinuncia, nella lotta per la sopravvivenza quotidiana, nelle speranze che nascono e muoiono col ritmo di un ascensore che collega i piani: un vortice di umanità che cerca l’integrazione sforzandosi di non perdere la propria identità.
L’autore si muove con leggerezza in questo microcosmo e con originalità ci presenta l’argomento della multietnicità in una grande capitale come Roma, ci fa riflettere sulla necessità dell’integrazione degli immigrati, sulla ricchezza che essa puó apportare alla nostra civiltà, ci spinge a chiarire il significato della parola straniero in una società che sempre piú va perdendo il concetto di confine, nei molteplici livelli dell’esperienza e dell’ immaginazione. Il rapporto col diverso integra e cambia l’identità, sia quella di chi vive nella propria terra e si misura con lo straniero, sia quella di chi la propria terra l’ha lasciata per necessità e vuole continuare a coltivare la propria dignità in una terra altra, che aspira a riconoscere come un luogo di possibilità, una seconda patria.
L’ascensore di cui il libro parla è la metafora di questo processo: andare su e giù significa passare da una riva all’altra, dunque tradurre. L’extracomunitario è innanzitutto un traduttore, per lui la traduzione è scelta ma anche obbligo. La traduzione ristabilisce l’ordine, impedisce la distruzione. Il linguaggio fonda lo spazio dell’incontro e dello scambio, allontana l’incomprensione, l’illegalità, il razzismo.
Il romanzo di Amara ci fa capire che quello a cui assistiamo non puó e non deve essere lo scontro di civiltà di cui parla il saggio di Samuel Huntington “The clash of civilizations”, tradotto e pubblicato in quasi tutto il mondo. Lo stesso concetto di scontro di civiltà, che questo saggio porta avanti e che sembra essere diventato l’ossessione di milioni di occidentali e soprattutto di NordAmericani, che in esso trovano giustificazione alle loro dinamiche imperialiste, si presenta ad un’attenta analisi come un concetto falso, “politico-ideologico”, che peró trasforma paradossalmente lo scontro ideologico in scontro di civiltà: in questo momento storico, la civiltà occidentale contro la mussulmana, pensiero fisso e indotto pesantemente che offusca la realtà e crea le condizioni psicologiche e sociologiche perché lo scontro sia visto come reale, possibile e giustificato. Ma come dice Amara:“Lo scontro di civiltà è solo un bruttissimo pasticciaccio dei nostri giorni”. «L’identità –spiega lo scrittore– si definisce solo rispetto all’alterità come in un gioco di specchi». Quindi non scontro di civiltà ma multiculturalità.
E oggi piazza Vittorio è divenuta luogo-simbolo di multiculturalità nel migliore dei casi, di rifugio per immigrati nel peggiore. Fra questi due poli si muove il problema dell’integrazione/emarginazione. Qui è possibile, camminando per la piazza e le strade intorno, osservare, in quello che è un vero e proprio laboratorio sociale, le trasformazioni in atto. In questi luoghi che portano i nomi importanti della nostra storia risorgimentale (poeti, re d’Italia e politici) vivono persone provenienti da varie zone dell’Africa (Marocco, Senegal, Etiopia..) o dalla Cina.
Il passante che attraversa la piazza si sente a volte smarrito, ma mai indifferente al contatto con tale crogiolo di culture, di etnie, di lingue, di costumi. Tutto sembra muoversi verso un’ economia di scambio, non solo di merci ma anche di civiltà.
La Piazza per un periodo ha ospitato con una certa frequenza eventi tesi a diffondere la percezione corretta della multiculturalità, a metterne in evidenza gli aspetti positivi: dal 2002 si è svolto Intermunda , evento che attraverso canti, balli, concerti, spettacoli cercava di promuovere la convivenza pacifica fra culture; purtroppo questa iniziativa non è stata finanziata negli anni successivi come molte altre, segno inequivocabile dei tempi odierni. Le manifestazioni nella piazza, a parte la rassegna estiva di cinema, si vanno facendo più sporadiche proprio per mancanza di sovvenzioni ai vari progetti di riqualificazione e integrazione proposti.
Un’ esperienza importante per ciò che comunica è quella dell’Orchestra di Piazza Vittorio. che raccoglie in una stessa formazione musicale tanti musicisti diversi per origine, formazione, esperienza, ma tutti decisi a comunicare, attraverso la musica, la ricchezza della loro integrazione.
La ricchezza di tanti è comunque divenuta la ricchezza di una piazza e di un progetto multiculturale. A pochi passi dalla Stazione Termini a Roma, nel cuore del quartiere Esquilino, Piazza Vittorio conserva molto della Roma tradizionale, ma nel giro di pochi anni ha saputo trasformarsi in una piazza internazionale.
Torniamo allora alla domanda che ci siamo fatti in precedenza: la piazza virtuale sostituirà la piazza reale o sarà solo una delle tante possibilità di aggregazione e dibattito che la nostra civiltà propone? L’esperienza di Piazza Vittorio sembra suggerirci una possibile conciliazione.
La piazza ha attraversato la nostra storia come luogo della realtà e dell’immaginario, l’Italia è cambiata , la piazza è cambiata. La piazza puó essere oggi non scontro ma incontro di civiltà, costruzione di nuove identità dove la lingua e la comune esperienza, non l’etnia, diventano il legame sociale forte che costruisce un’identità nazionale multiculturale.
I giovani popolano numerosi le piazze nelle notti bianche, alzatisi dai loro computer, salutata la piazza virtuale, assistono nella piazza reale a migliaia di spettacoli e concerti; scendono a frotte dalle periferie per popolare centrali piazze storiche, come, per esempio, Campo de’ Fiori a Roma e lí celebrare i riti dell’incontro.
La Storia siamo noi, come canta De Gregori nella sua famosa canzone, siamo noi padri e figli, quelli che abbiamo letto tanti libri e quelli che non ne hanno letto nessuno, siamo le piazze in cui abbiamo sperimentato il nostro coraggio e la nostra paura, dove siamo morti e rinati, dove si sono accesi roghi, innalzate barricate, sventolato bandiere, cambiato i nostri destini. Questa piazza continuerà a cambiare con noi e per noi.