Con il Rinascimento assistiamo a una vera e propria rivoluzione che si basa sulla convinzione che il “bello” sia un fatto razionale, ottenibile attraverso il rispetto di regole matematiche e che queste abbiano il valore di leggi naturali, come quelle che regolano i moti celesti o il corso delle stagioni. Di conseguenza il compito degli artisti diventa quello, non di trovare specifiche soluzioni a specifici bisogni, ma di progettare una piazza, un monumento, un quadro all’interno di un modello estetico preesistente che si regge su regole universali di proporzioni e armonia. A dettare le regole di questi modelli è la tecnica della prospettiva, capace di proporre e riprodurre lo spazio in tutta la sua realtà di visione. La piazza attira e irradia da sé linee prospettiche che, attraverso le vie d’accesso, sboccano nel bel mezzo di una forma geometricamente perfetta. È, in molti sensi, l’esatto opposto della concezione prevalente nel Medioevo.
Dunque, mentre la piazza medioevale scaturisce dal basso, dai mille bisogni e dalle invenzioni della gente, aggregati in un tutto coerente, quella rinascimentale procede dall’alto, dai vertici della società, che si ritagliano all’interno della città il “palcoscenico” adatto a mettere in risalto la propria importanza. Un esempio di grande armonia è la Piazza Ducale di Vigevano. La sua costruzione iniziò nel 1492 per volere di Ludovico il Moro come anticamera del Castello e fu ultimata nel 1494.
Con il Rinascimento e la scoperta delle leggi prospettiche la piazza torna a risignificarsi come luogo d’incontro delle varie funzioni sociali ma anche come luogo simbolo: si moltiplica nelle sue prospettive e come simbolo della razionalità umana tende a dilatarsi nelle sue rappresentazioni, si fa protagonista nella bidimensionalità della pittura, si autocelebra in tutte le forme d’arte come microcosmo che l’uomo costruisce a misura dell’idea che ha di se stesso.
Se è vero che solo nel Cinquecento un singolo monumento diventa nella piazza il punto radiale dal quale e nel quale le linee prospettiche partono e confluiscono, l’inizio di questo processo lo troviamo in una tipica piazza rinascimentale, quella di Pienza dove il Rossellino, con un finissimo accorgimento prospettico, progetta la piazza come un trapezio con la base piú larga nella facciata della cattedrale, facendo dell’osservatore-fruitore il punto d’incontro delle linee di fuga della visione.
Anche Michelangelo usò lo stesso imbuto prospettico rovesciato nella Piazza del Campidoglio, (il cui progetto fu ordinato da Papa Paolo III), primo grande esempio di piazza moderna a Roma. L’artista realizza una scenografica terrazza trapezoidale il cui centro è la statua di Marco Aurelio, la via di accesso è una scalinata a gradini molto ampi, come un ventaglio di pietra dal ritmo disteso , sullo sfondo troviamo il Palazzo Senatorio e ai lati il Palazzo dei Conservatori e il Palazzo Nuovo. Questo magico spazio, nonostante le sue dimensioni ridotte, ci appare maestoso e armonioso per l’impianto architettonico, l’equilibrio delle proporzioni e la vista a cui si apre, riunendo in uno stesso sguardo passato (foro romano) e presente.
La piazza affronta un altro cambio epocale in epoca barocca, dal Cinquecento alla prima metà del Seicento. La piazza barocca si muove tra due elementi forti della cultura dell’epoca: da un lato la filosofia della Controriforma (Piazza San Pietro s’impone come abbraccio universale della Chiesa che rivendica la sua funzione di mediatrice tra Dio e gli uomini, in contrasto con le istanze della Riforma Protestante); dall’altro la visione galileiana che fonda la Nuova Scienza e rivendica quindi principi nuovi di razionalità (lo spazio anche urbano diventa osservatorio e laboratorio di analisi di fenomeni). Il contrasto tra questi due elementi nella società e nella coscienza del tempo produce una drammaticità rappresentativa che spinge gli architetti barocchi a contrapporre all’equilibrio, alla misura, alla razionalità, alla logica del Rinascimento, il movimento, l’ansia per la novità ad ogni costo, l’amore per l’infinito e il non finito, la fantasia, che portano ad accentuare l’aspetto scenografico ed illimitato delle piazze. Quindi piazza come teatro e scenografia.
Le piazze, non più sentite, come nel Medioevo, simili a organismi viventi, vengono costruite, o intorno a un monumento importante che riceve dalla spazialità circostante una conferma del suo valore e un’esaltazione del suo significato storico, artistico, religioso (Es. Piazza san Pietro), oppure laddove si possa creare una scenografia monumentale come in Piazza Navona. Qui, palazzi, chiese, fontane creano, nella loro sinuosa bellezza, quell’idea di palcoscenico urbano il cui spazio esterno è percepito come interno: un salotto quasi, dove il rito sociale, spostandosi dai palazzi alla piazza, continua la sua rappresentazione di potere e ricchezza.
Il grande architetto di queste piazze è il Bernini e la novità della sua concezione si realizza attraverso l’uso dell’ellisse (due cerchi accostati e intersecanti, il cui precedente illustre era l’ellisse del Colosseo, matrice di tutte le ellissi successive) che dilata dinamicamente e progressivamente lo spazio e lo avvita poi in un vortice centrale dove un elemento scultoreo rappresenta il dato stabilizzatore della dinamica spaziale: con un obelisco come nel caso di Piazza San Pietro o con la Fontana dei Quattro Fiumi come nel caso di Piazza Navona.
In Piazza San Pietro la dilatazione in atto viene accresciuta dalla presenza dei porticati che permette il fluire continuo dello sguardo da uno spazio interno a uno esterno in un intercambio continuo. Questo tipo di struttura architettonica complessa e insieme aerea si ritroverà anche in alcune piazze settecentesche come la Piazza del Palazzo Reale di Napoli, Piazza del Plebiscito.
Questa scenografica piazza, con una superficie di circa 25 000 metri quadrati si presenta come una delle più grandi della città e d’Italia, sorta su uno slargo che esisteva già intorno al 1543, ma fu solo con la costruzione dell’attuale Palazzo Reale di Napoli che ebbe effettivamente inizio la sua storia. Il progetto venne affidato a Domenico Fontana, che decise di aprire la nuova residenza vicereale non più verso la «strada Toledana», bensì verso il recente slargo, così da inserire l’edificio in una scenografica architettonica che ne esaltasse il fulcro. In questo modo, come ci dice Giulio Carlo Argan, nella sua analisi della piazza, questa diventava il luogo dove dialogavano «lo spazio chiuso della vecchia città e lo spazio aperto della marina».
Una volta completato il palazzo Reale, lo slargo, chiamato «largo di Palazzo», divenne in breve il centro vitale della città, una grande area pubblica di rappresentanza per la vita cortigiana della classe aristocratica e nobile.
Quando il potere vicereale si insediò stabilmente nel palazzo Reale, il Largo non aveva ancora del tutto una conformazione adeguata di piazza. Fu solo all’inizio dell’Ottocento, durante il periodo napoleonico, che la piazza cambiò completamente volto. Il nuovo re Gioacchino Murat, sulla linea dei consistenti rinnovi urbani che stavano interessando la Francia e l’Europa illuminista, intendeva infatti sostituire quello che era sostanzialmente uno Slargo irregolare con una piazza geometricamente ben definita.
Con la confisca dei terreni dei monasteri adiacenti pensava di ingrandire ancora lo spazio della piazza portandola alle sue attuali dimensioni. Dopo la caduta di Napoleone, con il ristabilimento sul trono di Napoli di re Ferdinando IV, avvenuto nell’ambito della Restaurazione, i lavori per l’erezione del Foro Gioacchino, voluto da Murat, vennero bruscamente interrotti. L’attuale nome della piazza fu scelto dopo che il plebiscito del 21 ottobre 1860 decretò l’annessione del Regno delle due Sicilie al Regno di Sardegna. Oggi piazza del Plebiscito è diventata lo scenario dei principali avvenimenti cittadini e nazionali: comizi elettorali, concerti musicali, manifestazioni artistiche di vario tipo, cerimonie nazionali, persino funerali di grandi personalità, quali Pino Daniele.
Bisognerà aspettare il secolo XIX, perché la piazza tradizionale si cominci a rivelare inadeguata rispetto alle necessità urbanistiche e sociali nuove che si vanno affermando. L’accentramento di grandi masse dentro la città esige spazi diversi e più ampi, dove la circolazione veicolare sia favorita al massimo, visto anche l’intensificarsi del traffico urbano e la maggiore velocità dei mezzi di trasporto. Ma la risposta dell’urbanistica, specie Europea, a questi nuovi problemi, si dimostra inadeguata: non si creano infatti nuove piazze, nuovi quartieri in nuove città, bensì si comprime la massa enorme dei cittadini nell’angusto spazio delle città antiche, con strade strette e piazze piccole oppure si allargano strade e piazze distruggendo a volte interi quartieri antichi con la conseguenza di perdere straordinari patrimoni urbanistici e artistici e snaturare quelle piazze medioevali, rinascimentali, barocche che squarciate e aperte in ogni direzione, ricevono il rumoroso traffico che ne opaca la bellezza e l’affascinante silenzio.
Si perde così nell’Ottocento il senso stesso della parola piazza, che da allora venne a significare solo largo o spazio aperto, non più la nicchia architettonica nella quale si svolgevano le attività civili, religiose, ludiche del popolo. L’urbanistica del secolo XIX non distinse più le funzioni delle piazze che vennero tutte aperte da ogni lato al traffico di attraversamento; non costruì quasi mai piazze che non fossero larghi di traffico per cui moltissimi edifici pubblici grandiosi, quali ministeri, chiese e teatri, invece di essere ambientati in uno spazio che li proteggesse e ne esaltasse la funzione nella vita della comunità, furono costruiti lungo le strade allineati alle case di abitazione, appiattendo così il tessuto urbano.
(continua)