In occasione della Giornata Internazionale contro l’uso di bambini soldato, lo scorso 12 Febbraio, si è appurato che su 59 Paesi in cui sussistono conflitti armati, 57 sono stati posti sotto inchiesta per reclutamento di minori. L’Unicef è chiara sul punto, bisogna agire subito, liberare i bambini ostaggio delle guerre in nome delle Leggi Internazionali vigenti, sono troppi i bambini ancora imbrigliati nella tela del conflitto armato.
In Afghanistan, nonostante alcuni miglioramenti ottenuti in materia di reclutamento di minori nelle forze di sicurezza nazionale, si registra ancora una bella percentuale di minori arruolati in particolare nella rete di Haggani e nelle fila talebane. In molti casi a questi bambini vengono affidate missioni kamikaze, o sono incaricati di costruire armi e trasportare materiali esplosivi.
Nella Repubblica Democratica del Congo l’ONU ha registrato, specie nella parte orientale del Paese, casi di reclutamento di bambini. In particolare, i maschi sono destinati alle fila combattenti, mentre le bambine sono ridotte brutalmente in schiavitù sessuale. Fenomeno analogo si verifica in Uganda e in Mali, registrate di recente dall’UNICEF come “new entry” in classifica.
La situazione in Iraq e Siria non è migliore. I recenti risultati ottenuti dal Califfato, hanno incrementato il fenomeno in queste zone. Fenomeno, messo praticamente sotto gli occhi del mondo intero attraverso i video dell’ISIS. In Sud Sudan, la situazione è altrettanto meno rosa, il Paese è martirizzato dalla guerra civile che dal Dicembre 2013 non lascia spazio alla pace.
Di recente l’UNICEF ha intavolato una trattativa per la liberazione progressiva di 3000 bambini arruolati nella frazione Cobra dell’Esercito Democratico del Sud Sudan.
Circa 500 bambini sono stati rilasciati durante le prime due settimane di Febbraio e hanno iniziato a ricevere fondi per il reinserimento in società. Gli altri rilasci non sono stati rispettati, anzi, ci sono stati nuovi arruolamenti. Lo scorso 14 Febbraio a Wau Shilluk, una cittadina dove vivono circa 100 mila rifugiati, sono stati prelevati per il reclutamento armato, circa 89 bambini. Un numero elevatissimo per una pratica del genere.
L’accaduto ha suscitato la forte reazione dell’Human Rights Watch che ha accusato le autorità sud sudanesi di non intraprendere provvedimenti decisivi per contenere il fenomeno. L’Organizzazione accusa particolarmente le milizia pro-governative che assoldano adolescenti intorno ai 13 anni di età specialmente a Malakal, città controllata dalle forze governative.
Le accuse trarrebbero spunto da un’inchiesta effettuata tempo fa. Secondo HMW alcuni bambini sono prelevati in modo coatto mentre altri si arruolano volontariamente, molti nei ranghi della milizia locale di Johnson Olony un capo militare alleato del Presidente Salva Kir. Il rapporto dell’Organizzazione è stato smentito poi dal Ministro per l’Informazione.
Il fenomeno in Sud Sudan è sicuramente quello più preoccupante in termini di numeri. Secondo l’UNICEF lo scorso anno sono stati reclutati 12 mila bambini, per lo più maschi, che sono andati a riempire le file sia dell’esercito sud sudanese che quelle dei gruppi militanti.
Molti bambini hanno combattuto per la ribellione sudista della Sudan People Liberation Army nel conflitto che ha portato all’indipendenza del Sud Sudan (2011) durato dal 1983 al 2005. Dopo il conflitto i capi del Sud Sudan, all’epoca Kiir e Machar fecero grandi sforzi per evitare che altri bambini venissero arruolati dalla SPLA diventata successivamente esercito nazionale, tuttavia, il reclutamento è ricominciato una volta ripreso il conflitto ( Dicembre 2013) fra il Presidente Kiir e il suo ex collaboratore Machar per il potere.
La questione nasce dalla legislazione locale, ancora poco efficace in materia di protezione e garanzia dei diritti dei minori, inoltre, il difficile rapporto con le Nazioni Unite non agevola la tutela dei bambini. Grazie ai rapporti delle ONG alcune organizzazioni locali hanno contribuito al reinserimento dei bambini in società, tuttavia, i numeri sono ancora negativi. L’UNICEF dal canto suo organizza percorsi psico sociali di reinserimento, ma la l’ambiente circostante rende difficile la creazione di rapporti saldi fra questi bambini che spesso ritornano alla milizia.