Nonostante i lampi gamma – o GRB, Gamma Ray Burst – siano le esplosioni più luminose nell’universo, possiamo osservarne solo una minima parte, in quanto la loro luce si irradia in un fascio molto ristretto.
Questa la conclusione di uno studio in via di pubblicazione su The Astrophysical Journal basato su osservazioni del satellite NASA Chandra X-ray Observatory, del radiotelescopio Very Large Array in New Mexico, dei telescopi Gemini alle Hawaii e Discovery Channel Telescope (DCT) in Arizona.
Al gruppo internazionale di ricerca, guidato dall’italiana Eleonora Troja, ora alla NASA e all’Università del Maryland dopo una carriera di studi tra l’Università e l’INAF di Palermo, ha partecipato Roberto Ricci, dell’Istituto di Radioastronomia INAF a Bologna.
Il 3 settembre 2014 il satellite Swift della NASA rilevò un lampo gamma, denominato GRB 140903A, poi localizzato dal telescopio Gemini in una galassia a circa 4 miliardi anni luce da noi, una distanza relativamente prossima per un GRB. L’emissione di raggi gamma durò meno di due secondi, collocando il GRB in questione nella categoria dei lampi gamma ‘brevi’. Gli astrofisici ritengono che questi GRB di più breve durata siano conseguenti alla fusione (merger) tra due stelle di neutroni, oppure tra una stella di neutroni e un buco nero; i GRB ‘lunghi’, che durano più di due secondi, sarebbero invece il risultato del collasso di una stella massiccia.
La fusione di due stelle di neutroni porta alla creazione di una magnetar, con un campo magnetico estremamente intenso, o di un buco nero. In entrambi i casi, attorno al nuovo oggetto compatto rimane un disco di materiale, la cui ricaduta verso l’oggetto stesso scatena una violentissima esplosione, convogliata in due fasci luminosi, chiamati getti. Ma se il lampo gamma dura un attimo,l’emissione residua associata a un GRB (afterglow) visibile in tutte le bande spettrali rimane rilevabile per più tempo.