Combattimenti a mani nude o quasi
Gli appassionati di cinema a tema arti marziali lo sanno bene. Vi sono due macro famiglie di film. Nella prima i personaggi combattono, si difendono e attaccano prevalentemente a mano nuda; si aiutano, a seconda dei casi con un nunchaku o con armi di fortuna.
Rientrano in questa categoria i film sul karate, in cui è estremamente raro vedere il “buono” utilizzare un’arma diversa dalle proprie mani e dai propri piedi. Questo riflette lo spirito della disciplina, il cui nome significherebbe proprio “mano vuota” e nello studio della quale si impara ad utilizzare al meglio il proprio corpo.
Se successi come Karate Kid hanno aperto la strada, film come Black Belt l’hanno proseguita, apportando ancora più passione, tecnica e marzialità nel cinema di settore.
Alcuni attori chiave, poi, sono al centro di decine di film ispirati al kung fu. Su tutti, Bruce Lee utilizza il nunchaku; Jet Li combatte prevalentemente a mani nude; Jackie Chan, infine, in un mix di comicità e marzialità, utilizza qualsiasi cosa gli passi per le mani per disorientare, disarmare e sconfiggere l’avversario. Ma anche questo rientra nello spirito della secolare storia dell’arte marziale cinese per eccellenza, nella quale l’abilità sta nel fare di ogni oggetto un prolungamento di sé.
La produzione cinematografica giapponese
La seconda macro famiglia si può individuare in una produzione quasi prevalentemente nipponica. Qui lo strumento principe è la katana, che si potrebbe ascrivere quasi al ruolo di personaggio principale della pellicola.
Parliamo in questo caso di film che prendono le mosse o ricalcano quasi fedelmente i manga del settore. Questi fumetti raccontano le avventure e le disavventure dei samurai, i nobili soldati posti a difesa dell’Imperatore e dell’Impero del Sol Levante. Ma, poiché la corruzione dilagava anche all’epoca del lungo Medioevo giapponese, più volte i samurai si vedevano costretti a sfoderare le loro armi anche contro altri samurai.
Difficilmente però, le lunghe spade di questi soldati producevano scintille, in quanto i colpi inferti dall’uno andavano direttamente ad infilzare l’avversario. E, considerato l’effetto micidiale della lama, concludevano in breve tempo un combattimento, in cui la maggior parte del tempo veniva trascorso a studiare il nemico, per individuare il momento migliore per l’attacco.
Tra fedeltà e blockbuster
Questo pathos, che verosimilmente rispecchia quanto avveniva all’epoca dello Shogun, viene meno quando anziché alla riproduzione fedele dei combattimenti, il regista preferisce dare spazio ad effetti speciali, a scintillii di lame contro lame, ad arti amputati, e molto altro. Ma in questo caso non siamo più a Tokyo, ma ad Hollywood e il regista non è più Akira Kurosawa, ma Quentin Tarantino, e al posto di Toshiro Mifune, recitano David Carradine e Uma Thurman.
Kurosawa e Mifune non vanno ricordati solo per I sette samurai (1954), ma anche per La fortezza nascosta (1958), La sfida del samurai (1961), Sanjuro (1962), e molto altro.
E poi, vi sono altri registi, tra tutti Masaki Kobayashi che ha realizzato un eccellente Harakiri (Seppuku, in lingua originale, con Tatsuya Nakadai, 1962), film che ha ottenuto il Premio speciale della Giuria al Festival di Cannes del 1963.
Figli d’arte
Vi è un film che, più di ogni altro, simboleggia il ruolo della katana, nella vita che il samurai dovrà condurre una volta intrapresa la strada di soldato dell’Imperatore. Si tratta più che di una pellicola unica, di una serie tv sviluppata in sei puntate e prodotta in Giappone tra il 1970 e il 1976, sulla base dell’omonimo manga di Kazuo Koike e Goseki Kojima (e dal quale è stato tratto anche un lungometraggio, dallo stesso titolo): Kozure Okami, tradotto a seconda dei paesi con Lone Wolf and Cub, Baby Cart o Samurai.
Fumetto, serie e film narrano la storia di un samurai, Itto Ogami (interpretato da Tomisaburo Wakayama), caduto dalle grazie del suo signore, perché accusato, ingiustamente, di tradimento. Rifiuta di darsi la morte tramite il rito del seppuku, come dovrebbe fare per ristabilire l’onore perso, per vendicarsi di chi ha massacrato la sua famiglia; l’unico sopravvissuto è infatti suo figlio, Daigoro.
Il piccolo, che ancora si muove “a quattro zampe”, sarà al centro di una scena esemplare: posto di fronte ad una palla e ad una spada (appoggiata ai piedi di Itto), dovrà scegliere il proprio destino. E inevitabilmente sceglierà la katana, che nel proseguo della storia, consentirà a padre e figlio di salvarsi dagli attacchi dei nemici del clan Yagyu che danno loro la caccia: Itto Ogami attraverserà il Giappone portando Daigoro su di una carrozzella in legno e bambu.