Certamente farà discutere per le implicazioni in materia di occupazione e di condizioni di lavoro la sentenza della Corte di Giustizia Europea. Il caso riguarda un cittadino danese, che è stato per quindici anni alle dipendenze del comune di Billund (Danimarca). Il 22 novembre 2010, il comune ha posto fine al suo contratto di lavoro. Sebbene il licenziamento fosse motivato da un calo del numero di bambini di cui occuparsi (faceva il babysitter), il comune non ha indicato le ragioni per le quali la sua scelta è caduta proprio su quel signore.
Durante tutta la vigenza del suo contratto di lavoro, il signore in questione è stato considerato obeso ai sensi della definizione fornita dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS). La questione dell’obesità del sig. Kaltoft (questo il suo nome) è stata sollevata durante il colloquio di licenziamento, ma le parti non hanno concordato sul modo in cui sarebbe stata discussa. Il comune nega, infatti, che l’obesità facesse parte delle ragioni del licenziamento del sig. Kaltoft.
Un’organizzazione sindacale che agisce per conto del sig.Kaltoft, ritenendo invece che tale licenziamento derivi da una discriminazione illegittima fondata sull’obesità, ha adito un giudice danese per far constatare tale discriminazione e richiedere il risarcimento del danno.
Il tribunale di Kolding (retten i Kolding, Danimarca) chiede alla Corte di giustizia di precisare se il diritto dell’Unione vieti in modo autonomo le discriminazioni fondate sull’obesità.
Nella sua sentenza la Corte rileva, innanzitutto, che il principio generale di non discriminazione è un diritto fondamentale che costituisce parte integrante dei principi generali del diritto dell’Unione. Tale principio vincola quindi gli Stati membri allorché una situazione nazionale rientra nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione. A tale proposito, la Corte ricorda che nessuna disposizione dei Trattati e del diritto derivato dell’Unione in materia di occupazione e di condizioni di lavoro contiene un divieto di discriminazione fondato sull’obesità in quanto tale. La direttiva sulla parità di trattamento in materia di lavoro non menziona l’obesità quale motivo di discriminazione e il suo ambito di applicazione non deve essere esteso al di là delle discriminazioni fondate sui motivi tassativamente elencati. Inoltre, nemmeno la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea è applicabile a una situazione del genere. La Corte constata poi che il fascicolo non contiene alcun elemento che consenta di ritenere che un licenziamento asseritamente fondato sull’obesità in quanto tale rientri nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione.
La Corte conclude, di conseguenza, che, il diritto dell’Unione non sancisce alcun principio generale di non discriminazione in ragione dell’obesità in quanto tale, per quanto riguarda il lavoro e le condizioni di occupazione. Quanto alla questione se l’obesità possa costituire un “handicap” ai sensi della direttiva, la Corte ricorda che l’oggetto della stessa è stabilire un quadro generale per la lotta, in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, alle discriminazioni fondate su uno dei motivi elencati nella direttiva, tra i quali figura l’handicap. La nozione di handicap ai sensi della direttiva si riferisce a una limitazione risultante segnatamente da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature, la quale, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori.
Tale nozione si riferisce non soltanto a un’impossibilità di esercitare un’attività professionale, ma altresì a un ostacolo a svolgerla. Infatti, la direttiva si propone di attuare la parità di trattamento e mira segnatamente a garantire che una persona con disabilità possa accedere a un lavoro o svolgerlo. Inoltre, sarebbe in contrasto con la finalità della direttiva che l’origine dell’handicap rilevasse ai fini della sua applicazione. Inoltre la Corte rileva che la definizione della nozione di handicap precede la determinazione e la valutazione delle misure di adattamento appropriate che, conformemente alla direttiva, i datori di lavoro devono attuare, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere a un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione (a meno che dette misure comportino per il datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato).
La mera circostanza che nei confronti del sig. Kaltoft non siano state adottate siffatte misure di adattamento non è sufficiente a ritenere che non possa essere considerato come un soggetto portatore di handicap ai sensi della direttiva.Per tali motivi la Corte conclude che qualora, in determinate circostanze, lo stato di obesità di un lavoratore comporti una limitazione, risultante da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori e qualora tale limitazione sia di lunga durata, una siffatta condizione rientra nella nozione di “handicap” ai sensi della direttiva.
Tale sarebbe il caso, se l’obesità del lavoratore non gli consentisse di partecipare alla vita professionale in ragione di una mobilità ridotta o dell’insorgenza di patologie che gli impediscano di svolgere il suo lavoro o che determinino una difficoltà nell’esercizio dello stesso.
Certamente non mancherà chi si scandalizzerà per questa decisione, che al contrario è un importante passo avanti per combattere le discriminazioni sui luoghi di lavoro fatto dalla giurisprudenza europea.