Nell’introduzione alla sua raccolta intitolata “Le vele di Penelope”, Laura Chiarina invitava i lettori ad un caffè “virtuale”, “ad un tavolino”. Ecco, al tavolino virtuale sediamo adesso, – e ben volentieri, da amanti sia del caffè che della poesia – a distanza di qualche mese da quando abbiamo letto, oltre alla citata raccolta, l’altra non meno suggestiva intitolata “Nuvole dalle braccia”, nonché parecchi inediti cortesemente inviatici dalla stessa autrice.
Cominciamo da questa bella metafora del caffè per esprimere una preliminare riflessione sul rapporto fra il poeta e il lettore al giorno d’oggi. In un tempo in cui quasi tutti scriviamo poesie e non tutti ne leggono, lontani come siamo anni luce dalla funzione-vate-che-insegna (il concetto, dopo l’elaborazione baudelairiana relativa alla perdita dell’aureola, è stato definitivamente codificato da Montale, da “I limoni” a “Non chiederci la parola…”), nel tempo che sembra quello della non poesia, Laura Chiarina riscopre un rapporto produttore-fruitore di poesia.
Il poeta, per lei, non solo non si pone più anacronisticamente al di sopra del lettore ma neppure si chiude in un solipsismo sterile, né si riduce al dialogo, altrettanto sterile, con pochi “eletti” (la deriva di certo ermetismo), e cerca il lettore come il compagno nella vita, l’amico con cui discutere se vale la pena o no viverla, questa vita, e come. Domanda capitale, certo, ma rivestita della leggerezza necessaria al nostro tempo sapiente e ignorante (perché gli uomini d’oggi hanno alle spalle millenni di sapere ma la maggior parte ignora perfino che ciascuno di noi non esiste da solo, che al di là di se stesso, della propria famiglia, dei propri amici vi sono tanti altri uomini con altrettante famiglie e altrettanti amici).
E passiamo ai testi della raccolta “Le vele di Penelope”. Nei quali subito è palese l’idea di viaggio della poesia di Laura Chiarina. Un itinerario, a tappe, e tutto personale, che trova la motivazione del pubblicare – come abbiamo visto – nell’esigenza dell’incontro con gli altri, dopo l’incontro col sé. È un passaggio – da sé agli altri – che risponde all’esigenza più profonda della poesia, esigenza ravvisabile senz’altro nel valore conoscitivo che essa ha. Poesia, dunque, per conoscere se stesso e poi per conoscere gli altri, cioè l’umanità nella quale vedersi collocati.
Per un’ideologia poetica come questa il punto di partenza – quasi obbligato – è Ungaretti, con quella sua ricerca della propria vocazione poetica e, insieme – perché coincidono – della propria identità. Ed è da queste premesse ed esigenze che ci sembra parta la poesia de “Le vele di Penelope”. In questa fase troviamo alcune luminose intuizioni poetiche: getto le reti / nel tuo mare // e il sogno guizza / dalle tue ciglia / nelle mie mani, // iridescente mistero // speranza da restituire // viva / alle tue onde. (da “Pescatrice di sogni”).
Gli strumenti del poetare sono quelli del primo Ungaretti, con i versi liberi, la riduzione al minimo della sintassi, spesso nominale, la significatività degli spazi bianchi, l’importanza dei titoli che sono parte integrante della lirica. Ma proprio nella fedeltà ai “canoni” ungarettiani si annida la distanza dal modello, distanza che è soprattutto nei contenuti, e non soltanto sul piano personale (la fedeltà a un modello che identifica poesia e vita non poteva che sostituire alla vita del Maestro quella propria) ma su quello più specificamente “filosofico”. Si leggano questi versi: Verità o rappresentazione / della realtà? / Ai nostri perlage / ammiccano silenti stelle. // Siamo urlo scomposto / nell’Universo, / paradigma del nulla / nel Tutto. Il titolo della lirica è “31 dicembre La ventiquattresima ora”, e ci spinge, se non erriamo, al riconoscimento di uno smacco, della ricerca fallimentare dell’“assoluto”. E usiamo di proposito questo termine, riferito abitualmente alla recherche ungarettiana, a distanza di un secolo dal “Porto sepolto”: dal “ground zero” della trincea e dell’“inutile strage” (come definì Benedetto XV la prima guerra mondiale) a un altro “ground zero”, ravvisabile, crediamo, in una qualche esperienza privata della poetessa e, crediamo, nella inutile strage di questa “terza guerra mondiale a pezzi”, secondo la definizione di papa Francesco della situazione mondiale oggi.
Lo smacco è al centro della raccolta “Le vele di Penelope”, dove però vi sono anche le premesse per la ripresa, come nella chiusa di “Incubo e sogno” (Sono l’incubo / – la sua ragione – / l’afono urlo. // Tu, / amore, / il mio sogno.), o magari in un’ammissione riottosa, controvoglia, e fasciata d’una leggera ironia: Qui pensieri sospesi, / interrogando il sapere / attendono l’ospite di riguardo: / la soluzione! (da ““?” – ovvero … la soluzione).
Le avvisaglie vengono confermate e distese nelle liriche successive, al centro delle quali è il ritrovamento del senso della vita nell’amore. Penelope, tessuta la sua tela, ne ha fatto vele per la ri-partenza nel viaggio della vita. Ecco la lirica intitolata appunto “Penelope”: Disciolto l’oro / del tuo / sorriso / vivo tessendo / l’inconsistenza. // Lieve trina / trama di vento / tesa al telaio / punto su punto. // Nella cruna geme / interminabile filo, / attesa di silenzio / che a te mi lega. // Di questo nutro / l’anima china. / Arte tace / e amore interroga.
Ma neppure il canto dell’amore può eludere le domande sul proprio poetare. Si giunge così, anche stavolta attraverso fasi segnate dalle singole liriche, al senso della poesia, come appare nella chiusa della raccolta, in particolare in questa profonda riflessione sulla responsabilità del poeta: Calpesta pietre il poeta, / con versi calzati d’acqua. (da “Attento Poeta”).
Fatti (ma non chiusi) i conti con le ragioni del proprio poetare, la raccolta successiva, “Nuvole dalle braccia”, muove il passo verso contenuti più accesi e – si direbbe – più concreti. Si staglia al centro una storia d’amore con tutta la sua meravigliosa fisicità, affidata nell’espressione a colori forti e immagini alte (Tùrbina, / d’un rosso mai generato, / la rosa: / vertigine ascendente, / il nostro possederci.), ma anche con tutte le sue problematiche, perché l’amore e il dolore non sono disgiunti, ma si compenetrano nella problematicità della vita, la quale a volte non vuole accondiscendenza ma pretende anche pianto (Per arrogante / consolatorio sole, / s’arresta sui solchi / l’andar di pioggia. / A forza arreso, / rimane secco, / aspro dolore / come di terra / che abbia / desiderato pianto: // no, non parlarmi! / Volgi da me lo sguardo.). Per cui: S’ammaina lo sguardo / -nero vessillo- / sulle omissioni.
La forma, nella strumentazione retorica, resta fedele a Ungaretti, ricordando ora piuttosto quello di certe liriche di “Sentimento del tempo” segnate da violenze di colori tra le forti analogie e le sinestesie frequenti. Ne è prova anche questa strofe (da “Dimmi di te …”): Solo il dolore / accende i cromatismi, / dirompe, / spacca. O ancora: È brillare di mina / il tuo sorriso, / spezza le mie ore di pietra. Il tutto sempre alla ricerca della verità, inseguendo il pensiero sfuggente: Si accuccia, / nei grigi recessi, / vacillante pensiero. // Non v’è coscienza che interroghi. / Solo un brivido / -come freccia- / impressiona l’anima. E ancora: È un sussulto / il pensiero: / […] / Su scorticate fessure / ad iridi fisse, ogni risveglio / -è del sé- / pericolosa ricerca.
La metrica in questa fase, pur restando sostanzialmente ancorata al primo Ungaretti, presta qualche attenzione al numero delle sillabe, offrendo molti versi pari e aprendosi a qualche ardito endecasillabo (nulla possa impedirmi di percorrerli – il silenzio del mio vuoto interiore) o novenario (Sfrondati, essenziali, eloquenti – s’attarda, nel molle interiore – Scrocchiano alla furia del vento …). Ma è solo un momento: la poesia di Laura Chiarina si attesta ben presto stabilmente come poesia della parola, a volte della frase (anche le “soluzioni” metriche montaliane sono qualche volta sfiorate ma mai adottate per davvero). Una poesia che è alla ricerca del senso di se stessa, come si evince dalla lirica di chiusura della raccolta, che sembra richiamare coerentemente la chiusa della raccolta precedente: Cos’hai fatto Poesia? / Ora, cosciente della propria nudità, / Lei teme. / Dalla sassaiola / delle mie parole, / ecco, la protegga, / il manto soffice / della dimenticanza.
Spero non appaia, a questo punto, poco corretto parlare di inediti, specie se, come nel caso nostro, gli inediti sono abbastanza numerosi da far presagire una nuova raccolta, che però richiede ovviamente l’intervento selezionatore e coordinatore della stessa autrice. Cosa che ci auguriamo avvenga presto, limitandoci qui alla segnalazione di alcune “perle” sul piano dell’evoluzione del discorso poetico e su quello dell’evoluzione della forma poetica.
Innanzitutto, riscontriamo il passo decisivo verso la consapevolezza piena del ruolo della poesia e del proprio ruolo di poeta all’interno di una lirica del 2015 intitolata “Sotto la neve, pane”, in cui, dopo aver richiamato il “Nun sugnu poeta” di Buttitta, confermandolo e rovesciandolo al tempo stesso in un “Sì, sono poeta”, Laura Chiarina afferma: Stringo tra le dita / lo strazio di anime / e cose; / mi trapasso, trapassando, / strapazzo la furia, / poi rido, mi pento e sorrido; // scrivo.
Si tratta, se non andiamo errati, di un’energica affermazione della condizione del poeta, che vede nella propria vicenda esistenziale la vicenda di tutti e in quella di tutti la propria (si ricordi ancora una volta Ungaretti e il senso del titolo della sua opera, “Vita d’un uomo”) e solo dopo un percorso interiore di sofferenza, rifiuto, revisione del proprio rifiuto, accettazione serena della sofferenza, approda alla scrittura, riconoscendo – e offrendo – se stesso come esemplare di umanità.
Non è questa la sola, fra le liriche inedite che ho avuto il privilegio di leggere, ad affrontare il problema cruciale del rapporto poesia-vita, connesso al rapporto poeta-lettore. Qua e là il problema si ripropone, essendo coincidente col problema della vita stessa.
Il percorso di Laura Chiarina prosegue fra l’individuale e l’universale, fra le vicende private con i suoi aspetti belli e brutti e quelle dell’economia internazionale con le sue ingiustizie alle quali il poeta non può sentirsi estraneo (e sbotta a un certo punto: L’errore sta / nel pronome di possesso), fra il piccolo tempo della nostra vita individuale e il grande tempo della storia (Serve la falcata del millennio, / alla forma solenne degli ulivi), fra l’atavico e il nuovo, fra esistenza in fieri / e compiutezza d’atto, …
Ci fermiamo qui, in attesa di una prossima pubblicazione di Laura Chiarina, nella quale pensiamo di poter intravedere – facile profezia – uno sviluppo ulteriore di una riflessione sempre più aperta alla vita e sempre più ricca di spunti.
Speriamo di non essere andati lontano dalle intenzioni della poetessa. Ma se siamo usciti un po’ fuori del seminato, ringraziamo Laura Chiarina anche di questo: la poesia – ma direi l’arte in genere, dalla letteratura al teatro all’arte figurativa – ha la sua utilità nell’utilizzo che se ne può fare.