Se nel Settecento c’era stato il (sia pur solitario e perdente) exploit di Galiani che voleva il napoletano lingua dello stato borbonico, nell’Ottocento questa pretesa è ormai fuori discussione: chi scrive in napoletano lo fa per motivi letterari.
Infatti nel primo Ottocento i generi dialettali più praticati furono la poesia e il teatro. Con la differenza ovvia che, mentre la poesia aveva pretese (a volte fondate a volte no) di letterarietà, il teatro era un elemento vitale della società partenopea.
Basti citare la famiglia Cammarano, che diede attori, artisti e letterati (dal pulcinella Vincenzo, detto Giancola, ai suoi figli Salvatore librettista, di cui si ricorderà Il Trovatore di Verdi, a Filippo commediografo, fino al nipote pittore Michele, per limitarci ai più degni di nota).
Parlando di traduzioni, è a Filippo Cammarano che va fatto il primo riferimento. Tradusse (o ridusse) in napoletano commedie di Goldoni.
Queste traduzioni andavano ben al di là della trasposizione linguistica, visto che i personaggi e i luoghi di Venezia e dintorni diventavano altrettali di Napoli, ben riconoscibili dal pubblico partenopeo.
Così i litigi fra le donne di Chioggia (Le baruffe chiozzotte) diventano L’appicceco de li funnachere a lo Muolo piccolo, e Le smanie per la villeggiatura sono Li femmene attarantute pe’ la villeggiatura a Puortece.
Non va taciuto il barone Michele Zezza, che tradusse da Metastasio, Pope, Molière. Citiamo per tutte Lo malato d’apprensione dal Malato immaginario di Molière e Metastasio a lo Mandracchio zoè La Dedone abbandonata (dalla Didone abbandonata di Metastasio).
Certo diverse da una traduzione sono le parodie. Ma come esimerci dal citarne almeno una, visto che maestro nel genere fu quell’Antonio Petito che rappresentò il nuovo Pulcinella a cavallo fra l’epoca dei Borbone e quella dei Savoia? Quando arrivò al teatro Bellini di Napoli l’operetta La belle Hélène di Offenbach, il Petito mise in scena tempestivamente ’Na bella Elena bastarduta nfra lengua franzesa, toscana e napulitana allo triato de Vuosco Tre Case (1869, Teatro Nuovo). Era lo sberleffo popolare alla puzza al naso del ricco che si recava al teatro perché “noblesse oblige”. Il che si può dire anche per altre sue parodie, quali Faust, Francesca da Rimini, Otello.
Nel teatro d’altronde la traduzione, più spesso riduzione e adattamento, è frequentissima. Tutti ricordiamo il debito di Eduardo Scarpetta verso il vaudeville francese, diventato però talmente napoletano da non far avvertire il desiderio degli originali.
Passando alla poesia, va citato in primo luogo Gabriele Quattromani con la sua versione delle Odi di Orazio (Ll’Ode de Quinto Arazio Fracco travestute da vasciaiole de lo Mandracchio). Interessante la figura di questo letterato, che fu un rivoluzionario dell’Italia unita fin dai moti del 1820, poi “perdonato” dal governo borbonico, da lui servito come funzionario per poi essere coinvolto, nell’Italia ormai unificata, nel 1863, in un processo per sospetto tradimento che gli costò dieci mesi di carcere.
Tornando al nostro tema, abbiamo altre traduzioni “culte”, quali le elegie di Sesto Properzio tradotte da Carlo Morbilli e le Odi di Anacreonte di Giuseppe Rivelli.
Un gruppo a sé formano le traduzioni di opere religiose, fatte con lo scopo prevalente di avvicinare la religione alla comprensione del popolo. La più notevole è forse lo Stabat Mater di Jacopone da Todi, tradotto da Tommaso Bonito, senza tralasciare i Sette salmi penitenziali tradotti da Ferdinando Bottazzi.
Vi furono anche tentativi sulla Commedia di Dante, ma nessuno di essi andò oltre i primi canti dell’Inferno. Certo la complessità dell’opera è tale da scoraggiare qualunque traduttore.
Nella prima metà del Novecento le traduzioni, non moltissime, hanno seguito la cultura e il carattere dei poeti che le hanno realizzate. Ne fecero sicuramente molti importanti autori, ma non le considerarono essi stessi granché. Ci piace ricordare, per la sua delicatezza, l’idillio di Leopardi Alla luna tradotto da E. A. Mario e pubblicato in seno a un oggi introvabile libretto intitolato Funtane e funtanelle, in cui compare appunto una sezione di traduzioni (Cose ’e ll’ate):
Luna aggraziata mia, mme vene a mente
ca, mo fa ll’anno, ’a ccà ncoppo io venevo
a te turnà a guardà, triste e nguttuso.
E tu pennive ’a parte ’e chella selva,
comme faje mo, ca ’a schiare tuttaquanta.
Ma ’a faccia toja, ntruvuliata – e comme
tremmasse – accumpareva a st’uocchie mieje
nfuse ’e chianto: chiagnevo pecché ’a vita
mm’era pesante, e mm’è pesante ancora,
oje bella luna! Eppure mme fa bene
’o ricordo d’ ’e llacreme; e i’ mm’ ’e cconto
a una a una. Ah, quann’è ancora ’o tiempo
d’ ’a giuventù, ca cchiù a scurdà fa priesto
e cchiù tene ’a sperà, comme cunzola
chistu ricordo d’ ’e ccose passate,
cu’ tutto ca so’ triste, e ’a pena è ’a stessa!
Riprende il gusto di tradurre verso la fine del secolo scorso, con la citata Tempesta shakespeariana di Eduardo, scritta in un napoletano del Seicento, e dunque opera di ripresa colta di un originale che viene rivisitato nel napoletano della sua epoca.
Degli stessi anni va citata la poco nota antologia di traduzioni dialettali Da Saffo a Lorca, di Paolo Cristiano (1988).
Negli ultimi decenni c’è stato un vero risorgere del genere: dai carmi di Catullo (Renato Casolaro e Amedeo Messina, coevi ma distinti e indipendenti l’uno dall’altro) alle Favole di Esopo e al Pinocchio in versi di Adriana Fiore, ai sonetti di Belli di Giovanni Boccacciari, ai classici affrontati da Roberto D’Ajello (Piccolo principe di Saint-Exupéry, Pinocchio di Collodi, Canto di Natale di Dickens), a uno scorrevolissimo Vangelo di San Marco del sacerdote Antonio Luiso (2013), che fa paio con quello di Renato de Falco (1999), ai Rispetti di Poliziano, delicatamente resi da Claudio Pennino (2006).
Ultimi di cui abbiamo notizia, nove canti scelti dalla Commedia dantesca, di Nazario Napoli Bruno, e 30 sonetti di Shakespeare traditi e tradotti da Dario Iacobelli. Ma altri continuano di tanto in tanto a fare capolino sui banchi delle nostre librerie.
Ci permettiamo, per concludere, di segnalare Angelo Tortora, che pubblica su Facebook di tanto in tanto traduzioni molto “viscerali” dai più famosi poeti lirici dell’antichità greca e latina (si può gradevolmente spulciare fra il profilo del Tortora, il sito Floralia Nova, il gruppo fb Gli amanti del vernacolo). Segno che l’attività incuriosisce ed attira ancora al giorno d’oggi, tanto che ci scusiamo in anticipo con tutti quelli di cui non abbiamo avuto notizia, ma che sicuramente operano in questo senso.