L’uomo, come ci dice il filosofo Ernst Cassirer, è da sempre un “animale simbolico”, un essere in grado di sollevarsi dalla sua “natura biologica” per accedere a una sua “natura rituale”, capace di creare “cultura.
Ogni aspetto della vita umana è stato, fin da tempi remotissimi, rivestito di simboli e più di ogni altro quel momento della vita che sembra porre fine al tutto. La morte è rappresentata e simbolizzata nelle tradizioni popolari di tutto il mondo e il giorno dei morti ha assunto una funzione importante nella storia delle comunità umane.
Questa festa è celebrata ovunque nello stesso periodo in cui secondo Mosè ebbe inizio il Diluvio universale, avvenimento significativo in tutta la mitologia dei popoli antichi. Dio punisce l’intera umanità per i suoi peccati, ad eccezione di Noè e della sua famiglia, rifugiatisi nell’Arca, e gli uomini che verranno dopo sono spinti a riflettere sulla dialettica morte-vita e a trovare in essa un passaggio e un riscatto alla pena del vivere e a quella del morire.
La celebrazione dei morti diventa un giorno di festa, a conferma che la morte è un evento della vita. La tradizione popolare istaura questa necessaria continuità tra passato e presente, tra mondo invisibile e realtà visibile, celebrando coloro che non ci sono più e che abbiamo amato, fondendo il mistero della vita con quello della morte.
Si riallacciano fili che parevano interrotti per sempre, si raccontano storie di “confine”. I morti portano regali ai vivi come facevano in vita e i vivi preparano cibo per loro. Così si esorcizza la morte con gesti quotidiani, si comprende, si accetta il comune destino umano e lo si celebra.
Esaminando le varie tradizioni popolari si scopre che i punti di contatto sono molto più numerosi delle differenze.
Nel Nord America i morti si festeggiano nella “notte di Halloween” col sopravvento di streghe e fantasmi, sembrerebbe un trionfo del “demoniaco” dove niente di sacrale sia restato, ragione per cui la Chiesa l’ha contestata, ma la sua origine è decisamente europea, portata nel nuovo continente dalla cultura puritana lì emigrata, comunque radicata nell’antica cultura celtica che celebrava l’alternarsi di vita e morte nei cicli delle coltivazioni e che è penetrata poi nel resto del Nord Europa fondendosi con le credenze locali.
Nel Sud America, specie in Messico, i morti camminano per il mondo, li rappresentano scheletri stilizzati e allegri a cui vengono dedicati altari pieni di immagini e fiori, che danzano per le strade festeggiando il loro momentaneo ritorno alla vita.
La tradizione dei morti per noi Italiani nasce nel bacino del Mediterraneo, dalla cultura grecolatina, dall’incontro di riti e miti venuti anche dall’area mediorientale, dalle coste dell’Africa, dalla civiltà egiziana, dalla popolazioni nuragiche della Sardegna, un crogiuolo di culture confluito poi nella cristianità che, attraverso la Chiesa, come sempre abile in questo, ne ha incorporto gli usi e i costumi, oltre che spesso i significati e i simboli, respingendone solo alcuni aspetti in contraddizione coi principi della dottrina.
In tutte le regioni italiane i morti visitano i vivi e i vivi ricambiano portando fiori e lumini ai loro luoghi di sepoltura. La visita dei morti è un momento da celebrare con luci, con banchetti, con la gioia dei bambini, col rinverdire dei ricordi. Solo quando si ricambia la visita, a volte, nei cimiteri, si piange qualche lacrima. Ma poi si ritorna a casa.
Nelle nostre case si espongono i ritratti dei defunti, si accendono lanterne e candele, si cucinano dolci speciali ( come, per esempio, i “papassini” in Sardegna, i piccoli dolci di marzapane in Sicilia, gli “ossi di morto” di pastafrolla in Veneto, Il “torrone dei morti” in Campania) per alimentare le anime dei morti e sfamare i corpi dei vivi, vivendo appieno la dimensione di un incontro che alimenta storie e costruisce la memoria.
A Napoli la morte è trattata senza paura tra rispetto e ironia, a Napoli la morte è rappresentazione, teatro, come la vita. Basta ricordare tra i tanti esempi possibili, “A livella” di Totò, “Questi fantasmi” di Eduardo De Filippo, dove i morti insegnano, stanno sempre con noi, nascosti negli angoli della casa, pronti a intervenire nelle nostre vite, a parlarci.
I Napoletani sono maestri nell’evocare i morti, perché come ci diceva lo scomparso Leo De Berardinis, (attore, regista, drammaturgo di notevole valore, nato in provincia di Salerno): “Nuie u cimitero u sapimme fa” (Noi il cimitero lo sappiamo fare), battuta di un suo celebre spettacolo del 1974, “Chianto ‘e risate e risate ‘e chianto”, un’intera suggestiva filosofia della vita e della morte.