Alla sua casa arrivava tutto e tutto si fermava: l’odore aspro del Riachuelo, le grida dei ragazzi, la domenica, dalla Bombonera e la follia del quartiere. La sua casa erano anni che sembrava essere sul punto di crollare, però continuava come una ferita aperta eppure salda, in quell’angolo dove a volte alcuni -colpevoli o innocenti non aveva la minima importanza- restavano catturati.
La “tana” aveva un’età imprecisa e memorie vive della sua bellezza.
Qualcosa di lei, negli occhi e nel gesto con cui s’affacciava alla finestra, diventava indimenticabile. Però il suo nome, questo sì, se l’erano scordato, elemento innecessario, ridondante che non avrebbe potuto aprire nessuna porta.
Lei apriva la sua porta e neppure chiedeva agli altri il loro nome. Uno poteva restare sotto il suo sguardo in un lungo silenzio, senza perdere il suo sorriso, senza provocare domande o pretendere significato.
Gli altri, quelli che accompagnavano, aspettavano fuori. Non sapevano, mai seppero quello che accadeva dentro, si fermavano sul marciapiede fumando sigarette scadenti, facendo scommesse, parlando della disgrazia, di quello che non meritavano, di quello che si era andato spezzando nel corso del tempo.
L’unica attitudine che non si permettevano era l’impazienza. Potevano giocare a carte per ore o amoreggiare o contare le barche nel porto, riconoscere come il vento nascondeva nelle fessure delle pareti i suoi racconti salati, potevano restare tutta la notte senza mangiare né sedersi, camminando, ridendo tra loro, riscuotendo il calore di una lacrima respinta, potevano rimanere uniti e coltivare inopportune solitudini.
La follia se n’era restata dentro, loro l’accompagnavano soltanto, le mostravano la casa d’angolo e giocavano con il tempo.
Così la “tana” era diventata nel quartiere un mistero condiviso.
Nessuno si ricordava della prima volta. Molti anni prima lei cuciva vestiti per fuori, aveva un innamorato con occhi azzurri e i suoi genitori ancora vivi, odorava di pulito e di mandarino e sul suo corpo mediterraneo, quando si muoveva per le strade del quartiere, si fissavano gli sguardi degli uomini.
Tutto cominciò di colpo; ogni vicino può raccontare la sua storia, ripetere circostanze, evocare fantasmi. È certo che ci fu un primo, però si perse il racconto tra i molti che seguirono.
La “tana” smise di cucire, lasciò il suo innamorato o lui la lasciò, questo non lo sa nessuno, lasciò che la morte serena dei suoi genitori la collocasse in quel luogo di veglie, di richieste disperate e di pericolosa pienezza che le veniva dal suo inspiegabile e imprevisto potere.
Le avevano portato bambini che erano impazziti in un pomeriggio di giochi, che non riconoscevano i propri genitori vedendoli alla fine del giorno, le avevano portato donne dai seni morbidi e anima dura, che lasciavano il loro sangue scorrere lungo le gambe e si coprivano il viso con veli rotti e polverosi tirati fuori da vecchie casse, le avevano portato ragazzi di commovente bellezza che erano impazziti per amore o dietro un sogno perduto e uomini senza aver vissuto o affogati nelle loro vite, e vecchi che avevano smesso di ascoltare e di parlare, schiacciati dal peso dei loro stessi ricordi e molti altri, altri che già non conservavano traccia se non nel suo cuore, nelle sue mani ferme e amorose che non vestivano più corpi, però cucivano anime dentro pelli crocifisse.
Como lo facesse, lei sola, in una casa abbastanza umile, lei senza studi, senza magia, semplicemente con le parole che le uscivano di bocca, sconosciute fino a un momento prima anche a lei, con il gesto con il quale rinchiudeva nelle sue mani il tremito dell’altro e lo sguardo dei suoi occhi neri che cercavano l’altro tra sguardi perduti, come lo facesse, nessuno voleva saperlo. Per tutti, quello che importava era che chi usciva da quella casa d’angolo lasciava dentro la sua follia, ritornava ad essere riconoscibile, quello che era prima che qualcosa di estraneo, di terrificante gli accadesse.
Quando la “tana” camminava per il quartiere i suoi beneficiati ne cercavano l’attenzione con volti luminosi; ancora una volta lei percepiva le loro storie e i loro segreti. Quelli che la ringraziavano erano gli altri, quelli che accompagnavano, quelli che provavano a farle regali che lei non accettava. A lei era sufficiente la luce che i suoi pazzi le permettevano di condividere.
Così un giorno, scendendo dalla sua nave, in un’ora di riposo, seduto in un baretto, parlando, bevendo e raccontando di viaggi a compagni improvvisati, un giovane marinaio spagnolo vide la donna attraversare la strada, avvolta nel chiarore che i visi di molti bambini e donne e uomini proiettavano su di lei. Mai aveva visto niente di simile, si guardò intorno per ritrovare anche negli altri la sua stessa sorpresa, però nessuno sembrava vedere quello che lui vedeva. Allora smise di parlare di viaggi e cominciò a fare domande su di lei, la sua età, il suo nome, chi era, quello che stava accadendo lì.
I vicini lo guardavano senza sapere come fermare la sua curiosità, non erano disposti a raccontargli nulla, dopo tutto era uno di fuori, simpatico, bravo ragazzo, però sempre di fuori. Cercarono di farlo tornare alle sue avventure, gli offrirono birra, lo accompagnarono per Caminito mostrandogli tra lamiere e colori come si può dipingere il dramma della vita, però non poterono tirarlo fuori dalla sua persistente ossessione.
Alla fine, quasi all’alba, vinti dalle sue domande ostinate, gli raccontarono la storia, o per meglio dire, quello che sapevano della stessa.
Il giorno dopo il marinaio bussò alla porta d’angolo. La donna aprì la finestra e lo guardò. Nessuno lo accompagnava, nessuno voleva cambiarlo. Del tutto solo sul marciapiede deserto il ragazzo le disse: “Mi hanno raccontato che lei cura i pazzi. Ne ho bisogno” e già spingeva la porta con le sue braccia forti. La donna scese ad aprirgli, lo lasciò entrare nell’ombra. “Questo non sarà un gioco” mormorò.
Il marinaio si ricordò di luoghi lontani e di lune rosse nel cielo. Sentì qualcosa nelle sue ginocchia e nel suo petto, però lei già gli aveva preso il viso tra le sue mani.
Il marinaio spagnolo, si raccontava, fu l’unico uomo sano che, uscendo dalla casa di quella donna, si portò con sé intatta e assoluta la sua follia.
Foto di Grazia Fresu per Cinque Colonne Magazine