Il “Lasciatemi divertire” di Aldo Palazzeschi, cioè il giocare con le parole, lo troviamo – per fortuna – in un buon numero di poeti contemporanei. Ma perché si gioca con le parole? Si gioca con le parole, no per un semplice divertissement ma ˗ come dice Giangiacomo Amoretti ne Il gioco della poesia1 ˗ «[per] un tentativo di rompere il continuum dell’esperienza quotidiana, dominata dalla coscienza e dal senso della realtà, per aprirlo a una verità diversa», alla traslazione del quotidiano.
La sfida dei “manipolatori di parole” è con loro stessi e con il linguaggio che vorrebbero gli appartenesse con la sua piena autonomia eteronima e riproposte ascrivibili non al proprio quotidiano contraddetto dal paradosso e all’antinomia. Ma cosa vuol dire “traslare il quotidiano”? Proprio quello che stavamo dicendo, lavorare per una poesia/linguaggio/scrittura antinomica che non dica di sé, del sé poeta, ma che vada al di là di ciò che quotidianamente facciamo, in modo da postulare un continuo movimento “del fare”. In buona sostanza allontanarsi dal proprio dettato autobiografico, dalla routine di tutti i giorni che forse non interessa nemmeno al poeta stesso.
Si sa che la parodia e il nonsense sono due importanti attrattori affinché in poesia emerga il “giocare con le parole”, quasi due anarcoidi, nella forma e nella sostanza, ma non per questo meno curiosi e interessanti. È una «rivoluzione della mente», se vogliamo, come dice Italo Calvino, non meno seria e sensata. E un po’ tutti i poeti, quando il clima si fa tragico ed incerto, «anche la “vecchia” poesia italiana si trasforma, facendosi in essa meno netti i confini tra senso e nonsenso, tra serio e tragicomico ridicule […, ma soprattutto la “nuova”, anzi la “neo” a cominciare dagli anni ʼ60]. Sanguineti ad esempio, soprattutto dagli anni Settanta, infila nei suoi libri, quasi uno dietro l’altro, tautogrammi, ribattimenti leporeambici, acrostici acrobatici (da qui un titolo come Acrobistico), invenzioni e scomposizioni lessicali come “versavice viceversa e dice” alla maniera del Carroll di Jabberwocky. C’è poi Antonio Porta, che nella sua famosa antologia per Feltrinelli, Poesia degli anni Settanta, celebra – come scrive lui – “l’ultrasenso del nonsenso” di Toti Scialoja, tanto da rivendicarne una certa organicità al discorso della neoavanguardia. E ancora nell’antologia portiana ritroviamo poeti della Neoavanguardia di seconda generazione ad alto contenuto nonsense come Corrado Costa, Vincenzo [Adriano] Spatola o Giulia Niccolai»2.
Uno dei poeti contemporanei che gioca con le parole è senza dubbio Carla Bertola che è anche una eccellente poeta visiva e sonora:
Berenice Berenice
bere anice non si addice
Il berbero burbero bercia in berberesco ˗ mai bere barbaresco ˗
La bergère berce le berceau ˗ ma non beve solo l’eau ˗
Bere cin zio e cin zia che bere ci formi! Nel bergamasco con voi berrò.
La dolce berceuse si fa berleffe del berillo, la berghinella bergola
assai, alla berlina non ci va mai?
Berk ber ché? Berlicche lecca chicche viaggia in berlina fino a
Berlino, spende berlinghe in berlingozzi (che almeno s’ingozzi) alla
berlocca.
Ber ma alle Bermude, cacciando bernacle un poco bernecche,
berneggiando qua e là.
Sfoggiavo una bernia (dopo la sbornia) che
bernoccolo sotto il berretto!
Il berrettaio ha la berretta facile, più del fucile. Chi ha il ber retto
può bere assai
Il bersagliere berrovéria il bersaglieresco ben fresco,
anche il bers’aglio ber sà.
Ber so, Berta cara, Berta bello è ber e berteggiar, ma attenta che la
bertesca ti addesca.
Bertibello, Bertino, Bertocchio, Bertolo finto tonto. Bertone lenone,
Berto vello di bertuccia.
Se ti tolgo dal berretto, un beruzzo di berzemino te lo fai? (al Bar
Zemino mi troverai)
(In «Risvolti», n. 1, settembre 1998, pp. 32-33)
Carla Bertola vive a Torino dove è nata nel 1935. Artista visuale scrittrice performer promotrice di iniziative culturali ha partecipato a moltissime mostre internazionali. Numerose le mostre individuali così come le performances di poesia sonora e d’azione in varie città europee oltre che in Canada Messico Brasile Cuba. È stata Artist in Residence presso il Sirius Arts Centre in Irlanda nel 2010. Ha editato e diretto dal 1978, insieme ad Alberto Vitacchio, la rivista internazionale multimediale «Offerta Speciale» ed eseguito il maggior numero di performences sonore e pièces denominate Poesiteatro. Ha pubblicato soltanto due libri di poesie lineari (almeno in Italia), I Monologhi, (SIC, 1973) e Ritrovamenti (Eureka Edizioni, 2016). I suoi libri verbovisuali libri d’artista e poesie si trovano in molti cataloghi, antologie, collezioni pubbliche e private, riviste cartacee e online («Letteratura»; «Altri Termini»; «Carte Segrete»; «Uomini e Idee»; «Anterem»; «Testuale»; «Salvo Imprevisti»; «Amenophis»; «Plages»; «D(o)cks»; «Dopodomani»; «Risvolti»; «L’Intranquille»; «Otoliths»; «Ulu-late»; «Margutte»; «Utsanga»; «Frequenze Poetiche», etc.). Una rappresentativa selezione delle sue opere è presente al Museo della Carale di Ivrea. Tra le antologie segnaliamo Poesia Totale (Mantova, 1998); A point of View Visual ʼ90 (Russia, 1998); Libri d’Artista in Italia (Torino, 1999); International Artists’ Books (Ungheria, 2000).
Ma chi è veramente Carla Bertola? Ad una rivista non-rivista on line, «Margutte» (così si definiscono i responsabili, anzi, le responsabili di questa rivista: Gabriella Mongardi e Silvia Pio), così si autodefinisce: «Ho cominciato a scrivere da ragazza, senza nessun indirizzo e poche conoscenze letterarie, anche se leggevo molto già a 15 anni […]. Verso gli anni ’60 ho iniziato a scrivere poesie di una certa consistenza, ispirate dalle letture dei contemporanei Ungaretti, Quasimodo, Gatto. Mi rendo conto adesso che quello che mi attirava, inconsciamente era la musicalità dei loro versi, il ritmo impresso alla parola. Iniziai anche a pubblicare qualche poesia su riviste letterarie. Squarotti mi recensì dicendo che ero la miglior scrittrice su piazza, peccato che lo dicesse di tutti. Anche se non ci credevo, mi azzardai a inviare dei testi al Premio Città di Amalfi, che era presieduto da Quasimodo, ma non ricordo l’anno. Fatto sta che ebbi il terzo premio e lui morì di crepacuore.
Sul finire degli anni ‘60 cominciai a scrivere testi interessanti e nel ’72 Franco Cavallo mi pubblicò un libretto I Monologhi nella collana Sic, che purtroppo ebbe breve durata.
Erano anni che si leggeva molto in pubblico e io stessa organizzai delle serate di poesia e partecipai a degli incontri con altri poeti. Leggendo in pubblico ci si ascolta e ci si confronta. Si capisce anche cosa si vuole o non vuole fare.
Non saprei dire esattamente come venni a conoscenza di scritture verbovisuali. Certamente con la “scoperta” del Futurismo e del Dadaismo. Per approdare alle esperienze del Gruppo ’63 e sentendo io stessa il bisogno di sperimentare nuove forme di scrittura.
Non sono mai stata molto incline al sentimentalismo nella poesia. Anche nei miei testi “seri” si intravedeva una vena ironica e «un’assoluta mancanza di pietà verso me stessa» (a detta di un critico che mi criticava anche, meno male)»:
La Ballata dei Saldi
saldi saldi saldi saldi saldi saldi saldi saldi
la tendenza è forte ma la carne è in scatola
vendita promozionale
a chi va bene a chi va male
pochi soldi saldi saldi saldi sa tanti saldi
sa saldi sa
melamangio viva melavvito al dito
dietro di lei il deserto dopo di lui il diluvio
davanti a noi il disastro
liquidazione totalitaria
saldi oh yes soldiiiiissssmmmiiiiii oh yes
svendiamo sìì veniamo ci sveniamo non svenite saldiamo sa sal
fuori i saldi o sparo saldi subito spero
Il mio corpo ti salderà
3×2 sei fregato quante volte la luna ho sognato… saldi… saldi
Saldano i bastimenti
occassioni ocasssioni occasioni stracciate straccioni occasionali
i sogni si avverano i saldi si azzerano prezzi pazzi pazzi siamo a pezzi
prezzi fissi siete pazzi signori e signore signore ascoltaci
signore dacci la saldezza eterna
Macbeth you’ll sleep no more all is sold so sad no sales nomore
Un saldo nel buio
tenetevi ai soldi tenetevi saldi teniamoci i soldi saldisolsalsolsasooo
si saldi chi può
(in «Offerta Speciale», n. 6, novembre 1990, p. 18)
Dunque, la poesia bertolana è costellata d’ironia spensieratezza allegria; tristezza malinconia aggressive invettive, che a detta della stessa Bertola sono stati i sentimenti sui quali gli editori (italiani, naturalmente) accampavano sempre qualche scusa per non pubblicarla. La poesia di Bertola si compone anche per accumulo, associazione di vocaboli, dissociazioni, allitterazioni, calembours; una fonetica del significante che viviseziona parole e segni con il ritmo e il suono che incalzano ad ogni angolo del foglio che spesso viene occupato (ma sarebbe più adatto dire invaso) in tutto il suo spazio bianco, creando la cosiddetta “parola che si vede”. E non potrebbe essere altrimenti, visto che Bertola è anche una importante poeta visuale.
Potremmo dire anche ˗ forse senza essere smentiti ˗ che la poesia lineare di Carla precludeva e preclude in sé tratti di “visualità” fin troppo evidenti, e soprattutto le linee guida delle sue performances sonore. D’altronde, nella nota a Ritrovamenti, ci confida che «La mia scrittura ha iniziato un’evoluzione costante alla fine degli anni ’70 incontrando la poesia visuale e poco dopo la poesia sonora.
Tuttavia, rileggendo i testi degli anni sessanta, sparsi in qualche rivista storica del periodo, ritrovo già un ritmo che doveva segnare il percorso successivo fino alle performances e alle opere visive delle attuali installazioni». Un tempo dicemmo che i suoi testi nascevano da sensazioni momentanee e/o spontanee, senza premeditazioni, da spunti spinti sul foglio alla rinfusa, figli del caos. Ma ben altra è la struttura del suo linguaggio. C’è da ribadire ancora una volta che il ritmo e il suono dei fonemi, spesso squamati come si squama una spigola da indesiderate anossie siderali, sono i cardini del suo discorso poetico, più ˗ forse ˗ della voglia di dire o di fare, che pur “dicono” e “fanno” questi versi.
Docile e allo stesso tempo sorniona, Carla Bertola, con gli strumenti della consapevolezza e dell’esperienza, ci conduce nel suo mondo, quasi in punta di piedi, dove ogni cosa viene sostituita dal magma della concretezza, dove ogni azione è fecondata da un’azione più prepotente, sia pure per accumulo di parole frante e scorporate da un io lirico e melense di tanta poesia in circolazione («… Salina Lina sa cosa? / Sa lino e seta e lana e / Salì nella Salicornia e Saliva la Saliva / Sali scendi Salimetro salì metrò / Salmi per una Salma Salmastro per un Salmì / Salmodìa sal mi dia il sal m’odia / Sal modico o poco prezzo…3).
Quindi si riscontrano tracce di nonsense («Sa lato per lato per / Salpa salpinge…»), di limerichs, d’irrisione pungente («S’Alice nel Salicento sogna l’aceto…») che Bertola propone (anche se a volte cautamente) come modo, se non l’unico, per uscire dall’impasse, dallo spaesamento che attraversa la nostra letteratura.
Di qui il senso fisico di vivere dentro le cose, dentro l’azione del corpo, lo spazio tra una parola e l’altra (a volte quasi “siderale”) come una pulsione struggente che diviene fattore di un tempo di rottura di armonie incantevoli e ipnotiche che rifiuta ogni sistema di certezza di un mondo blatero, col rischio di farsi alleata di una catarsi:
Un foglio bianco
fa paura ha un futuro
imprevedibile strappare non serve
potrebbe servire meglio
scritto se poi è stampato
pubblicato tutto
è concesso come un matrimonio
l’incertezza è logorante crudelmente
disumana specie per quelli
che restano purtroppo non tutti
capiscono certe creature se uno
non le aiuta persino gli insetti
non si lasciano in agonia
ho visitato tanti
bar trattorie affini frequentato
chiese ospedali grandi
magazzini la solitudine
ha sempre un odore
qualche volta puzza raramente
profuma le case nuove
sono tristi perché non manca
niente eccetto la polvere ciò le rende
disadatte all’amore
(Da Ritrovamenti, Eureka Edizioni, 2016, p. 14)
I versi di Carla vivono di una verve spinta e convinta, di un hazard in consapevole controllo: le parole si accostano a vicenda, si sezionano, si scrutano e si spezzano in modo elegante, senza subire violenza, quasi pacificamente, in enjambement fedeli al richiamo di un’analisi ulteriore proveniente dalla conoscenza del poeta. Il che da un lato porta a un automatismo che gira attorno all’enigma, dall’altro ad una parechesi e al divertissement, demistificando la parola nell’uso e nel modo che le sono più congeniali: accoppiandola ˗ è proprio il caso di dire ˗ con segni pieni di virilità di quel suono-ritmo di cui abbiamo già detto.
Insomma, la sua praxis poetica, tra anafore e bisticci di parole, pur restando tutto sommato ancorata al formale, nonché agli estremi di un gioco ludico, in realtà possiede gli strumenti per rimettersi alla funzionalità del Testo. Inoltre, nei versi della Bertola non soltanto l’ironia e l’autoironia sono assicurate, ma anche un andamento scanzonato che sprizza come quando apriamo una lattina di coca cola agitata, per scardinare le coordinate, le consonanze col senso comune, partorendo alla luce del sole quei segni nascosti e immagini “nuove” indispensabili per imbastire un ricamo di vita diversa, al di fuori degli ambienti minimali e ipnotici dei significanti corrotti e usurati, scontati, che l’incomunicabilità del postmoderno4 custodisce gelosamente come un segreto che non gli appartiene, e che solo il poeta che azzarda riesce a vedere e a denunciare.
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1 In «Re[a]daction Magazine», 31 dicembre 2020.
2 Andrea Afribo, Tracce di nonsense nella poesia del Novecento, in «treccani.it magazine», 25 giugno 2008.
3 C. Bertola, Il sale e i suoi derivati, in «Offerta Speciale», n. 5, maggio 1990, pp. 31-32.
4 Secondo Jean Baudrillard (La società dei consumi, Il Mulino), in un mondo frammentario e senza legami, di pura rappresentazione, i modelli finiscono con il sostituire le cose, e il soggetto è spinto ad abbandonare la propria condizione di individuo, declinando le proprie scelte personali, per ridursi a personaggio all’interno del discorso autoreferenziale attraverso cui la società mostra e produce se stessa; un mondo di feticci e simulacri, in cui non c’è alcuna distinzione tra significante e significato, in cui il segno è già di per sé ipersignificativo, è già messaggio. È il famoso capitale “giunto a un tale livello di accumulazione da diventare immagine” (Guy Debord, La società dello spettacolo, Massari editore) (Emiliano Zappalà, Postmoderno e Postmodernità: vivere la nostra epoca, in «sulromanzo.it», 31 agosto 2012).