Si parla tanto oggi della salvaguardia della natura, con dibattiti e manifestazioni nel tentativo di svegliare le coscienze della politica e degli interessi economici statali e delle multinazionali, ma una inversione di tendenza è ancora latitante.
Se la politica e gli interessi economici ridimensionano il problema, la poesia che ruolo assume in questa corsa ai ripari di madre-natura? Lo scopriamo proponendo alcune poesie di poeti contemporanei che amano la natura e la cultura della sua conservazione. È palese che il naturalismo in poesia ha radici molto antiche. In più è stata una corrente letteraria nata in Francia nella seconda metà dell’Ottocento, di cui Émile Zola, Guy de Maupassant, Onoré de Balzac e Gustave Flaubert sono i principali rappresentanti. In Italia il rapporto con la natura lo si trova soprattutto in Leopardi, Carducci e Pascoli. Ma i primi italiani a scoprire la bellezza della natura furono Dante e Petrarca, il poeta di chiare, fresche e dolci acque. A tal proposito così scriveva Jakob Burckhardt in La civiltà del Rinascimento in Italia (Newton & Compton, 1994, pp. 254-255): «È evidente che per gli Italiani [del XII secolo] è già da lungo tempo monda e purificata da ogni influsso di potenze soprannaturali. S. Francesco d’Assisi nel suo inno al sole loda il Signore non per altro, che per la creazione delle luci del cielo e dei quattro elementi.
Ma le prove più convincenti della profonda impressione esercitata dalla natura sull’animo dell’uomo cominciarono con Dante. Egli ci ritrae al vivo in poche linee non solo il sorgere dell’aurora e il tremolar della marina sotto la brezza mattinale o la tempesta che fa tremare le selve e i pastori, ma sale pure sulle cime dei monti con l’unico intento di godere grandiose prospettive, uno dei primi o il primo forse, dopo i poeti antichi, che abbia sentito la bellezza di tali spettacoli […] Con coscienza poi ancora più compiuta Petrarca, uno dei primi uomini perfettamente moderni, mostra l’importanza delle grandi sene della natura per un’anima sensibile. Quel lucidissimo spirito, che per primo cercò in tutte le letterature le origini e i progressi del sentimento pittoresco della natura, e che ha dato lui stesso nei suoi “Tableaux de la nature” i quadri descrittivi più perfetti che esistano, Alessandro Humboldt, non s’è dimostrato de tutto giusto riguardo a Petrarca, ed è perciò che, anche dopo quanto egli ne scrisse, a noi pure rimane qualche cosa da aggiungere. […] Gli si farebbe un gran torto, se dalla sua ancor debole e scarsa potenza descrittiva della natura si volesse inferire in lui una erta mancanza di sentimento. La descrizione del meraviglioso golfo della Spezia e di Porto Venere, per esempio, che egli innesta sulla fine del sesto canto dell’“Africa”, e che non fu mai fatta da nessuno né degli antichi né dei moderni, non è, a dir il vero, niente più che una semplice enumerazione. Ma egli conosce ormai la bellezza, che risulta dal contrasto delle rupi , e sa in generale separare l’importanza pittoresca di un luogo dalla sua utilità».
Tornando ai poeti “naturalisti” contemporanei, in terra irpina ha operato il poeta Pasquale Martiniello (Mirabella Eclano, 1928-2010): tra i suoi numerosi volumi pubblicati troviamo alcuni intitolati al mondo animale (Occhio di civetta; I ragni; Le faine; Il picchio; La zanzara; Le cavallette; Il formichiere). Le simbologie con il mondo animale nella poesia di Martiniello poggiano su lineamenti lirico-epici, antropologici e sociali che rimarcano l’attenzione e la curiosità ad animali, natura, insetti, uccelli a cominciare dalle culture primitive. Ma qui si tratta di poesia, e cosa rappresenta il mondo animale e vegetale nella poesia di Martiniello. Prendiamo per es. il volume Occhio di civetta (Editrice Ferraro, 2006).
Qui la civetta, come nel mondo ellenico, rappresenta equilibrio, quell’equilibro che il poeta vorrebbe realizzato tra l’uomo e la natura. Ma la civetta, ovvero il suo stridente verso, nella tradizione popolare è anche portatrice di sciagure o almeno di annunci di sciagure imminenti, attirandosi la maledizione degli uomini: insomma, l’agire della civetta ha un senso binario: 1) dolce, piena di sapienza, sentinella della notte e della casa; 2) maledetta come orrida strega, chi ti sente sparge sale sulla soglia: «I grandi corvi seguono passo / passo l’attesa del banchetto / la caduta dei bambini dal color / di carbone sfiniti da fame / e sete e malattie // Nel mio paese siamo soffocati / da piramidi di rifiuti benedetti / dal benessere e vegliati da un altro / Dio generoso // Là diavoli a cavallo infuriano / Uccidono incendiano avvelenano / i pozzi già scarsi d’acqua sono / bare di sgozzati // Non c’è un dio di pace per questa / sabbia arsa dal dolore così lontano / Seduti in poltrona ci godiamo urli / cacchiate e lo scempio di Sanremo» (I grandi corvi, da Occhio di civetta, p. 111).
Anche importanti poeti sperimentali e di ricerca, come Franco Cavallo (Marano di Napoli, 1929 – Cuma, 2005), non hanno resistito al “richiamo” della natura, dell’ambiente circostante. Per es. in Blues del Mar Rosso (un viaggio nella terra dei faraoni) che pubblicò con Fermenti nel 1998, sono molti i riferimenti, in particolare ci piace riportare questo testo: «Nel deserto il deserto / si semina da sé / ‒ è coltivatore di sé stesso // e avanza / avanza con le sue / messi aride. // Non dubita. / Combatte soltanto / perché il verde degli uomini non avanzi» (p. 16).
Cosa vuole farci comprendere il poeta, oltre ad un significato capovolto, ingannevole? (il verde degli uomini è l’esatto contrario delle sue intenzioni, è un conquista di territori da sfruttare) Che la natura non ha bisogno della mano dell’uomo per vivere; anzi, quando costui si avvicina non è mai per migliorarla ma per distruggerla. «Franco Cavallo ‒ ci dice Mario Lunetta in postfazione ‒, che dell’ottica piccolo borghese è sempre stato in poesia il detrattore lucido e velenoso, tratta in questi Blues del Mar Rosso del viaggio come disastro, riprova catastrofica di una tragedia storica in cui il Colonialismo Infinito Eterno (per parafrasare Vico) continua a perpetrare disagio, sfruttamento e umiliazione) [oggi ha cambiato nome, possiamo definirlo Imperialismo Economico Infinito Eterno]. Il sacro Egitto del mito, e delle travel agenzie, in realtà non esiste; la valle del Nilo è una distesa di diseredati a pesca di turisti distratti o arroganti; i templi e le Piramidi sono discariche di occidentali intruppati, che l’occhio vigile e famelico dei venditori di cianfrusaglie isola con la mira infallibile di un cecchino: insomma, la leggendaria Civiltà Egizia è ridotta a souvenir» (p. 37).
Sfogliando Embargo voice (Bibliopolis, 2006) di Milli Graffi (Milano, 1940) ci colpisce la prima poesia che incontriamo: «il platano si è messo / impiantato davanti alla mia finestra / dispone i suoi lunghi percorsi di musiche antiche antiche / lente ad arrivare / mostra l’apparato della danza / elefanti alla sorgiva / mi contraggo decurtata alla sua vista totale / e so le belle tracce / ampie / estese là fuori / e verrà il brusio caldo abbraccio / delle mille formicule foglie / e il caldo abbandono / a ripetizione / giovane e longevo» (p. 23).
Qui la natura serve da contraltare per manipolare il linguaggio, anche se l’impaginazione dei testi è piuttosto tradizionale, che fonda la sua struttura sull’allegoria e pluralità dei sensi. «Il manipolare una lingua ‒ sottolinea la stessa Graffi ‒, il πoɩɛĩν, la materialità del fare con una lingua, che è qualcosa di ben diverso dall’usare una lingua per affidarci dentro un messaggio o una comunicazione, è ciò che permette di accedere al più esplosivo dei segreti» (p. 100). E il più esplosivo dei segreti è «una inesauribile strepitosa fonte di allegria e di gioia» (p. 97).
Nelle Corrispondenze, Baudelaire afferma che «La natura è un tempio dove pilastri vivi / mormorano a tratti indistinte parole; / l’uomo passa tra foreste di simboli / che l’osservano con sguardi familiari». Ma oggi possiamo riaffermare che la natura è un tempio dove pilastri vivi mormorano a tratti indistinte parole? Direi di sì, nonostante l’odierna società industrializzata e capitalistica tende ad allontanare l’uomo dalla natura per meglio sfruttarla come e quando si voglia; contrariamente quest’accanimento delle multinazionali nello sfruttare senza scrupoli la natura per loschi fini speculativi finisce, positivamente, per innescare un sentimento non già di nostalgia della natura ma di protezione, un desiderio di riappropriarsi di quel rapporto armonico con la natura vecchio come il mondo e indispensabile per un ritorno all’autenticità.
In poesia, facendosi guidare dalle parole di Gary Snyder (La natura non è un posto da visitare. E casa nostra), poeta statunitense di San Francisco e ambientalista, il “poeta dell’ecologia profonda”, dell’ecopoesia, spesso associato alla Beat Generation, dov’è che troviamo questa indefessa difesa della natura alla ricerca dell’autenticità dell’uomo, della propria origine? Citiamone qualcuno. Tagor: «c’è tale pace profonda e tale immensa bellezza nella natura, proprio perché nulla cerca di trasgredire i suoi limiti»; John Burroughs: «Vado verso la natura per essere cullato e guarito, e avere i miei sensi messi in ordine»; Fernando Pessoa: «La natura è la differenza tra l’anima e Dio».