Pochi romanzi, come La pelle di Curzio Malaparte, edito nel 1949, hanno rappresentato con tanta forza l’identità e il dolore di una città, in uno dei momenti più difficili della sua storia.
Il romanzo racconta un incontro fondamentale per la storia italiana: quello tra gli Alleati sbarcati a Napoli durante il processo di liberazione del Sud d’Italia dai Nazifascisti e il popolo napoletano.
Malaparte, ufficiale di collegamento presso il Comando americano, incaricato di tenere i contatti con la popolazione locale, nato a Prato, in Toscana, ma napoletano nell’anima, tesse un dolente e partecipe atto d’amore alla città, costruendo un potente affresco di questo incontro tra diversi, tra altri, con una scrittura lucida e spietata eppure emozionalmente coinvolta.
Il suo sguardo, in un misto di ferocia che nulla nasconde e di pietà che tutto comprende, fa di questa epopea del dolore e della perdita di sé il più incisivo atto d’accusa contro una “post-liberazione”, sentita dai Napoletani spesso come un’occupazione, divenuta trappola di pregiudizi e inganni, che stringe in una morsa vincitori e vinti.
In un’Italia ancora distrutta dalla guerra nel corpo e nell’anima, che solo in parte aveva ricostruito la sua identità nel suo contributo alla Resistenza, disegna a forti tinte il tracciato di una Napoli tragica, facendone un emblema assoluto, non tanto degli orrori della guerra, quanto degli orrori del dopoguerra.
Quella stessa città durante la lotta contro il Nazifascismo si era trovata compatta e eroica di fronte al nemico, quel nemico da cui si era liberata, prima dell’arrivo degli Alleati, con una ribellione strenua e coraggiosa in cui persino i bambini avevano fatto la loro parte. Ma ora al contatto col liberatore si degrada, per salvare a tutti i costi, non più dalla morte ma dalla miseria, quella pelle di cui si parla nel titolo del romanzo.
La dignità che paradossalmente era stata conservata, sia sotto la dominazione tedesca che sotto le bombe degli americani non ancora liberatori, diventa difficile da salvaguardare quando i liberatori camminano per le strade della città e sotto il loro sguardo bisogna vivere e sopravvivere, costruendo un’immagine che sia per loro riconoscibile, quella di un vinto che si muove tra accettazione della sconfitta e riconoscenza.
La pelle fu fin dal principio un testo molto controverso e per lungo tempo, interpretato attraverso un’ottica ideologica limitata e limitante che non ne ha saputo cogliere lo strordinario valore. Nel 1950 il libro venne persino condannato dal Vaticano e messo all’Indice dei libri proibiti.
Quasi tutti, sia da destra che da sinistra, alla sua uscita lo attaccano: nessuno vuole mostrare i vincitori nelle vesti di corruttori e i vinti in quelle di corrotti dalle circostanze dell’incontro, ma solo tutti insieme proiettati, per il centrodestra, nella visione acritica e messianica di un’Italia che per merito degli Americani (vedi aiuti del piano Marschall) risorgerà tra poco ai fasti di “ un paese industrializzato”; e per la sinistra, proiettati in quella dignità popolare espressa durante la Liberazione che non può mai tradursi nella miseria morale e nella degradazione.
Malaparte, incurante del pensiero dominante, affonda spietatamente la sua analisi in questa via crucis che percorre, insieme ai suoi compagni d’arme americani e in specie con il Colonnello Hamilton, i vari quartieri di Napoli, dai più eleganti ai più degradati, dai palazzi ai bassi napoletani, provando a farsi interprete delle due facce di questa umanità chiamata dalla Storia a incontrarsi.
Fin dalla prima pagina del romanzo vincitori e vinti sono messi a confronto attraverso la dolorosa ironia del narratore e da subito il vinto si presenta come attore di una tragi-commedia a uso esclusivo dei vincitori: un popolo vinto che non si sente tale e che per tutto il romanzo sfuggirà alle etichette che il vincitore tenterà di mettere su tutto ciò che non comprende della sua drammatica contradditoria identità.
Tutto è feroce scambio in questa Napoli stordita dal bisogno, dove l’unica legge è quella della sopravvivenza e dove per salvare la pelle bisogna modellarsi sull’immagine del liberatore, ma solo per recita, per il gioco crudele che la Storia ha imposto a vincitori e vinti.
Pure in questo grande affresco che sembra una delirante scena di Bosch, Malaparte può dire, a conclusione del suo viaggio che : “Non c’è spettacolo più triste, più disgustoso, di un uomo, di un popolo, nel loro trionfo. Ma un uomo, un popolo, vinti, umiliati, ridotti in mucchio di carne marcia, che cosa v’è di più bello, di più nobile al mondo?”
È questa la certezza che si fa strada per tutto il romanzo: che il valore umano dei vinti (i Napoletani) è superiore a quello dei vincitori (gli Alleati Nordamericani), non importa quanto in apparenza degradata appaia la loro umanità nello specchio deformato dell’altro.
Da questo romanzo è stato tratto il coraggioso film omonimo del 1981, diretto da Liliana Cavani, con la splendida interpretazione di Marcello Mastroianni, che ebbe il gran merito di rimettere in circolazione l’interesse per questo libro ingiustamente trascurato, per molto tempo, sia dai lettori che dalla critica.