( persi le forze mie, persi l’ingegno…)
Ci sono domande che i padri debbono fare, senza aspettarsi risposte dai figli. Perché a certe domande si riesce a rispondere solo raggiungendo lo stato di chi ha posto la domanda. Quindi ora che anche io sono padre, posso rispondere o cercare di rispondere a una domanda che Pier Paolo Pasolini rivolse a quelli che sarebbero potuti essere suoi figli, lo erano sicuramente per scarto generazionale e molto di più per comunanza di pensiero.
L’ antefatto: Il 1° marzo 1968 a Roma a Valle Giulia, avvennero dei durissimi scontri tra il movimento studentesco di sinistra da una parte e polizia e neofascisti dall’altra. Furono i primi scontri di una stagione di lotte che allora cominciava e segnarono un punto di non ritorno nei rapporti tra manifestanti e forze dell’ordine.
Da una parte gli studenti si resero conto di poter aver la forza di reagire anche con violenza, dall’altra la polizia comprese che da quel momento ogni piazza poteva rivoltarglisi contro. Fu una perdita di verginità per entrambi.
A seguito di questi scontri Pier Paolo Pasolini scrisse la poesia: “Il P.C.I. ai giovani!“ che, destinata alla rivista “Nuovi Argomenti” uscì, senza preavviso, su l’Espresso scatenando una forte polemica. Nella poesia Pasolini si rivolgeva agli studenti dicendo che la loro era una falsa rivoluzione e che erano solamente dei borghesi conformisti, strumenti nelle mani della nuova borghesia. In pratica con questa poesia, dallo stesso Pasolini definita “brutta”, lo scrittore si schierava dalla parte dei poliziotti da lui definiti gli unici “poveri” in campo in quello scontro, e gli studenti, pur armati della forza della ragione, i “ricchi” figli di una borghesia che si ribellava a se stessa …
La polemica divampò e lo stesso Pasolini si difese in una celebre tavola rotonda pubblicata su l’Espresso.
Questo il clima di quei giorni. Ma quello che mi interessava è che in un’assemblea tenuta all’università a Roma, Pier Paolo Pasolini, a un certo punto, rivolgendosi agli studenti che contestavano le sue affermazioni, rivolse loro questa domanda: “voi che dite e affermate di voler abbattere tutto, per meglio costruire, in definitiva, di fronte alla facciata del Duomo di Orvieto, come vi ponete? “
Eccomi Padre
sono venuto ad ereditare le pietre, lo sguardo, il tempo, la passione e le parole. Ora da padre posso rispondere alle domande rivolte al figlio che fui. Ora da padre posso sapere che nulla si distrugge, di tutto ci si fa carico, delle parole e del dolore e soprattutto delle pietre, che segnano il futuro mentre fanno finta di ricordarci il passato.
Ora so che da figlio, guardando i miei figli, il mio percorso, e quello loro a quella età, è fatto di piccole geografie, segnate, come in un canto, da fossi, sassi, angoli di strada e da
suoni, forse, ma soprattutto da piccoli segni. Ora so che quelle geografie non comprendono, nello sguardo, le pietre dei padri, ché sono di ostacolo, ché sono di impedimento. Ora che i miei figli mi escludono, so come ti sentivi Padre a fare domande alle quali sapevi che i tuoi figli non avrebbero dato risposta.
Ora so, Padre, che le pietre vivono più di molte funeree arti, che nel presumere di ritrarre la vita ne segnano il passo mortale, ora so che le pietre parlano ed è compito dei padri non porle ad ostacolo, ma sfogliarle come libri con i figli, nel dispiegare le apprensioni e i timori.
Guardo questa chiesa che si alza come un canto, guardo questa magnificenza fatta di pietra molto più viva e molto più carnale dei corpi esposti agli angoli del mondo, guardo i terrori e i dolori e vedo che sono sempre gli stessi, guardo le glorie e gli splendori e le mille mani, dei mille scalpelli, che si sono celebrati nel lavoro della pietra e nell’intarsio del marmo.
Questa chiesa verticale che non riesce ad essere compresa in nessuno sguardo, o ne guardo il cielo o ne guardo la terra, e se mi allontano ne scompaiono i bracci. Misuro la pochezza del mio sguardo e l’incapacità di comprendere la passione che ci è voluta nel concepirla e nel realizzarla. Come cantavano gli scalpellini che scalpellavano? Come gridavano tra loro i mastri muratori nel richiamare i garzoni? È forse vero Padre che è più bello sognare un’opera d’arte piuttosto che realizzarla? E allora di chi è il sogno questo canto di pietra?
Entro nel canto di pietra e mi trovo nel vuoto, nel silenzio e nello spazio, il canto della pietra si innalza in verticale lasciando che il mio occhio si arrampichi come percorrendo gradini e correndo lungo i perimetri. Chi aveva sognato questo, Padre? Questa infinita pochezza dell’uomo e questa grandezza immensa della pietra. E’ questo lo sguardo che ti ha accompagnato quando, da laico, hai sognato i paradisi e le beatitudini?
“ io non lascio il monopolio della gioia ai preti” , hai detto una volta.
A questi vuoti pensavi quando da laico hai dato immagini e volti alle parole del più umano dei vangeli? A queste righe orizzontali, che si innalzano, pensavi quando hai popolato di vita i racconti del corpo che esulta in assenza di colpa?
Ora si Padre posso rispondere alla tua domanda
Sono qui di fronte alla pietra e al canto di se stessa che nel cantarsi mi fa umano e nel mio canto risuonerà il il dolore della pietra perché di fronte a questo duomo e a questa facciata, ti ricordo e ti piango Padre, come il miglior maestro che abbia mai avuto…
Ora sono pronto a raccontare da padre ai miei figli.