Ci interessano ancora le maschere? E non ci riferiamo a quelle che, più o meno inconsapevolmente, “indossiamo” per campare, espressioni variabili e protettrici del nostro io e dei suoi umori quotidiani, veri diaframmi tra noi e gli altri necessari alla sopravvivenza o, per taluni, pirandelliano travestimento psicologico. Qui Vogliamo parlare dell’oggetto maschera e del significato che la stessa assume quando non è ridotta ad una pura funzione estetica.
Chi di noi indossando una maschera non ha provato un certo grado di liberazione, non ha avvertito il cadere di inibizioni e timidezze? Il non essere riconosciuti o, come nel gioco dei bimbi, il solo pensarlo, ci trasforma in esseri più audaci e temerari capaci di far affiorare il nostro io o i nostri desideri (l’identità è salva e noi con essa). Una funzione, questa, intrinseca alla maschera non dissimile da quella trasfigurante ricercata presso le culture primitive durante i riti sacri.
L’uso di mascherarsi o travestirsi in occasione di cerimonie rituali è antichissimo e lo testimoniano i graffiti paleolitici raffiguranti uomini camuffati da animali, una sorta di rappresentazione magica inscenata per influire sul buon esito della caccia, attività fondamentale per la sopravvivenza del gruppo e quindi legata a timori e superstizioni. Simile in fondo ai nostri odierni scongiuri propiziatori e scaccia-sfiga.
Tale uso venne praticato fin quando la società non raggiunse un certo livello evolutivo, sia sul piano spirituale che materiale, utile alla comprensione dei fenomeni naturali e all’adozione di sistemi sempre più efficaci per trarre profitto dalla natura.
I riti continuarono invece in Africa, forse per l’animismo che pervade i suoi abitanti e il grado di primitività mantenuto da alcune popolazioni presso le quali la funzione della maschera continua ad avere il potere di trasformare colui che la indossa, di solito il sacerdote, nel soggetto che la maschera raffigura, sia esso animale o demone. La maschera è in questi riti il medium tra il sovrannaturale e l’uomo e l’autosuggestione di chi la indossa è il segreto che essa custodisce.
La maschera non rende quindi l’emozione del singolo in un dato momento, non è il ritratto dell’uomo che teme, combatte o muore, ma è il timore, la guerra, la morte stessa, ed incute paura e riverenza. Essa rappresenta anche una reale possibilità di esistere altrimenti, di sfuggire alla realtà quotidiana e all’identità abituale durante il rito e l’officiante potrà essere di volta in volta uomo-spirito, benefico o malefico, uomo-animale, uomo divinità.
Una primitiva, invidiabile via di fuga che ha risparmiato a molti dei nostri antenati cose tipo…Chi l’ha visto?
Le maschere rituali avevano i tratti volutamente deformati e le sembianze antropomorfe o zoomorfe, le loro dimensioni variavano notevolmente, da quelle piccole e leggere che coprivano solo il viso ed erano rette tra i denti mediante un piolo posto sul retro, a quelle alte più di un metro che poggiavano sulle spalle, fino a quelle che coprivano l’intera figura e venivano sorrette da più persone.
La loro funzione variava a seconda dell’area geografica e della cultura che le aveva espresse così nell’area mediterranea ritroviamo quelle funebri e teatrali, nell’area asiatica quelle rituali e teatrali mentre all’area africana e americana dei nativi pellerossa appartengono le maschere esclusivamente rituali e ben conosciamo il rapporto di questi popoli col mondo spirituale e con i loro antenati.
La lenta trasformazione della maschera e il progressivo distacco dalle forme arcaiche–rituali si manifesteranno, come vedremo, con la loro adozione nelle rappresentazioni teatrali nel mondo occidentale ed asiatico. Mentre le maschere africane dai lineamenti duri ed essenziali eserciteranno un forte fascino sugli artisti europei del ventesimo secolo quali Cézanne, Picasso, Modigliani, Klee, Ernst, Brancusi, e sulla loro arte futurista, cubista ed espressionista.