L’impressione è quella di entrare in una città onirica, decadente e sublime, in un afflato di ispirazioni continue che però non danno ciò che serve al ricercatore. Il ricercatore, Toni Servillo aka Gep Gambardella. La ricerca? Ispirazione per una nuova opera letteraria. Ed ecco il film di formazione: andando avanti nella successione continua di eventi e scene senza alcun legame tra di loro si snoda e si sviluppa la vita che è stata, che è e che sarà del dandy pirandelliano.Di servizi, curiosità e recensioni sul film di Paolo Sorrentino se ne trovano a migliaia. Ognuno ha voluto dare il suo personale giudizio sul film, sull’interpretazione che ci ha dato, su cosa ci ha visto ma soprattutto su cosa non ci ha visto. E così l’appassionato che richiama un’ispirazione felliniana, il critico che denigra il tutto e si interroga sui gusti degli americani, l’habituée di Roma che ha scoperto parti e paesaggi della città che non conosceva. Anche io mi permetto di entrare nel crogiolo di pareri e non mi privo del mettere su carta bianca il mio pensiero che si avvia rapido verso una solo aggettivo: mirabile. Ho vissuto a Roma per circa quattro anni e con l’occhio di Sorrentino ho visto scenari nuovi che però non sono Roma. La città descritta e ripresa dal regista napoletano è una città dell’anima, che corrisponde alla vita vuota del personaggio principale, Gep Gambardella. Potrebbe essere qualsiasi altro borgo del mondo. L’omaggio a Roma è semplicemente un omaggio ai paesaggi e ai registi che l’hanno fatta grande. Alla sua storia e al passato glorioso come quello dello scrittore Gep Gambardella che ha trovato l’unica ispirazione in un lontano passato.
Il Ritratto di un dandy
Gep Gambardella, 65 anni, un elegante scrittore e giornalista, con un gusto raffinato nel vestire e dedito al godimento estremo nelle notti di una Roma eterna e decadente. Un disincantato che prova piacere nel farsi compagnia e prendersi in giro di amici “sull’orlo della disperazione” come la nana direttrice della rivista per cui scrive, l’artista (Carlo Verdone) di cinquanta anni ancora in una casa condivisa con studenti, i nobili, i cardinali e persino i santi (a questo proposito ho trovato eccessivamente finta la scena della santa e le cicogne in cui si tocca con una massima buttata lì l’importanza delle radici). Un viveur che ha imparato a fare solo ciò che più gli piace e a “non perdere tempo” a fare cose che non gli va di fare. Che è conosciuto e ha successo ma guarda sempre con curiosità, vuoi per deformazione professionale, vuoi per noia, a chi sta più in alto, anche di balcone, come il boss che vive nell’appartamento al di sopra della terrazza dei trenini più belli di Roma per il semplice motivo che “non vanno da nessuna parte”. Un gentiluomo (l’unica certezza che ha è definirsi tale) che fa della favella la sua compagna privilegiata e delle feste il luogo in cui esprimere tutta la sua eleganza e il ricercato eloquio, affermando con convinzione il suo status di mondano. Ma Io non volevo essere semplicemente un mondano. Volevo diventare il re dei mondani. Io non volevo solo partecipare alle feste. Volevo avere il potere di farle fallire”.
Si tratta di un ritratto magnifico, colossale, di una città e le sue anime vaganti, i suoi funamboli notturni, i suoi eccessi, le sue contraddizioni, la sua decadenza. Coinvolgente ed esuberante la parte di Buccirosso con le sue triviali battute nel mio e nostro napoletano (ed anche di Servillo e Sorrentino). Meravigliosa la colonna sonora nel suono delle campane che scandisce il procedere del film, The Beatitudes di Vladimir Martynov arrangiata dal Kronos Quartet. Splendida la scena corale del festino ad inizio film con il pezzo “A far l’amore comincia tu” nella versione di Bob Sinclair.
Il film di Sorrentino ha fatto incetta di premi a livello internazionale. Ultimo il Golden globe. Trionfatore assoluto alla ventiseiesima edizione dei premi dell’Accademia del Cinema Europeo: miglior film, miglior regista per Paolo Sorrentino e miglior attore per l’interpretazione magistrale di Toni Servillo con i suoi numerosi primi piani. L’espressione di Servillo con la sigaretta in bocca è destinata ad entrare nei libri del cinema così come il primo piano quasi all’inizio del film, dopo la scena del festino in terrazza, in cui esplode l’assunto di vita che probabilmente tutti noi abbiamo almeno una volta pensato e detto tra amici ed in discorsi di vario tipo. Sorrentino attraverso il volto e la teatralità di Servillo regala l’apoteosi ad un quadretto che non si può far altro che immaginare svolgersi davanti ai nostri occhi: A questa domanda, da ragazzi, i miei amici davano sempre la stessa risposta: “La f….”. Io, invece, rispondevo: “L’odore delle case dei vecchi”. La domanda era: “Che cosa ti piace di più veramente nella vita?” Ero destinato alla sensibilità. Ero destinato a diventare uno scrittore. Ero destinato a diventare Jep Gambardella”. I primi piani si susseguono senza sosta con il maturare dell’ispirazione letteraria nel protagonista ma ciò che cambia è il senso di consapevolezza di Gep, in costante ricerca di una ispirazione, quell’ispirazione legata a due donne e a due distacchi, Orietta in passato e Ramona nel presente. Con tanto di indicazioni per il buon modo di comportarsi e muoversi durante i funerali.
Le riprese delle feste sono qualcosa di sublime, celebrazione supina della volgarità del berlusconismo, una sfilata di personaggi grotteschi che si dimenano tra balli di gruppo, urla, alcol e droga. La quarta collaborazione di Toni Servillo con Paolo Sorrentino offre ancora una volta un personaggio forte, pieno di spunti su cui riflettere. Da più parti è sopraggiunto un accostamento al Marcello Rubini de La dolce vita, come se il ritratto felliniano di quella Roma non fosse cambiato in nulla mezzo secolo dopo. Qualche critico ha detto che La grande bellezza mette in scena i fantasmi di Giulietta degli Spiriti del 1965 e fa respirare l’aria di città spettrale di Roma del 1972 ma il valore aggiunto del personaggio sorrentiniano e/o servilliano è data dalla straordinaria velatura di malinconia che accarezza l’animo del protagonista e lo trascina nella luce del ricordo e della riflessione, sulla società, sulla vita e sull’amore.
La visione e la poetica di Sorrentino in questa opera si dondola tra il ridicolo ed il sublime, tra la performance della “capocciata” nel muro dell’artista visionaria ed alternativa alla monaca mummificata che si trascina sulle scale in San Giovanni.
Roma da questo film in poi può aggiungere un nuovo percorso cinematografico a quanti si recano da turisti in città: il cammino de “La Grande Bellezza”, un cammino esasperato e ritratto nelle sue eccessività, a volte vicino al teatro dell’assurdo e che strizza spesso l’occhio al grottesco.
Fioravante Conte