Lynne Ramsay è una regista scozzese di quarantacinque anni particolarmente celebre in Gran Bretagna grazie ai numerosi premi vinti con i suoi primi corti e in seguito con i lungometraggi: Ratcatcher – Acchiappatopi (1999) e Morvern Callar (2002) apprezzati entrambi anche ai Festival di Cannes.
Cinefago ha rivisto per voi il suo ultimo film del 2011 tratto dal romanzo di Lionel Shriver, E ora parliamo di Kevin, con una straordinaria Tilda Swinton. Seppur presentando nel complesso alcune ombre nella comprensione definitiva dei personaggi, è un’opera interessante nel montaggio ed efficace nel racconto di una crescente tensione alla luce di flashback che progressivamente costruiscono l’episodio e svelano le ragioni di una premessa di oscurità in cui la Swinton , nei panni di una donna distrutta, appare sin da subito. Eva è una donna creativa e militante, un’artista provocatoria e politicamente impegnata, che rinuncerà però al suo lavoro per dedicarsi alla famiglia. Quando resta incinta di Kevin con il compagno Franklin (John C. Reilly) lascia New York per una casa più grande in provincia, ma un sottinteso di infelicità e pentimento resterà negli anni, crescendo in una personalità di base schiva, riservata e ai limiti dell’anaffetività.
Il piccolo Kevin si presenta come un bambino rancoroso, silenzioso e perennemente infelice, la scelta del piccolo attore è perfetta per i continui sguardi inquietanti che è capace di lanciare alla madre sin dall’età di pochi mesi. Del Kevin adolescente in seguito (Ezra Miller) avvertiremo una costante minaccia e insieme ad Eva una sensazione di impotenza nell’osservare la sfida esistenziale che il figlio ha lanciato alla madre da che è al mondo, fino a scoprire il suo piano definitivo e devastante per colpirla in modo indelebile.
La scena finale ci lascia perplessi, è il confronto ultimo in cui lo spettatore vorrebbe poi incanalare tutte quelle energie negative che il racconto e il suo esito hanno trattenuto alla bocca dello stomaco, ma per qualche inspiegabile scelta drammaturgica, non accade.
La storia, che ad un livello più superficiale si presenta come un thriller, e non può non ricordarci seppur marginalmente il celebre Elephant di Gus Van Sant del 2003, è attraversata anche da spunti di riflessione vari, uno su tutti chiaramente il rapporto madre-figli. La sempre verde problematica di tutte quelle donne che si sentono costrette a fare delle scelte drastiche tra famiglia e carriera, affrontando poi sensazioni di inadeguatezza nell’educazione dei figli e districandosi in una mai del tutto elaborata e confessata condizione di inappagamento.