Nell’articolo precedente, abbiamo fatto un piccolo riassunto del racconto di Ben Pastor, ovviamente senza svelare l’assassino e senza dirvi come si chiude la storia, sta a voi leggerlo! In Italia il racconto è stato pubblicato nel 2006 da Alacràn nella raccolta di gialli Sette colli in nero. Si tratta di una selezione di storie del crimine e mistero ambientate a Roma; il libro è fuori produzione ma è possibile trovarlo in tutte le biblioteche di Roma.
A questo punto è arrivato il momento di “indagare” le scelte dell’autrice e scoprire un po’ di più sulla genesi del racconto. L’abbiamo intervista ed ecco cosa ci ha raccontato:
Perché ha scelto proprio J. Keats come protagonista del suo racconto? Da una vita avventurosa e sgretolata come quella di Shelley ad esempio, avrebbe potuto trarre più spunti per una trama “poliziesca”. Cosa le ha fatto scegliere Keats?
Certo, Percy Bysshe Shelley, un ribelle nato nel privilegio, visse in modo molto più avventuroso di Keats, di cui peraltro portava con sé le poesie quando naufragò davanti alle coste della Toscana un anno dopo la morte del collega, nel 1822. Ma secondo me si avverte una tenerezza speciale nella figura di Keats. Anche un lettore contemporaneo non può che restare colpito dalla sua biografia umana e intellettuale: a parte la natura squisita del suo linguaggio, non possiamo esimerci dal saperlo di nascita umile (suo padre era uno stalliere), cosciente della condanna a morte che la tubercolosi gli riservava (morì a 24 anni), e dolerci per i suoi innamoramenti nei riguardi di giovani donne che non sempre lo corrisposero. La sua capacità di forgiare amicizie profonde è un altro dono che ce lo rende amabile: la devozione che gli dimostrò l’amico pittore John Severn, accudendolo giorno e notte durante i lunghi mesi romani, nell’indigenza, senza speranza di alleviarne le sofferenze, in un’epoca narcisista come la nostra testimonia la grandezza dell’uno e dell’altro.
Mi ha incuriosita la parte della storia in cui Keats vede il fantasma della fioraia. Questa parentesi soprannaturale, è legata al suo interesse per le storie di fantasmi oppure si è ispirata a qualche aspetto del pensiero di Keats sulla vita e la morte?
L’interesse nel soprannaturale, che Illuminismo e la Rivoluzione del 1789 avevano bandito, si ripresentò con impeto nei decenni successivi, che videro il fiorire del Romanticismo col suo complemento di castelli, cavalieri, storie gotiche, e fantasmi di ogni genere. Da due posizioni molto diverse, anche grandi menti come Immanuel Kant e Arthur Schopenhauer si cimentarono nell’osservazione di quelli che definiremmo oggi eventi paranormali. Interessa particolarmente, per l’influenza che avrebbe avuto anche sulla psicanalisi, l’idea schopenhaueriana di come il sogno suggerisca che le immagini possono essere percepite e “viste” dalla mente anche quando non c’è visione fisica. Per inquadrare cronologicamente la vita di Keats, consideriamo che nacque sette anni dopo Schopenhauer, e morì diciassette anni dopo Kant, nel 1821, stesso anno della morte di Napoleone, arcinemico dell’Inghilterra. Per Keats l’immaginazione era il suo monastero, ed egli era il monaco che lo abitava. Fra memorie celto-britanniche dell’esistenza di elfi e altre creature magiche, e gli stimoli che indubbiamente ne influenzarono la permanenza a Roma (dove il Passato è sempre presente), non posso non credere che Keats potesse e volesse, nella parole di Schopenhauer, vedere con “l’organo onirico” il fantasma della bella fioraria di Piazza di Spagna.
C’è qualche lato del carattere e del pensiero di Keats che l’ha colpita particolarmente e che riporta nel suo racconto?
Mi affascina il concetto di “negative capability” espresso da Keats, il quale studiò medicina anche se non praticò mai la sua scienza, perché illustra l’apertura del poeta al soprannaturale. Descrive infatti uno stato mentale in cui siamo “capaci di restare nell’incertezza, tra i misteri, i dubbi, senza quell’irritante tentativo di ricorrere ai fatti e alla ragione… accontentandoci di una parziale conoscenza”. Keats credeva inoltre che ciò che si coglie con l’immaginazione “deve essere vero”. In alcuni suoi celeberrimi lavori (La Belle Dame sans Merci, The Eve of Saint Agnes), è chiaro quanto Keats differisse dal suo collega Shelley, ateo convinto e libero pensatore. Credo che siano versi pubblicati postumi quelli in cui il giovane poeta si interroga sulla morte, chiedendosi: Può la morte essere sonno, se la vita è solo un sogno?
Lei vive negli Stati Uniti e il suo racconto è stato scritto per una rivista americana di mystery story; la storia della Fioraia di Keats, però, ha deciso di ambientarla a Roma. Come mai? Nostalgia del Bel Paese?
È ovvio che, nata a Roma, io abbia per la Città un affetto particolare. Roma è fra l’altro uno dei personaggi principali di Kaputt Mundi (pubblicato in Italia da Sellerio, e in libreria da poche settimane), che racconta la Capitale in guerra e vede il mio protagonista Martin Bora cimentarsi con alcuni omicidi eccellenti sullo sfondo dell’eccidio delle Fosse Ardeatine. Nel romanzo appare anche Piazza di Spagna, su cui si affaccia la casa dove il poeta John Keats visse gli ultimi mesi di vita. Ma ben prima della Seconda guerra mondiale Roma aveva esercitato il suo fascino sugli stranieri colti, illuministi e romantici: il Grand Tour d’Europa la includeva come meta imperdibile. Gli inglesi poi adoravano Roma e la sua campagna, e dato che la vicenda terrena del giovane e già molto malato Keats vi si concluse, mi è sembrata il palcoscenico adatto per fargli incontrare il fantasma della bella fioraia.
Dalla sua biografia emergono gli interessi più disparati, ma ho avuto la sensazione che il filo conduttore delle sue ispirazioni sia sempre il mistero. È corretto?
Direi che il filo rosso che attraversa in modo costante i miei romanzi e racconti (di detection e non) si dipani, per così dire, dalla matassa di Arianna, ovvero dal mio interesse accademico per l’archeologia. È un fatto di affinità elettive, ma anche di discendenza: fra i miei antenati annovero uno degli studiosi che lavorarono agli scavi settecenteschi di Villa Adriana, e l’esergo delle edizioni Volpi-Cominiane mostra un uomo che estrae frammenti di statue antiche dal suolo, con la dicitura (tratta da Orazio e rivisitata da Alexander Pope) Quicquid sub terra est, in aprico proferet aetas, ovvero “Qualsiasi cosa si celi sottoterra, il tempo rivelerà”. Per chi, come me, ama i gialli e il passato classico, non c’è motto migliore. Un mondo completamente spiegato esercita poco fascino, e concordo con il grande regista Werner Herzog, quando osserva che non si può più vivere in una stanza illuminata fino all’ultimo angolo…
Il nostro viaggio alla riscoperta di Keats continua e, attraverso le sue lettere ad amici e parenti, ne delineeremo i tratti del carattere e la visione della vita.