Cosa ci può essere di più libertino e divertente di un salto temporale nella tollerante Venezia del settecento?
La Commedia dell’Arte Italiana coi suoi personaggi può attendere intanto che ci addentriamo nel mistero della più atipica e ambigua delle maschere veneziane, la Bautta o Bauta. Atipica lo è in quanto non si rifà a nessun modello preesistente né la si può ricondurre ad un autore ed ambigua anche visto che non ha “sesso” , una maschera “androgina” diremmo oggi, usata indifferentemente da uomini e donne in una contaminazione di abbigliamento maschile e femminile tra tabarro, merletti e tricorni.
Sullo “zendaletto”, mantello di pizzo col quale le donne coprivano il capo, le spalle e i fianchi, veniva indossato il “Tabarro” maschile e il cappello a tre punte, il tricorno, sempre maschile. Tutto l’insieme, col tempo, venne indicato col termine di Bauta, un “abito d’uso”, come lo definisce Il Lorenzetti, che annullava ogni differenza e consentiva il perfetto anonimato a chiunque lo indossasse.
L’etimologia del termine è controversa, potrebbe derivare dal verbo tedesco behüte che significa proteggere, preservare, o avere affinità con “bacucco” e “baucco” e c’è chi la fa risalire a “bau-bao”, semplice espressione “usata per impaurire i bambini”.
A differenza delle altre maschere la Bauta veniva indossata non solo durante il carnevale, ma liberamente lungo tutto l’anno, una pratica esclusivamente veneziana e settecentesca che se era quasi un obbligo per le donne maritate che si recavano a teatro, poteva coprire i delatori più perfidi, la nobiltà più insigne, la plebe più vile, le cortigiane più depravate, il doge, gli Inquisitori di Stato, e principi stranieri che la indossavano con finalità trasgressive. Si sentivano sicuri e protetti graziealla speciale tutela e garanzia di cui godeva la Bauta anche nei confronti della legge.
Incontri galanti, sesso trasgressivo, gioco d’azzardo e, talvolta, violenze o vendette verso persone, venivano esercitati con la certezza dell’impunità dovuta all’anonimato che la maschera consentiva.
Una sorta di salvacondotto per l’Aristocrazia che si concedeva comportamenti altrimenti non consentiti senza la protezione del travestimento con la “Bautta”.
Anche il popolo minuto, gondolieri, carpentieri, scaricatori ai mercati e lo stesso immancabile servitore, lo zanni, la indossava nella speranza di imbattersi in una di quelle signore dette “donna de garbo”, un’aristocratica di rango, magari la propria padrona alla ricerca di emozioni forti e occasionali.
Andrea Zanzotto afferma che il carnevale veneziano costituisce quasi “l’immagine di una prevaricazione benigna dell’utopia sulla realtà”, una realtà malata, quella della Venezia settecentesca, che si “lascia andar a morte tra canti e bagordi” nel prolungarsi del carnevale attraverso tutto l’anno piuttosto che rinnovarsi.
La Serenissima ha concluso il suo ciclo, è al suo finale che sa vivere con la consueta eleganza che l’ha contraddistinta, la città fa i conti con la Storia e non vede luce nel suo futuro, ma il suo carnevale saprà rinnovarsi risorgendo dalle proprie ceneri per ricordare con malinconica allegria e lo sberleffo i suoi fasti irripetibili.
Due grandi artisti del Settecento, Pietro Longhi e Francesco Guardi, immortalarono nelle loro opere la vita civile dei veneziani e i loro costumi e quindi anche la Bauta accompagnata talvolta alla “Moreta”, l’altra maschera d’uso quotidiano ma esclusivamente femminile.
La Moreta ha la forma di un ovale senza bocca, realizzata in velluto nero, era indossata dalle donne di ogni condizione e veniva retta con i denti tramite un piccolo piolo posto sul retro costringendo le gentili e misteriose dame a praticare l’arte del silenzio. Una moda “stranamente” non avversata dagli uomini del tempo.