Giulio Bollati e Inge Feltrinelli. Due vite che hanno seguito un bizzarro percorso perpendicolare per incontrarsi, alla fine, in un Paese malridotto dalla guerra, bisognoso di “cure culturali” e – forse ancora di più – di padri spirituali. Parmense di nascita, torinese per indole (o destino) e assunto alla Einaudi nel 1949, Bollati si trovò ai vertici nel momento forse più splendente della casa editrice, quello costellato da nomi come Calvino o Vittorini. Inge Feltrinelli, nata a Gottinga, in Germania, a Milano ci arrivò nel 1960, quando la casa editrice che avrebbe guidato assieme al marito Giangiacomo aveva già fatto conoscere al mondo Il Dottor Zivago di Boris Pasternak e, di lì a due anni, avrebbe pubblicato Il Tamburo di latta di Günter Grass. Sia l’uno che l’altra (a proprio modo) hanno guidato l’Italia in un processo di maturità storica non facile. La stessa Einaudi (che Pavese definiva un posto dove regna una «concordia discorde») ne è un esempio: i rapporti con il Partito Comunista, l’egemonia culturale, la condivisione delle scelte a dispetto della durezza del primo fondatore, Giulio Einaudi, erano tutti nodi che rispecchiavano la coscienza della classe dirigente italiana. Che indirizzo dare alla cultura nel secondo Dopoguerra? Come scegliere temi e persone in un Paese in cui, appena qualche anno prima, le divisioni ideologiche avevano dilaniato borghi, città, coscienze, famiglie, amori? Ecco, si aveva bisogno di padri. E di figli ben disposti.
In questo senso, sia Bollati che Inge Feltrinelli sono stati dei “padri”. Spiriti guida in un momento in cui la cultura rappresentava il nodo più delicato, stretto tra ideologia e comunicazione di massa, accademia e televisione, alto e basso. Inoltre, forse non è casuale il fatto che entrambi si siano ritrovati anche su un altro pianeta e la simbologia astrofisica è voluta: sia per Giulio che per Inge la fotografia è stata ed è un universo a parte, un campo di ricerca nel quale diventare altro da sé, un po’ alieni. La mostra L’inchiostro e lo sguardo, ospitata nel Palazzo dei Duchi di Santo Stefano di Taormina fino al 30 luglio, in occasione di Taobuk 2017, propone un centinaio di foto scattate da Bollati e da Feltrinelli proprio in quell’epoca (anche se con alcune estensioni temporali) e vuole essere un’indagine visiva di quel processo di filiazione. L’immagine di Hemingway abbandonato sul pavimento, simile a un dio pagano addormentato nell’ebbrezza; lo sguardo un po’ infantile di Giorgio Manganelli che esce da una salumeria di paese; il sorriso guascone di Elio Vittorini che Bollati fotografò in canottiera. È il romanzo della cultura che si raccontava in déshabillé, nel tono informale con il quale il papà porta il figlio al parco al sabato.
Che ritragga Picasso, Chagall o Anna Magnani, Feltrinelli coglie quello che Capa chiamava “The decisive moment“: un sorriso disimpegnato, un gesto noncurante, una smorfia che connota il personaggio. E lo stesso fa Bollati: le famose scampagnate di gruppo a Dogliani, nelle quali si discuteva di Gombrich o Marx tra un panino alla mortadella e un bicchiere di vino frizzante, ci restituiscono il lavoro culturale nella sua forma più atipica (atipica per quell’epoca, prima ancora che i settimanali e la televisione ci rendessero simpatici gli intellettuali). C’è Calvino che si guarda le mani, ci sono Natalia Ginzburg e Giulio Einaudi colti nella stessa espressione con la mano appoggiata alla guancia, c’è Primo Levi che tenta di concentrarsi su chissà cosa. E ancora Spriano, Ponchiroli, un giovane Ernesto Ferrero. Espressioni rubate, come “rubata” fu la foto che Inge Feltrinelli scattò a Greta Garbo ferma a un semaforo (foto i cui proventi della vendita le permisero di vivere qualche giorno di più a New York). Quella che invece fece a Fidel Castro fu un’alchimia di casualità e tenacia, condivisa con il marito Giangiacomo: entrambi raggiunsero il rivoluzionario a Cuba ma lui non si fece vedere per giorni, finché decisero di trascorrere una mattina al mare. Ebbene, lui andò da loro proprio quella mattina.
In questa paternità di sguardi, indirizzi e semine culturali, si ritrova un grande romanzo italiano. Di quell’Italia che, poco alla volta, faceva i conti con i padri.