Le recenti notizie di sbarchi e salvataggi di decine d’immigrati in fuga dall’Africa, i venti di guerra nel Mediterraneo e in Libia, tra i principali porti di partenza dei migranti, con le annesse voci di azioni di controllo dei porti libici e di guerra a quei barconi che un’immigrazione ancor più disperata è costretta ad usare, vista la mancanza di canali umanitari alternativi e legali. Quanto la volontà di reprimere il fenomeno si serva della paura del terrorismo in Italia, legittimando così anche interventi militari, è sotto gli occhi di tutti, ma su questo aspetto abbiamo recentemente raccolto le parole del dr. G. Fiore, ex Questore di Ascoli Piceno, le cui parole ci raccontano un’altra realtà dei fatti. Inoltre, sempre di questi giorni sono le notizie di indagini e arresti nell’ambito dell’indagine Mafia Capitale che dimostra come questo sistema di gestione dell’immigrazione basato sull’emergenza profughi, gli sbarchi e le grandi concentrazioni crei massicci flussi di denaro, cibo ideale della corruzione.
Tutto ciò avviene, ricordiamolo bene, a solo qualche anno di distanza dall’assegnazione all’Europa del Nobel per la pace. Dal 2012 infatti sono continuati gli sbarchi, le tragedie in mare, è stata implementata Frontex, l’agenzia che «opera con modalità che non garantiscono il rispetto dei diritti umani e sulla base di un mandato che lascia irrisolto il tema della titolarità delle responsabilità di eventuali violazioni dei diritti umani compiute nel corso delle operazioni da essa coordinate», secondo lo studio Costi Disumani dell’Associazione Lunaria. Recentemente è stata rifinanziata Triton, un’operazione di solo controllo delle frontiere italiane e non di soccorso al quale, invece, riesce a costringere solo il sacrosanto diritto internazionale del mare.
Concettualmente però predisporre questa maxi operazione di controllo, per giunta appoggiata da navi da guerra in vista delle possibili operazioni militari in Libia, equivale ad opporre un secco no alla richiesta d’aiuto di gente in fuga che necessita di asilo e protezione internazionale, proprio quando i venti di guerra, le azioni nei porti libici avranno come probabile conseguenza l’aumento esponenziale degli arrivi. A riprova si consideri il processo di Khartoum, voluto soprattutto dall’Italia, basato su accordi tra paesi d’origine e di transito per fermare l’immigrazione e sulla costruzione, in questi ultimi, di campi che molti già temono per la loro probabile similarità con le temibili prigioni libiche dell’era Gheddafi (benché gli attuali centri di detenzione per immigrati non siano da meno a giudicare dall’ultimo rapporto di Amnesty International). Sarà in virtù di questo obiettivo politico che sembrano fondate le indiscrezioni raccolte recentemente dal Guardian di accordi tra paesi UE, tra cui l’Italia, e la terribile dittatura dell’Eritrea? Ma d’altro canto cosa cambia quando, invece, si respingono gli eritrei (o qualsiasi popolo in fuga) lasciandoli al loro destino? l’Italia ha infatti già avuto una condanna per questo, nel 2012, da parte della Corte Europea dei diritti dell’Uomo.
Inoltre è abbastanza chiaro che le autorità italiane si aspettino un aumento crescente degli arrivi e di conseguenza serrino i ranghi. Ne sono indizi la notizia, raccolta presso il Viminale dall’Adnkronos, di bandi per la ristrutturazione di due ex caserme, la “Gasparro” di Messina e la “De Carolis” di Civitavecchia, per ‘l’accoglienza’ o meglio il trattenimento dei migranti; i tentativi in atto a Bruxelles di legittimare giuridicamente l’uso della forza per il rilevamento delle impronte digitali; lo schema di decreto legislativo, approvato in via preliminare dal Governo, con cui si estende a 12 mesi il trattenimento nei CIE di chi farà ricorso per ottenere l’asilo (senza considerare la più che dubbia costituzionalità degli stessi CIE).
Considerando tutto ciò ci si chiede allora perché non mutare sistema, perché non si stabiliscano canali umanitari legali e sicuri per gli immigrati. Si giunge così al nodo della questione, a quell’Europa che si è costruita attraverso uno spostamento a nord degli equilibri economici che, di fatto, sono rinsaldati dalla chiusura delle frontiere e dallo sfruttamento del giardino africano: «questo regime di controllo dei confini e delle migrazioni è un elemento fondante dell’Unione Europea, così come la conosciamo oggi. Cambiare questo regime significa cambiare l’Europa», sottolinea appunto Sandro Mezzadra intervistato da Melting Pot Europa.
Quindi, nella probabile attesa che la Germania o la Francia possano passare dal collaborare alle identificazioni con propri funzionari di polizia (a Catania è fissata una delle sedi operative di Frontex) allo scegliere qui in Italia gli stranieri da accettare e da rifiutare (si ricordi le parole di Renzi quando parlava esplicitamente di funzionari UE nei CIE) gli immigrati vengono respinti al loro destino, anche qui in Italia a Ventimiglia, senza tanti compimenti.
Una testimonianza
Cosa significhi per gli eritrei il respingimento e il diniego di fatto del diritto d’asilo possiamo comprenderlo da questa testimonianza lasciata all’incontro Il mare intorno Lampedusa, organizzato a Napoli poco più di un anno fa. È la voce di Abrahalei Tesfai, giovane rifugiato fuggito nel 2007 dall’Eritrea del dittatore Afewerki, a cui abbiamo poi rivoto alcune domande:
“Nel 2001 c’è stata una manifestazione di studenti ad Asmara contro il dittatore che ha fatto poi sparire 3mila studenti e ha chiuso l’Università, e ha fatto sparire ministri e giornalisti che chiedevano riforme. Ha aperto dei collegi militari lontani dalla città per togliere ogni controllo. Prima ancora ha dichiarato che tutti gli studenti dalla 4 superiore dovevano fare il servizio militare in campi militari dove c’è una legge che dice che ogni persona deve essere spaventata e quando finisci l’anno di studio e di campo militare, se non passi la maturità, rimani praticamente a fare il militare a vita non pagato. Dopo pensavo che in collegio avrei fatto una vita migliore, invece nel collegio è tutto uguale. Ci sono i militari che ti guardano tutta la giornata e ti contano ogni 5 minuti. Così ho deciso di scappare dal paese perché avevo capito che non si poteva vivere così. Quando poi mi hanno preso dal collegio per portarmi ad un campo di lavoro al confine col Sudan per costruire una diga, lì con alcuni amici sono scappato.
Per una notte intera ci hanno inseguito fin quando, dopo una giornata di cammino senza scarpe nel deserto, siamo entrati in Sudan e raggiunto Khartum. Anche lì però c’è un regime, sono amici e non potevamo restare. C’erano così tre strade: con passaporto comprato andare in America a 20mila euro, in Europa con 13mila e in Sud Africa con 5mila. Io non avevo soldi e non potevo chiedere ai miei genitori così dovevo scegliere la strada più rischiosa per l’Italia attraverso il Sahara. 56 persone in due pick up schiacciati uno sopra l’altro due settimane prima con sudanesi poi con i libici che chi hanno chiesto subito altri soldi. Ci hanno preso a botte ma niente. Ci lasciano a 250km da Tripoli e solo pagando un po’ di benzina a uno di lì riusciamo a raggiungere la capitale dove però troviamo un blocco. Eravamo cinque clandestini e le forze di polizia c’hanno portato in galera: sotto terra, 150 persone in un buco col bagno, la doccia non esiste e il sole non si vede. Con tante persone dopo qualche giorno ci siamo scontrati per il cibo. Sono venuti i carabinieri e ci hanno massacrato di botte. Uno di noi è morto lì. Un giorno ci hanno portati a lavorare in un’altra prigione. Io sempre avevo pensato di scappare così quando poi ci hanno portati in moschea e quando tutti si sono messi a pregare sono uscito scappando via.
Da Tripoli, nascondendomi, mi organizzo per fare il primo viaggio in Italia pagando 1200 dollari. Tanti soldi che sono riusciti a mandarmi i miei genitori. Il viaggio non va bene e il gommone si spacca subito. Con il secondo viaggio siamo riusciti ad arrivare in territorio italiano. Abbiamo chiamato per i soccorsi gente che in Europa combatte contro questo dittatore. Così ci hanno portato a Lampedusa, poi a Caltanissetta dove sto 2 mesi chiuso senza poter uscire fin quando arriva il provvedimento e il titolo di viaggio ma per quello devi pagare 70 euro che non avevo. Quando poi posso andar via, dal centro di accoglienza ti accompagnano alla porta e ti dicono arrangiati”.
C’è qualcosa che per esigenze di tempo non hai potuto raccontare ma che vuoi testimoniare?
Sì. Quando sono arrivato a Bologna, da Caltanissetta, dormivo alla stazione. Amici mi dissero di venire in Svizzera perché si stava meglio. Lì dopo avermi preso le impronte digitali per verificare sono venuti a prendermi di notte, perché avevo già lasciato le impronte digitali in Italia, e mi hanno tenuto in prigione. Nudo.
Qual è invece la situazione dei tuoi genitori in Eritrea?
Quando sono scappato la dittatura ha preso tutto quello che avevamo e per due anni hanno sequestrato tutto, anche il nostro pezzo di terra. Stanno vivendo in qualche modo ma non possono muoversi perché io sono all’estero. Adesso sto lottando.
Come viene condotta l’opposizione alla dittatura fuori dall’Eritrea?
Siamo in ogni città. C’è il Movimento dei giovani eritrei per il cambiamento e la salvezza della nazione (EYSNS). Ci riuniamo, vogliamo creare una comunità nuova che sostituisce la vecchia. Comunichiamo con le persone giù, diamo voce a chi non ce l’ha e lottiamo dove sono filogovernativi e nascondono la verità. Così possono tornare in Eritrea a fare la vacanza. Invece almeno all’estero noi e tutti dobbiamo esser liberi. Ogni eritreo se non paga il 2% del proprio reddito ogni anno non può rientrare. Noi ci battiamo anche per queste cose.
Quali sono le ricchezze del tuo paese e quali la dittatura dà in cambio di appoggi?
C’è il clima migliore dell’Africa e con le montagne e le isole potremmo vivere di turismo. Dal sud d’Arabia si veniva in Eritrea dal Mar Rosso per stare solo due giorni. Il dittatore ha chiuso anche questa possibilità di ricchezza. Adesso la ricchezza è la manodopera e quella che si produce ma che nessuno conosce. C’è l’oro che si porta in Cina ma nessun eritreo sa quanto ne viene venduto.
Adesso sto studiando Agraria a Bologna e un giorno userò quello che sto imparando per il mio paese, anche aprendo una collaborazione tra l’università di lì e qui.