L’Unità politica del nostro paese può essere considerata ancora giovane rispetto a quella di altre nazioni, come la Francia, la Spagna o l’Inghilterra, per citarne solo alcune in Europa. Essa si è realizzata alla fine del 1800, attraverso quello che definiamo come Risorgimento Nazionale. Eppure la costruzione di ogni identità nazionale, sappiamo, ha radici ben più antiche e profonde dell’identificazione della Nazione con lo Stato. Il senso di questa identità si radica nella coscienza di appartenere a una lingua, a una cultura, a una storia, e non solo a un territorio geopolitico. Ma perché questo valore identitario abbia senso occorre rivisitare di volta in volta la propria storia, verificarne la credibilità, fare bilanci. Vogliamo approfondire in questa sede proprio quel Risorgimento che ci ha fatto nazione, mettendone in risalto, al di fuori di ogni agiografia, anche le ombre.
Con il concetto di “altro risorgimento” espresso nel nostro titolo intendiamo gettare uno sguardo diverso su questa epopea nazionale. Proporre le interpretazioni che un processo di Revisionismo storiografico ha operato su questo periodo della nostra storia, partendo dal presupposto che la storiografia ufficiale è spesso soggetta alle deformazioni culturali di coloro che scrivono la storia dal punto di vista dei vincitori, senza tenere in conto le ragioni dei vinti. La storiografia revisionista, sostiene che il Risorgimento è stato in realtà una vera opera di colonialismo, seguita da una politica di conquista centralizzatrice, per la quale l’ Italia meridionale sarebbe caduta in uno stato di arretratezza che l’avrebbe definita e rinchiusa, da allora in poi, quasi esclusivamente nel quadro nefasto della cosidetta questione meridionale.
La reinterpretazione degli eventi del Risorgimento italiano da parte di molti studiosi, sostiene che il Risorgimento e la successiva unione, in particolare del Regno delle Due Sicilie (lo Stato borbonico) al nascente Regno d’Italia, non solo non abbiano risolto la complessa problematica socio-economica del Sud, ma che addirittura abbiano favorito la nascita di situazioni che hanno dato origine a fenomeni nuovi di impoverimento e degrado. Si pensi che nello Stato Borbonico, prima dell’Unità d’Italia, si trovavano anche condizioni di benessere economico e eccellenze tecnologiche e culturali che superavano quelle dello Stato Sabaudo e che furono inesorabilmente spazzate via.
I primi dubbi sulle ragioni alla base della politica estera di Casa Savoia cominciano a sorgere e consolidarsi già negli anni immediatamente successivi agli eventi che condussero il Regno di Sardegna a trasformarsi in Regno d’Italia, ancor prima della nascita di un dibattito storiografico in materia. Sono espressi da Giuseppe Mazzini, uno dei teorici e fautori dell’unificazione italiana, che da subito ipotizza che il governo di Cavour sia interessato non tanto ad un’Italia unita, quanto semplicemente ad allargare i confini dello Stato Sabaudo.
Gli stessi esponenti liberali, che avevano favorito con entusiasmo ogni attività politica utile alla causa nazionale, condannano da subito la politica accentratrice del nuovo Stato unitario, definita negativamente con il neologismo di “piemontesizzazione”. Il liberale Piero Gobetti nel 1926, nella sua raccolta di saggi Risorgimento senza eroi, sostiene che il Risorgimento fu opera di una minoranza che rinunciò a realizzare una profonda rivoluzione sociale e culturale. Da questa “rivoluzione fallita” nasce uno stato incapace di incarnare quel disegno unitario per cui era nato e di conseguenza incapace di riconoscere e risolvere le necessità delle masse popolari, in una parte considerevole del suo territorio.
Nello stesso filone politico-culturale si inserisce l’analisi marxista di Antonio Gramsci che fu anche uno dei grandi studiosi della questione meridionale. Con estrema lucidità Gramsci pone in risalto l’incapacità dei governi di confrontarsi nel Sud con problemi che per certi aspetti loro stessi hanno creato e mostra come la unica possibile soluzione sia politica, radicata in una profonda coscienza di classe: le classi basse debbono lottare esse stesse per il loro riscatto senza aspettare dalle classi alte ciò che esse non vogliono e non possono dare, così che l’unica soluzione possibile per i diseredati resta quella della lotta socialista. Per Gramsci il Risorgimento è una “rivoluzione passiva” subita dai contadini, la classe sociale più povera della popolazione.
La questione meridionale, riguardante la situazione di ritardo e sottosviluppo del Sud, diventa il tema principale del nuovo Stato Unitario nei dibattiti parlamentari, ma di fatto il modo in cui lo si affronta e i mezzi che si mettono in campo per trovare soluzioni ai problemi si rivelano totalmente inadeguati. Il Sud d’Italia vive nella miseria e chiede da tempo un cambio delle sue condizioni di vita. Per le plebi meridionali niente è cambiato con l’unità, e anzi la situazione si è fatta più grave a causa di alcuni provvedimenti presi dal governo, il cui scopo principale non è risolvere i problemi del sud ma trovare nel sud le risorse che lo sostengano nel suo nuovo assetto politico, risorse umane e finanziarie. Da questo punto di vista, non certo improntato agli ideali del Risorgimento nazionale, nascono tutti i provvedimenti del governo riguardo al Sud d’Italia.
Per favorire la nascita di un mercato unico nazionale si aboliscono le dogane interne. Questo mette in crisi le piccole imprese meridionali che si vedono obbligate a chiudere. In secondo luogo, per creare una forza militare adeguata, si chiamano i giovani del Sud a cinque anni di servizio militare obbligatorio, privando di braccia la terra e di sostegno indispensabile le loro famiglie. Inoltre, per risanare il bilancio dello stato che aveva sostenuto enormi spese per le guerre di indipendenza e si era fatto carico dei debiti degli altri stati annessi (meno che per il Regno delle due Sicilie, il cui bilancio in attivo viene a sostenere quello dello Stato Sabaudo), il governo procede alla vendita delle terre del Sud che erano dello Stato Borbonico e della Chiesa. Essendo la vendita in contanti e non a rate, ovviamente ne traggono vantaggio solo quelli che posseggono grandi capitali, ossia i latifondisti che così ingrandiscono ancora di più le loro proprietà. Successivamente si recintano le terre comuni privando i contadini degli antichi diritti d’uso, come quello di pascolare le greggi, raccogliere frutta e legna, etc.
Altro colpo gravissimo alle già precarie condizioni del Sud viene dalla politica economica del ministro delle Finanze Quintino Sella, che, per pareggiare il bilancio dello stato, aumenta le imposte indirette sopra i beni di consumo che finiscono col pesare specialmente sulle classi più basse. La tassa più odiata è quella sul macinato del 1869 che provoca l’aumento del prezzo del pane e di tutti gli alimenti a base di cereali, cibo quotidiano dei contadini poveri.
Il profondo malcontento tra la popolazione favorisce il fenomeno del brigantaggio. I briganti hanno il sostegno dei Borboni che, dal loro esilio a Roma, inviano armi e denaro a chi sta mettendo in difficoltà il nuovo Stato e sono appoggiati dalla popolazione che si riconosce nelle loro rivendicazioni. Il governo italiano risponde con lo stato di guerra, impiegando 120.000 soldati che ristabiliscono l’ordine con un costo umano e finanziario altissimo: oltre 5.000 briganti uccisi e altri 10.000 condannati a varie pene. La feroce repressione scava un autentico abisso tra le istituzioni e le masse popolari. È innegabile che l’unità d’Italia non si sia fatta solo attraverso la lotta contro lo straniero, nella guerra all’Austria, ma anche sul sangue del popolo italiano, ucciso dalla sua stessa gente.
Un’altra conseguenza di questo Risorgimento mancato al Sud è la tragedia dell’emigrazione di massa verso l’estero. Tra il 1876 e il 1914 emigrano circa 14 milioni di italiani, nella più assoluta indifferenza dello Stato liberale, che per di più conta con l’effetto “benefico” delle rimesse degli emigranti per quelli che sono restati in patria. L’unico aiuto gli emigranti lo ricevono da parte della Chiesa Cattolica che tenta di proteggere queste masse di miserabili, accogliendoli in case religiose: alla fine del XIX secolo, per esempio, le case di Don Bosco in Argentina assistono circa 150.000 emigrati italiani.
È significativo il contributo italiano alla storia delle emigrazioni politiche verso i paesi ispano-americani nell’epoca del Risorgimento. Gran parte dell’emigrazione, costituita non solo da contadini poveri ma da intellettuali, artisti, patrioti in fuga, andava verso la Spagna e da lì, verso l’America, specialmente in Argentina, perché il presidente delle Provincie Unite del Rio de La Plata, l’argentino Bernardino Rivadavia, allora in Europa, aveva promesso agli esuli una decorosa collocazione professionale e economica, specie in ambito universitario. A lui si deve infatti la fondazione dell’Università di Buenos Aires per la quale si contrattarono distinte personalità del mondo della cultura in vari paesi stranieri, tra i quali l’Italia. Qui trovarono accoglienza alcuni tra gli studiosi e artisti esuli politici del nostro Risorgimento. Un altro tipo di emigrazione politica coatta va verso il Brasile, in conseguenza dei moti, in Romagna e nello Stato Pontificio, del 1831 e della successiva forte repressione, per la quale i patrioti condannati accettano l’esilio al posto del carcere.
Le emigrazioni politiche dei Paesi Italiani in epoca risorgimentale hanno avuto importanti effetti culturali, ideologici e sociali in terra americana, specialmente per i tre paesi del Cono sud (Argentina, Brasile, Uruguay) dove più consistente è la presenza italiana.
Questo Risorgimento mancato che inflisse al Sud ferite non ancora rimarginate non è solo oggetto di studio del Revisionismo storico, ma anche materia di ispirazione per la letteratura meridionalista, specialmente siciliana, che dalla voce di straordinari autori come Verga, Pirandello, De Roberto, Tommasi di Lampedusa, ha saputo sollevare forse il grido più acuto e incancellabile contro quelle promesse non mantenute che segnarono tragicamente il nostro paese.
In articoli successivi parleremo di questi scrittori e dei romanzi che raccontarono l’epopea fallita del Risorgimento nel sud d’Italia.