Ci sono poeti i cui versi raccontano soprattutto un mondo interiore e altri la cui vita si rispecchia nella poesia, facendone voce di un momento storico, di una condizione umana, sociale e politica particolare, di un grido contro il potere.
Il poeta mozambicano José Craveirinha è una di queste voci potenti che non ha mai smesso di alzarsi coraggiosa e chiara, anche quando la prigione reiterata e persino la tortura hanno tentato di spegnerne il canto, ribelle alle condizioni disumane e ingiuste in cui viveva la sua gente. Perché se il potere può concedere al poeta di parlare dell’anima, di costruire immagini di innocua bellezza, non gli concede di mostrare la realtà sociopolitica in cui vive, specie se parlarne significa soprattutto muovere critiche a un sistema di sopraffazione e violenza, fare della poesia un atto di accusa permanente, una rivolta della coscienza, un universo di parole lanciate come frecce contro le storture e le miserie della Storia.
Nato a Lourenço Marques, oggi Maputo, il 28 maggio del 1922, da un padre portoghese, figlio di poveri contadini emigrati dall’Algarve e da una madre ronga, appartenente a un gruppo etnico bantù del Mozambico meridionale, nonostante le difficili condizioni familiari – vivevano in quattro del misero stipendio di agente di polizia del padre- riesce a studiare insieme a suo fratello, continuando anche dopo la morte del genitore.
Ben presto comincia a scrivere poesie e a lavorare nelle redazioni dei giornali, legandosi ai movimenti di liberazione (FRELIMO) e divenendo presidente dell’Associazione africana della città.
Come giornalista, collabora con le seguenti testate giornalistiche mozambicane: -O Brado Africano, Notícias, Tribuna, Notícias da Tarde, Voz de Moçambique, Notícias da Beira, Diário de Moçambique e Voz Africana.
È l’epoca in cui, terminata la seconda guerra mondiale con la sconfitta del nazifascismo, la lotta contro il colonialismo guadagna i primi successi e nuovi paesi conquistano l’indipendenza.
In Mozambico molti giovani lavorano alla elaborazione di una cultura nazionale in senso moderno, discutono, scrivono su riviste e giornali, diffondono i loro scritti con stampe e ciclostili. Ma la cosa che preme a tutti maggiormente è quella di poter raggiungere la grande massa di analfabeti loro concittadini. Per questo molti scelgono la poesia come mezzo di espressione e comunicazione, in quanto questa può impararsi a memoria ed essere recitata nelle bidonville e nei villaggi.
Usano per esprimersi il portoghese, la lingua dei colonizzatori, che era stata imposta loro con la forza, ma per la poesia mozambicana questa lingua non sarà, come per i poeti africani di lingua inglese e francese, una lingua comunque assorbita dalle letterature dei paesi colonizzatori, dal momento che il Portogallo economicamente arretrato e culturalmente debole, non esercita su di loro la stessa influenza di altri paesi. Come ci dice Joice Lussu, grande studiosa e traduttrice di Craverinha, “Il loro portoghese si trasforma: “la grammatica e la sintassi vengono stravolte in forme autonome e funzionali, il vocabolario si arricchisce di parole africane, i riferimenti e le allusioni al bagaglio nozionistico europeo vengono banditi…I poeti rivoluzionari mozambicani adottano, per farsi intendere, queste trasformazioni”.
Ed è in questa lingua nuova maturata nei bisogni della propria gente che Craveirinha scrive i suoi versi, la cui molla forte e permanente è il suo canto di dolore e di sdegno di fronte alle sofferenze e alle umiliazioni che il popolo mozambicano subisce per mano dei dominatori portoghesi.
La vita del poeta negli anni della colonizzazione non è facile, sposato e con due figli, deve affrontare la lotta quotidiana per la sopravvivenza, sapendo che chi come lui vede con lucidità i mali del suo paese e li denuncia rischia costantemente il carcere o l’esilio. Scrive tanto ma poco gli viene pubblicato. Quando nel 1962 si edita a Lisbona con una stampa semiclandestina il suo primo volume di poesie “Chigubo”, questo viene ben presto ritirato dalla circolazione e la PIDE (la polizia politica portoghese) riceve l’ ordine di arrestarlo. Craverinha riesce a passare illegalmente la frontiera dello Zwaziland britannico, ma venuto a sapere delle rappresaglie subite dalla sua famiglia, rientra in Mozambico e viene imprigionato nel carcere di Machava. Qui entra in contatto con i più rappresentativi uomini di cultura del suo paese, tutti dissidenti imprigionati: il poeta e pittore Malangatana, lo scrittore Luís Bernando Honwana, il poeta Rui Nogar e tanti altri. Nel carcere Craveirinha, insieme ai suo compagni, viene ripetutamente torturato in interminabili interrogatori ma resiste con coraggio senza mai denunciare i suoi compagni di lotta. Durante il processo contro di lui il poeta mostrerà davanti agli asserviti e corrotti giudici del dittatore Salazar che la grandezza dell’uomo è pari a quella del poeta che ha infiammato il cuore del suo popolo.
Le sue opere sono:
– Chigubo (poesia) 1964 Casa dos Estudantes do Império Lisboa; 2ª ed. 1980 INLD Maputo
– Cantico a un dio di catrame (poesia, bilingue portoghese – italiano), Milano, Lerici, 1966 (trad. e prefazione Joyce Lussu)
– Karingana ua karingana (poesia, “Era uma vez”) 1974 Académica Lourenço Marques; 2ª ed. 1982 INLD, Maputo
– Cela 1 (poesia) 1980 INLD Maputo
– Maria (poesia) 1988 ALAC (África Literatura Arte e Cultura), Lisboa.
– Hamina e outros contos, 1997, Editorial Caminho, Lisboa (unico libro di racconti poetici dell’autore, dove coesistono gli elementi tipici della sua opera, la denuncia contro l’oppressione coloniale e il dolore per le condizioni di vita del suo popolo).
Tra i molti premi ricevuti, Craveirinha è stato il primo autore africano a vincere, nel 1991, il Prémio Camões, il più importante riconoscimento per la letteratura in lingua portoghese.
Anna Fresu, che ha vissuto e lavorato come operatrice culturale per molti anni in Mozambico e ha condiviso con Joyce Lussu la cura del libro “Voglio essere tamburo” edito dal Centro Internazionale della Grafica di Venezia, sulla poesia di Craveirinha, ci parla del poeta negli anni dell’indipendenza, mettendo in risalto che “Craverinha era molto serio e guardato con rispetto da tutti” e aggiunge “Anche i miei studenti ammiravano José Craveirinha e amavano recitare le sue poesie”. Avendo chiesto al poeta negli anni della guerra scatenata nel paese dalla Renamo (Resistenza Nazionale mozambicana), organizzata e militarizzata dai servizi segreti rodhesiani con lo scopo di destabilizzare il paese dopo l’indipendenza e nei successivi tentativi di negoziazione, cosa pensasse di fare in tale situazione, il poeta risponde “Un melo dà le mele. Io sono il poeta, Che cosa potrei dare?”
Il tamburo in Africa è realtà, voce e simbolo e il poeta vuole essere questo tamburo il cui scopo è cantare la propria terra e la sua volontà di riscatto.
“Tamburo è vecchio di grida/ o vecchio dio degli uomini/lascia ch’io sia tamburo/solo tamburo che grida nella notte calda dei tropici/e nemmeno fiore nato nello sterpeto della disperazione/ né fiume che corre verso il mare della disperazione/né zagaia temprata al fuoco vivo della disperazione/né poesia forgiata nel rosso dolore della disperazione/né nulla!”
E questo canto nutre sempre, anche nel dolore, la speranza di giorni di giustizia e pace, capace anche di parlare con l’uomo bianco che chiama “fratello europeo”, quell’oppressore che comunque riconosce, anche se ingiusto e crudele, come umano e come tale capace di una possibile empatia con le sue sofferenze.
“Se mi vedessi morire/i milioni di volte che nacqui/se mi vedessi piangere/i milioni di volte che ridesti…/se mi vedessi gridare/i milioni di volte che tacqui…/se mi vedessi cantare/i milioni di volte che morii e sanguinai…/ ti dico fratello europeo/dovresti piangere/dovresti cantare/dovresti gridare/e dovresti morire/E sanguinare…/milioni di volte come me!!!”
Ma il dolore del suo popolo preme e il grido negro del poeta inonda le strade del suo paese, versi che incendiano, spesso usciti dal carcere in piccoli foglietti nascosti da sua moglie sotto le vesti o da lei imparati a memoria per ridirli alla sua gente, per ricordare loro che il poeta è soprattutto la loro stessa voce che niente e nessuno può sopprimere, la voce che ricorda quanto e come la ribellione debba e possa “bruciare” ogni padrone.
“Io sono carbone!/E tu mi strappi brutalmente dalla terra/e fai di me la tua miniera, padrone/Io sono carbone!/e tu mi accendi, padrone/perché ti serva eternamente da forza motrice/ma eternamente no, padrone!/Io sono carbone/e devo ardere, sì/e bruciare tutto con la forza della mia combustione/Io sono carbone/devo ardere nello sfruttamento/ardere fino alle ceneri della maledizione/ardere vivo come il catrame mio fratello/fino a non essere più la tua miniera, padrone/Io sono carbone/devo ardere/bruciare tutto nel fuoco della combustione/sì!/sarò il tuo carbone, padrone!”
Questo grido può diventare un’imprecazione laddove il poeta sa che gli verrà data un’ elomosina, con la quale il bianco salva la propria coscienza, ma mai l’equità e la giustizia.
“…Ma metti in mano all’Africa il pane che ti avanza/e dalla fame del Mozambico ti darò i resti della tua voracità/e vedrai come ti riempie il nulla che ti restituisco/dei miei banchetti di briciole/per me/tutto il pane che mi dai è quanto/tu vomiti, Europa!”
Per questo la coscienza dell’essere poeta, depositario delle memorie, della storia, della gioia e del dolore della propria gente riconferma che non ci sono prigioni bastevoli a rinchiudere la poesia quando questa si fa forma dialettica di un assedio.
“Gli altri che non sono poeti lirici/e mai riuscirono ad essere almeno/semplici poeti di strada/ne traggono profitto/ e quelli che si sono spoetizzati/fra le quattro pareti convenzionali/efficienti e armati della loro paura/dall’inguine ai denti?/Poiché/solamente gli autentici bambini/dalla fantasia lirica/sono così imprevidenti che non si accorgono/che una poesia imprigionata anche un’ora/è una forma dialettica/per preparare l’assedio”.
Figlio della cultura dell’oralità oltre che cultore della scrittura, figlio della prigionia e della libertà, creatore di immagini potenti, Craveirinhapuò dire: ”È con la lussuria delle parole/evase dalle gabbie/che i poeti tessono/magnifiche/poesie oppure/pessimi versi”, sapendo che non bastano le idee e la passione a fare un poeta ma che sì un poeta con la bellezza dei suoi versi può suscitare negli altri passione e idee.
La sua morte avvenuta a Johannesburg, in Sudafrica il 6 febbraio del 2003 commosse il Mozambico che ancora considera i suoi versi la voce poetica più grande che si sia alzata in difesa dell’indipendenza, della libertà, dei diritti di tutti.
Traduzione dei versi: Joyce Lussu – Anna Fresu