L’aggressività, il piacere, il dinamismo, la vita vissuta intensamente in ognuna delle sue sembianze, la profondità della superficie. Ircocervi di Terra e di Mare è un’opera che nella sua immagine globale aspira ad assumere la forma della più spontanea e libera azione di guerriglia. Se l’opera poetica di Francesco Filipponi fosse un gesto, sarebbe un grido. Uno sparo. Un urlo nelle orecchie. Se fosse un desiderio, sarebbe un comando, una volontà. La voglia di saltare oltre la collina. O ancora, di lanciarcisi sopra, con l’energia della conquista di ciò che la circonda.
Nell’82, la scelta di Filipponi di prestare servizio nel reparto dei paracadutisti della Folgore ne ha segnato in senso goliardico i più lucidi ed energici anni della giovinezza. Non a caso, Filipponi è riuscito a transitare le esperienze più febbrili e significative in un coacervo ritmico, mitragliato, di versi che – in tutto il corso dell’opera – sviluppano la propria forma in cima all’humus del verso libero novecentesco.
Il marcato utilizzo della capacità onomatopeica di realizzarsi nell’istante, come l’impatto di un’automobile in fuga che sfreccia sulle pietre di un paese assopito. Ircocervi di Terra e di Mare è una fuga totale e sfrenata che assimila a sé la distorsione dell’esistente. E’ un messaggio esplosivo che apertamente aspira a portare una realtà plasmata dalla passione dell’ebbrezza di festa e lampi.
Ircocervi di Terra e di Mare non è un’opera che racconta l’esistente. Ma che lo porta a sé per inocularvi quello spirito di rivolta che così limpidamente riporta a quei versi scolpiti con le “Revolverate” di Gian Pietro Lucini.
La dimensione del Poeta che tira le redini è per Filipponi quell’immagine impressa che tende la sua spada sguainata verso l’alto, come nella mistica così esasperatamente esilarante di un Enrico Cavacchioli in “Cavalcando il Sole“. Come un Palazzeschi gioioso, Francesco Filipponi riesce a trasmutare, a coagulare quella vivacità della superficie e gli aspetti interiori del caos e del disordine con la genialità folle di quello scienziato pazzo chiamato modernità. Ciò che – a voler usare un linguaggio junghiano – possono essere definiti come elementi dell’inconscio collettivo, i quali si ripetono, si tramandano di generazione in generazione, quel prototipo universale di idee che ancora una volta può rivelarsi sconfinato. Ed è qui che Filipponi assurge alla versione onirica degli angoli più bui e isolati dell’inconscio che si riversa sulle pagine come un fiume percosso da un ordigno.
L’opera poetica segue uno svolgersi concettuale caleidoscopico in una continua spirale evolutiva. I sogni, le immagini, l’essenza dei gesti, anche di quelli più comuni, diventa un simbolo.
Il largo utilizzo delle onomatopee, sillabe che si realizzano nell’istante in cui vengono toccate, più che armoniose corde di un’arpa, suonano come n’arma da fuoco che decisa ritma i suoi proiettili al di là di chi sembra essere rimasto racchiuso attorno alla corona di spine di obsoleti dettami accademici.
In quella giungla per lo più inesplorata che ha reso il Futurismo fondato da Filippo Tommaso Marinetti quel febbraio del 1909 un movimento di portata internazionale, Filipponi intende continuare una battaglia densamente liberatoria per la poesia.
La volontà della poesia di rinnovarsi, di ritrovare i suoi antichi spazi e di conquistarne di nuovi, nella poetica di Filipponi è un campanello assordante che continua a premersi. E’ quell’energia che, saldata attorno alla forma più primitiva delle arti, quale è la poesia, afferma senza barriere un’estetica della quotidianità capace di elevarsi a significante anello di congiunzione fra gli elementi che la caratterizzano.
Ircocervi di Terra e di Mare è da annoverare fra le opere più libere e svincolate dalle regole accademiche che Francesco Filipponi ha reso pubbliche fino ad oggi, e senza dubbio un’interessante contributo al mondo della poesia contemporanea.