Sono passate poche settimane dalla rivolta in Iraq presso l’ambasciata americana a Baghdad eppure tante sono successe da allora. La morte del generale iraniano Soulimani e la risposta dell’Iran con i missili verso una base americana sembrano essere solo l’inizio di un conflitto che tutto il mondo vuole che si concluda grazie alla diplomazia e non con le armi.
La rivolta all’ambasciata americana di Baghdad
Il 31 dicembre 2019 ha visto una forte protesta irachena all’interno della “Zona Verde” di Baghdad (ovvero la porzione del territorio della capitale irachena utilizzata per gli edifici governativi e le ambasciate estere). Solo l’intervento delle forze di sicurezza a Baghdad ha consentito mettere al sicuro la situazione. La risposta di Washington non si è fatta di certo attendere con lo stesso presidente americano Trump che ha puntato il dito contro Teheran che, a suo dire, ha orchestrato la grande protesta irachena.
La morte del generale iraniano Souleimani
La risposta americana arriva pochi giorni dopo quando alcuni missili hanno distrutto un convoglio delle Pmu, le Forze di mobilitazione popolare irachene, che stavano accompagnando all’aeroporto una delegazione dei Guardiani della Rivoluzione di Teheran. Tra le vittime il generale Soleimani, un personaggio fondamentale nella storia recente del Medio Oriente: la sua morte è stata confermata dal Pentagono e da Teheran.
La risposta Iraniana alla morte del generale Soulimani
Domenica 12 gennaio, quattro soldati iracheni sono rimasti feriti in un attacco contro la base aerea di Balad, nel nord dell’Iraq, che ospita anche personale statunitense. L’attacco è stato rivendicato dall’esercito iracheno attraverso un comunicato nel quale si afferma che diversi razzi Katyusha, probabilmente 8, sono stati lanciati contro la base di Balad, a quasi 80 chilometri a nord della capitale Baghdad, e che tra i feriti ci sarebbero due ufficiali. Secondo fonti militari irachene citate dal New York Times, i feriti sono iracheni. L’esercito iracheno però non ha indicato esplicitamente l’Iran quale responsabile.