Thomas Bernhard, scrittore austriaco, nasce nel 1931 ad Heerlen, Olanda e muore nel 1989 a Gmunden, Austria. Autore di poesie, racconti, romanzi e lavori teatrali, è considerato un’importante scrittore di lingua tedesca del secondo Novecento, con una notevole risonanza di pubblico e una scottante discussione scientifica. I suoi attacchi alle istituzioni statali e a importanti personaggi politici austriaci suscitano e continueranno a suscitare scandalo. Le sue invettive sono anche riportate nel testamento lasciato dallo scrittore: «Nulla, né di quanto pubblicato da me stesso in vita, né del mio lascito, ovunque esso si trovi, indipendentemente dalla forma in cui sia stato scritto, potrà essere rappresentato, stampato o soltanto letto in pubblico per la durata dei diritti d’autore all’interno dei confini dello Stato austriaco, comunque tale stato si definisca. Sottolineo espressamente di non voler aver nulla a che fare con lo Stato austriaco, e mi oppongo non solo a qualsiasi forma di intrusione, ma anche ad ogni avvicinamento di tale Stato austriaco alla mia persona e al mio lavoro – per sempre».
A partire dagli anni Settanta si dedica intensamente al teatro scrivendo numerosi testi che il regista Claus Peymann mette in scena quasi sempre con l’attore Bernhard Minetti. Tra le sue opere principali: Perturbamento; Il nipote di Wittgenstein; Il soccombente; Estinzione; Autobiografia; etc.
Come definirebbe l’uomo di oggi in balìa di una dissociazione sociale e di una perdizione?
I più intelligenti sono continuamente minacciati dalla follia, diceva mio nonno. Ognuno di noi ha dei periodi piuttosto lunghi in cui la verità non esiste, e fa soltanto finta di esistere. Noi ci costringiamo a non percepire il nostro abisso. Eppure, per tutta la vita, non facciamo altro che guardare giù, al nostro abisso fisico e psichico, pur senza percepirlo. La maggior parte della gente è in liquidazione fin dalla nascita. Gli uomini camminano insieme, parlano insieme, dormono insieme, ma non si conoscono. Se gli uomini si conoscessero non camminerebbero insieme, non parlerebbero insieme, non dormirebbero insieme.
Cosa pensa dell’amore un grande scrittore come lei?
L’amore è un’assurdità che in natura non c’è. Spesso ci addentriamo a tal punto in un’esagerazione, in un istinto naturale che finiamo per considerare quell’esagerazione il solo fatto coerente dell’amore, e non percepiamo neanche più il fatto reale, ma solo l’esagerazione smisuratamente spinta all’estremo.
Ci parli un po’ dei suoi ricordi scolastici
Entrando a scuola tremavo, uscendo da scuola piangevo. Andavo a scuola come si va al patibolo, la mia decapitazione era sempre soltanto rinviata, e questa era per me una tortura. Le scuole sono soltanto fabbriche di imbecillità e di depravazione. È la scuola in sé, sosteneva mio nonno, che assassina il bambino.
La sua scrittura è considerata straordinariamente innovativa ma anche estrema. Cosa può dirci in merito?
Parlo un linguaggio che io solo capisco, nessun altro, così come ognuno parla soltanto il proprio linguaggio, e quelli che credono di capire sono degli imbecilli oppure dei ciarlatani. Tutta la nostra vita non è che un avvicinarsi ai limiti estremi della vita stessa. „I paroloni e le frasi altisonanti io li ho sempre presi per quello che sono: manifestazioni di incompetenza alle quali non bisogna far caso.
Qual è il dilemma della vita che più la spaventa? La morte la spaventa?
Di fronte a certi interrogativi ci sembra di trovarci di fronte a una fossa aperta che venga rapidamente riempita di terra. Ma lei dimentica che io sono già morto. Dunque, la morte non mi spaventa. La maggior parte delle persone, la percentuale più alta, che vive di idee altrui e sfrutta queste idee altrui fino all’estremo, senza vergogna, questo mi spaventa, soprattutto perché a queste persone nessuno chiede conto, al contrario, sono lodate ovunque. Ovunque guardiamo, sfruttatori di idee, che ne traggono un buon guadagno.
Oggi c’è una corsa alla sopravvivenza. La vita ci passa davanti e non siamo in grado di coglierne l’essenza. Secondo lei qual è l’essenza migliore di una persona?
Quello che c’è di essenziale in una persona viene alla luce soltanto quando dobbiamo considerarla perduta per noi, disse mio padre, nel momento in cui, ormai, questa persona può soltanto dirci addio. Ad un tratto, in tutto ciò che in essa è ormai soltanto preparazione alla morte definitiva, questa persona può essere riconosciuta nella sua verità. Si sopravvive, ma è sempre stato così: il popolo è destinato ad una vita grama. Anche l’arte nel suo insieme non è altro infatti che un’arte di sopravvivere, questo fatto non dobbiamo perderlo mai di vista, l’arte, insomma, è il tentativo reiterato, che commuove perfino l’intelligenza, di sbrogliarsela in questo mondo e nelle sue avversità, cosa che, come sappiamo, è possibile solo facendo ripetutamente uso della menzogna e della falsità, dell’ipocrisia e dell’autoinganno.
Pare che non ci sia più quella propensione al dubbio. Le persone non domandano più nulla a chi gestisce la società, cioè ai poteri forti e alla politica. Eppure un tempo la vita si basava sulle domande, forse perché vi era più sete di conoscenza?
È ovvio che c’è stato un cambiamento, in negativo però. Noi ci scagliavamo persino contro i nostri concittadini, le nostre città troppo anguste o troppo bigotte. Oggi teniamo in serbo le nostre domande perché noi stessi ne abbiamo paura, poi ad un tratto è troppo tardi per porle. Vogliamo lasciare in pace l’interrogato, non vogliamo ferirlo profondamente perché vogliamo lasciare in pace noi stessi e non ferirci profondamente. Rimandiamo le domande decisive e facciamo senza posa domande ridicole, inutili e meschine, e quando facciamo le domande decisive è ormai troppo tardi. La salvezza è là dove noi non andiamo, perché non saremmo capaci di tornare indietro.
Cosa ne pensa dei linguaggi passatisti che credono di dire la verità, ma non riescono a prendere una posizione antagonista, d’opposizione ad una cultura ormai fagocitata dal mercato economico più vieto?
Il linguaggio non serve quando si tratta di dire la verità, di comunicare qualcosa, il linguaggio permette a chi scrive soltanto l’approssimazione, sempre e soltanto la disperata e quindi anche dubbia approssimazione all’oggetto, il linguaggio non riproduce che un’autenticità contraffatta, un quadro spaventosamente deformato, sebbene chi scrive si dia un gran da fare, le parole calpestano e deformano tutto, e sulla carta trasformano la verità assoluta in menzogna. Per combattere l’insensatezza di un linguaggio senza spina dorsale, che ruota intorno a se stesso, svegliarsi, cominciare il lavoro e continuarlo fino allo sfinimento, finché gli occhi non possono e non vogliono più vedere, smettere, spegnere la luce, cadere in balìa degli incubi, consegnarsi ad essi come a una cerimonia senza pari. E il mattino dopo far di nuovo la stessa cosa, con la massima precisione, con la massima concentrazione, fingendo che tutto ciò abbia un significato.