Sibilla Aleramo, pseudonimo di Rina Faccio, scrittrice e poeta italiana, nacque ad Alessandria nel 1876 e morì a Roma nel 1960. Trascorse l’infanzia a Milano fino all’età di dodici anni, quando interruppe gli studi per il trasferimento della famiglia a Civitanova Marche, dove il marchese Sesto Ciccolini aveva offerto al padre la direzione della propria azienda industriale in cui la Aleramo fu impiegata come contabile. Nel 1891 fu messa incinta, a seguito di violenza sessuale, da un impiegato della fabbrica, che fu costretta, nel 1893, a sposare, nonostante l’aborto spontaneo.
Aleramo si sentiva soffocare dalla vita provinciale che era costretta a condurre, con un marito di cui non era innamorata e che anzi detestava. Trovò sollievo temporaneo nella nascita del primo figlio, Walter, nel 1895, ma cadde presto in depressione, tentando anche lei – come a suo tempo la madre – il suicidio. Salvatasi, trovò sollievo nella scrittura, iniziando a pubblicare articoli, a partire dal 1897, in riviste come la femminista «Vita Moderna», e nel periodico, di ispirazione socialista, «Vita Internazionale». Il suo impegno femminista e politico andò oltre la scrittura concretizzandosi nel tentativo di costituire sezioni del movimento delle donne e nella partecipazione a manifestazioni per il diritto di voto e per la lotta contro la prostituzione. Nel 1899 si trasferì a Milano con il marito, che aveva avviato un’attività commerciale, e le fu affidata la direzione del settimanale socialista «L’Italia Femminile».
Fece ritorno a Porto Civitanova, dove il marito aveva ricevuto l’incarico di dirigere la fabbrica al posto del suocero dimissionario. I rapporti familiari sempre più tesi la convinsero ad abbandonare marito e figlio trasferendosi a Roma, nel febbraio del 1902. Si legò sentimentalmente a Giovanni Cena, direttore della rivista «Nuova Antologia» alla quale la Aleramo collaborò e iniziò a scrivere, su sollecitazione dello stesso Cena, il romanzo Una donna, edito nel 1906, che altro non è che la storia della sua stessa vita, da quell’infanzia tormentata alla difficile decisione di lasciare il figlio tanto amato, in nome dell’indipendenza e dell’amore per la letteratura.
Lei è conosciuta soprattutto per i suoi numerosi amori (Cena, Cardarelli, Boccioni, Cascella, Boine, Campana, Papini, Quasimodo, Matacotta) e per il romanzo Una donna dove si affronta il tema della condizione femminile nell’Italia dei primi del ‘900, portando la sua testimonianza sulla difficoltà di farsi accettare dalla società come donna e non solo come moglie o madre di qualcuno. Quando nasce il suo impegno femminista?
Un fatto di cronaca mi indusse un giorno di scrivere un articoletto e a mandarlo a un giornale di Roma che lo pubblicò. Era in quello scritto la parola femminismo, e quella parola, dal suono così aspro mi indicò un ideale nuovo, che io cominciavo ad amare come qualcosa migliore di me. Dacché avevo letto uno studio sul movimento femminile in Inghilterra e in Scandinavia, queste riflessioni si sviluppavano nel mio cervello con insistenza. Avevo provato subito una simpatia per quelle creature esasperate che protestavano in nome della dignità di tutte sino a recidere in sé i più profondi istinti, l’amore, la maternità, la grazia. Sempre più il mio pensiero cadeva sulla parola emancipazione, che ricordavo di avere sentito nella mia infanzia, da mio padre seriamente, ma poi sempre con derisione da ogni classe di uomini e di donne.
Come mai dopo qualche tempo decise di distaccarsi dal movimento femminista?
Ormai lo giudicavo una breve avventura, eroica all’inizio, grottesca sul finire, un’avventura da adolescenti, inevitabile ed ormai superata. Ma proseguii il mio impegno civile una volta iscrittami al PCI.
Cosa le rimane delle partecipazioni a manifestazioni per il diritto di voto, per la lotta contro la prostituzione?
L’affermazione di una vita libera e consapevole in contrapposizione alla costrizione e all’umiliazione dell’esistenza che un’ipocrita ideologia del sacrificio intende imporre alle donne.
Qualcuno l’ha definita “mangiatrice” di uomini. Ma per una donna che ha collezionato un considerevole numero di amanti, che cos’è l’amore?
L’amore è una fusione assoluta, al di sopra di ogni differenza: è il miracolo che di due esseri complementari fa un solo essere armonioso. Non so se sono stata donna, non so se sono stata spirito. Son stata amore. Tutto questo, sì, è un compito immenso, eppure non è che la superficie: bisogna riformare la coscienza dell’uomo, creare quella della donna! Ogni selvaggio istinto, ogni violenza di desiderio, e anche ogni superbia di pensiero naufragava in quella semplice ma infinita e perfetta affermazione d’amore. L’amore fu la ragione della mia esistenza e quella del mondo. Amo, dunque sono.
Lei si è battuta per tutta la vita in favore dei diritti delle donne, rivalutando la loro partecipazione alla vita sociale, ne più ne meno di un uomo. È riuscita a realizzare la sua missione dando dignità e diritti paritari alle donne?
Come si può diventare donna, se i parenti la danno, ignara, debole, incompleta, a un uomo che non la riceve come sua eguale; ne usa come d’un oggetto di proprietà; le dà dei figli coi quali l’abbandona sola, mentr’egli compie i suoi doveri sociali, affinché continui a baloccarsi come nell’infanzia? Per questo dico alle donne: ribellatevi ai soprusi, ai maltrattamenti, riconquistate la vostra dignità di donne, di madri, di figlie, di sorelle.
Cosa resta di quella donna forte ma infelice?
Le rispondo con una mia poesia, Guardo i miei occhi: «Guardo i miei occhi cavi d’ombra / e i solchi sottili sulle mie tempie, / guardo, e sei tu, mio povero stanco volto, / così a lungo battuto dal tempo? / Mi grava l’ombra d’un occulto sogno. / Ah, che un ultimo fiore in me s’esprima! / Come un’opaca pietra / non voglio morire fasciata di tenebra, / ma d’un tratto, dalla radice fonda, / alzare un canto alla ultima mia sera».
Cosa l’ha tormentata o la tormenta della sua vita?
Ho dato tutto me stessa alla poesia ma la poesia spesso mi ha abbandonata al mio destino. Ho fatto molto anche per la questione femminile con le amiche Fausta Cialiente, Natalia Ginzburg, Alba de Cespedes, Anna Banti, Ada Gobbetti, Elsa Morante e Camilla Ravera, ma ho raccolto molto poco rispetto a quanto penso di valere. Ho dovuto difendermi dalle critiche negative che mi etichettavano soprattutto come l’amante di molti letterati e che grazie a loro sono riuscita a ritagliarmi un ruolo importante nella cultura italiana. Quanto è meschina certa gente! Il mio più grande cruccio è essere condannata a sparire senza che nessuno possa veramente tramandare la mia essenza nonostante tutte le parole che ho scritto e detto, nonostante tutto l’amore illimitato che ho nutrito per i singoli, per l’umanità e la poesia. La solitudine, invece, mi spaventa, anche se siamo state sempre buone compagne.
Se può consolarla, siamo in due a pensarla allo stesso modo. Una donna è forse il suo libro più noto, ma secondo lei qual è l’opera che più di altre la connota?
Endimione. Un poema drammatico dedicato ad uno dei miei amori che durò fino alla sua morte, nel 1922. Quando lo rileggo gli occhi mi si riempiono di pianto: è pura poesia! In nessun’altra mia opera vi è tanta purezza d’animo. È il vivere nell’alone della morte che trae alla luce la mia essenza più alta. Vivevo a Napoli, dal 1920 al 1922, e nell’allucinata visione del golfo, la libertà da ogni cruccio materiale mi permise (e fu l’unica volta) la trasfigurazione fantastica della mia vicenda intima. Spesso mi assale un’ondata di più cupa tristezza. Nessuno a cui poter dirla, nessuno che possa tentare di confortarmi, tentare almeno. In tutto il mondo, nessuno.
Uno dei poeti che ha amato (poeticamente parlando, s’intende) è stato il poeta francese Paul Eluard (le confesso che è anche uno dei miei preferiti). Come ha conosciuto Eluard?
La prima volta fu a Roma, nella primavera del 1946, quando venne a leggere le sue poesie, presentato da Ranuccio Bianchi Bandinelli. Allora, del poeta francese conoscevo soltanto Liberté. Scandiva le sue poesie con mirabile intensità. Io ero seduta accanto a Palmiro Togliatti, anche lui attento ad ascoltare quei versi, che erano e saranno affermazioni di felicità, come scrisse un giorno Aragon, di fraternità, un impeto sovrumano di gioia per la vita, d’amore per la vita di tutta l’umanità. Oggi è proprio questo quello che manca: l’amore per la vita e per l’umanità.
Cosa si aspetta dal futuro?
Poeticamente parlando, mi piacerebbe rispondere alla sua domanda con la mia piccola lirica Ironica e pallida: «Ironica e pallida / da un cielo bianco, d’inverno / la luna mi guarda, / è quasi sera, / io sono tanto stanca / e povera come la più povera… / Mendicare ancora, perché? / Son sola e senza più giovinezza, / S’irride ai miei canti / e pallida e di pietra, / come da un cielo d’inverno, / la vita mi guarda, / è quasi sera…». Ritornando con i piedi per terra, infrantomi il sogno di vedere un’Europa comunista sin dalla mia iscrizione al PCI, mi aspetto un mondo non soltanto senza più guerre né odii, ma di intima pace per tutti i cuori. Intenti, i cuori, a creazioni meravigliose, emule delle stelle e delle rose, senza affanno, senza fretta, fra lunghe sognanti pause, lunghi colloqui senza parole con lo spirito dell’universo. Questo nostro tormento, questa nostra solitudine, questa nostra esistenza da caverna, questo nostro tragico balbettio, questi smarriti sguardi nel vuoto, questo brancolare impotente o un raro lampeggiare di grazia quale appare sul volto d’un neonato, lasceremo in eredità alle generazioni future?