Oggi ci è venuto a trovare Roland Barthes, saggista e semiologo, figura fondamentale nel panorama culturale francese del dopoguerra: parliamo di scrittura e stile. Argomento tosto, che ha significato un punto di riferimento costante per la semiologia e punto di riferimento per l’affermarsi della nouvelle critique (un gruppo che tendeva a soppiantare la storia della letteratura come metodo primario d’interpretazione delle opere con l’adozione dello strutturalismo o dell’affermazione che “il tempo delle opere” è indipendente dal “tempo della storia”, che ha avuto il Barthes il suo maggiore esponente), un luogo privilegiato dell’analisi letteraria.
Roland Barthes (1915-1980) è uno dei maggiori linguisti e semiologi del Novecento, saggista e critico letterario. Gli esordi furono influenzati dall’esistenzialismo di Sartre e dalla sociologia marxista. Elaborò la nozione di “scrittura” che sta fra lingua e stile e caratterizza la relazione tra lo scrittore e la società che riceve il suo atto creativo. In seguito, la critica di Barthes si arricchì degli apporti fondamentali dell’indagine psicoanalitica di Bachelard, e della linguistica strutturale. L’analisi semiologica poi si concentra sui miti della società contemporanea, con Miti d’oggi (1957) e sulla “testualità”: in particolare conIl piacere del testo (1973). Un percorso eterogeneo che passa attraverso il discorso letterario e sulla centralità del lettore: ogni scrittura è soltanto la proiezione di tante altre.
Che cos’è per lei la critica letteraria?
La critica letteraria è una scienza che si avvale di altre scienze, tra cui la linguistica strutturale, la psicoanalisi e la sociologia, argomenti che ho riportato in Essais critiques, pubblicato nel 1964. La mia critica invece, come del resto la mia semiologia, tende alla sistemazione della scienza dei “segni”. Largo uso ne ho fatto in L’impero dei segni del 1970. Insomma, per me la critica letteraria deve tendere a diventare una scienza della letteratura che si avvalga di altre scienze: della linguistica strutturale, della psicanalisi, della sociologia e dell’etnologia.
Sin dal suo primo volume, Le degré zéro de l’écriture (1953), lei s’impose all’attenzione del mondo letterario ed accademico. In esso, distinguendo “scrittura”, “lingua” e “stile”, si poneva l’attenzione sull’incidenza del “parlato” nella narrativa contemporanea. Può dirci qualcosa in più?
Inizierei con l’affermare che non esiste linguaggio scritto senza ostentazione, imprecazioni, stilemi del parlato. La letteratura deve segnalare qualche cosa, diverso dal suo contenuto e dalla sua forma individuale, attraversa la quale essa s’impone come letteratura. Ma deve fare i conti con il linguaggio e la sua struttura nel corso del tempo storico obbligandolo a significare, dal momento che l’uomo è diventato un infelice con Leopardi, al contrario di una scrittura unica come poteva essere quella borghese pre-leopardiana, cioè classicistica, dove la forma non poteva essere divisa in quanto si riteneva la coscienza non divisibile.
Non è che ci abbia capito un granché.
La cosa importante è che d’ora innanzi la forma letteraria potrà provocare i sentimenti esistenziali che sono connessi al vuoto di qualsiasi oggetto: senso dell’insolito, familiarità,
disgusto, compiacimento, consumo, uccisione che gli sono connaturali. E questo avviene solo rifiutando la scrittura (e la sua struttura trasparente) del suo passato, il segno decorativo (il linguaggio decorativo, inerme) senza spessore e senza responsabilità.
Dunque, la letteratura è in qualche modo uccisione, annientamento?
Ma non nel senso letterale del termine. Ogni forma che lo scrittore trova sulla sua strada, non possono essere distrutti senza distruggere se stesso. Di conseguenza la letteratura diventa come sospesa tra euforia e narcisismo, diventa oggetto. È stato Mallarmé a portare a termine la costruzione della letteratura-oggetto attraverso l’atto estremo di tutte le oggettivazioni. L’uccisione, di cui abbiamo detto sopra. Lo sforzo di Mallarmé è volto a una distruzione del linguaggio, di cui in un certo senso la letteratura non sarebbe altro che il cadavere.
La cosa è piuttosto complicata. Ma come è passata la scrittura attraverso tutti gli stadi di una solidificazione progressiva fino a diventare sovrastruttura della realtà?
Dapprima come oggetto di uno sguardo, poi di un fare e infine di un omicidio. Oggi vive la sua ultima trasformazione: l’assenza di qualsiasi segno fino alla realizzazione di un sogno orfeico: uno scrittore senza letteratura che segue passo passo le lacerazioni della coscienza borghese.
Asoolutamente negativa?
Essa non è lo spazio di un luogo di un impegno sociale, ma solo il suo riflesso. Il linguaggio è solo un orizzonte umano che instaura più un limite che un supporto, perché alla fine attinge solo nella mitologia personale.
Dunque, senza stile per una scrittura funzionalista?
Sì, perché lo stile è al di là della letteratura. È una forma senza uno scopo, in uno spazio ipofisico, di un impulso non di una intenzione, di una dimensione verticale e solitaria del pensiero.
Lo stile è una forma senza uno scopo, destinato ad una usura immediata?
È un’allusione lo stile, un fenomeno di ordine germinativo che si dirama in profondità. La scrittura o la parola, invece, ha una struttura orizzontale, i suoi segreti sono sulla stessa
linea dei suoi termini. Nella parola tutto è offerto, trascinando verso un senso abolito dalla storia, dimostrazione dell’impegno politico e storico della lingua letteraria. Lo stile è sempre un segreto racchiuso nel corpo dello scrittore, una specie di meta-letteratura innalzata a potenza assoluta e magica.
Cosa potrebbe favorire oggi un linguaggio costruttivo?
Esperienze e sperimentazioni diverse, sostituire all’istanza della realtà, mitico alibi che ha dominato e domina tuttora la letteratura, l’istanza del discorso. Il campo dello scrittore è la scrittura stessa, non come forma pura dataci dall’estetica dell’arte per l’arte, bensì molto più radicalmente come solo spazio possibile di chi scrive.