Oggi ci è venuto a trovare il fantasma del poeta Rainer Maria Rilke, nacque a Praga nel 1875 e morì di leucemia a Montreux nel 1926. Scrittore, poeta e drammaturgo austriaco di origine boema, è considerato uno dei più importanti poeti di lingua tedesca del XX secolo, famoso soprattutto per le Elegie duinesi, i Sonetti a Orfeo e I quaderni di Malte Laurids Brigge. Figlio di un funzionario boemo e di una madre artista cui restò idealmente sempre legato, dopo aver frequentato l’Accademia militare, si dedicò allo studio della storia dell’arte. Fu a varie riprese in Italia: soggiornò per mesi a Napoli e a Capri.
Mi permetta di sottolineare una cosa: la sua poesia non mi ha mai preso, non sopporto l’orfismo, la mitologia, e il sentimento mistico e metafisico come espressione di Dio, di cui lei è maestro. Ma questo, forse, è un mio limite oltre che un gusto personale. E se mi permette, vorrei aggiungere che mi è altrettanto indifferente la definizione di l’“Heidegger poetico”, che le hanno dato alcuni critici. Non posso accettare un poeta definito metafisico e “prefascista”, anche la sua poesia è ripresa da vari poeti, tra cui P. Celan. Ma visto che ci è venuto a trovare, non posso esimermi dall’intervistarla.
E allora incominciamo!
Nonostante il mio dissenso sulla sua poesia, non posso che sottolineare la nuova dimensione della forma e del linguaggio da esplorata e fissata in un periodo dove, terminate le stagioni surrealiste e dadaiste, si stava andando verso una conservazione del passato. Perché la sua poesia “mistica” abbia influito così tanto sulla poesia della prima metà del XX secolo?
Si riferisce ai Sonetti a Orfeo, la mia opera maggiore, dicono i critici più avveduti. Ma non spetta a me dirlo, ma visto che me lo chiede, cercherò di accontentarla. Le mie poesie, rispetto a ciò che si leggeva in giro in quel periodo, seppur suffragate da una limpida serenità, avevano una grande audacia formale, non dico come per le avanguardie, ma ci siamo vicini. Credo di essermi staccato nettamente dalla cultura della crisi del mio periodo, nel tentativo di approdare a una nuova visione della vita, in cui l’uomo è al centro del progetto, ancora portatore di una possibile idea di distruzione del mondo ormai sorretto solo dalla mercificazione di tutto, anche dell’arte.
Mi scusi se la interrompo: stessa cosa dicasi del mio tempo. Allora è vero che la storia si ripete! Con una differenza: noi il mondo lo stiamo solo distruggendo.
Nella mia idea di poesia, invece, l’uomo è visto anche come possibile salvatore del mondo se riesce a trasferire il verbo poetico nel proprio interiore.
Ma è preservare la poesia! Dov’è la salvazione del mondo?
È proprio nella necessità di preservarlo, attraverso la poesia, da ogni minaccia esterna, nel più profondo intimo, dove la drammaticità dell’esistente viene sopita, come ogni angoscia.
Molti giovani (e anche meno giovani) oggi scrivono poesie con la speranza immediata di essere riconosciuti come tali, di esternare per sentirsi subito protagonisti. Facebook e i social network in generale, se da un lato hanno resa la visibilità quasi immediata, dall’altro devia il “poeta” di turno verso certezze che non ci sono. Su questi social si può scrivere di tutto senza che qualcuno (o pochissimi) ti dica: ma cosa stai scrivendo? Lascia stare, fai altro! Perché la prima cosa che viene quasi istintivamente (forse perché nel commentare non si hanno strumenti in grado di vedere le cose come stanno), è mettere questo arcisunto “mi piace”. Va bene, mi piace, ma perché ti piace? Cosa può dire a chi si accinge o si ostina a considerarsi poeta?
La prima domanda che deve porsi è se i suoi versi siano buoni, prima di renderli pubblici. Poi deve confrontarle con altre poesie, allarmandosi se certe redazioni rifiutano le sue prove. Nel senso: fare un’autoanalisi. Se le “consigliano”, le poesie, di rinunciare, deve rinunciare, non prima di aver guardato dentro di sé, senza guarda all’esterno, ed è appunto questo che ora non dovrebbe fare: guardare all’esterno, in quanto nessuno, e dico nessuno, gli dirà con tutta sincerità e onestà quanto siano presentabili le sue poesie.
Allora nessuno può dare consiglio ad un poeta su come comportarsi?
Sì, nessuno. Nessuno può darle consiglio o aiuto, nessuno. Nel momento di dare un consiglio, il consigliere, suo malgrado, viene assalito da un invidia che neanche sapeva di avere, da una gelosia che rifiuta categoricamente che uno possa creare delle poesie e lui no. Per non essere, diciamo, scortese, fa uno sforzo, ma è uno sforzo dettato dall’esterno.
È mai possibile che non sia un modo?
Non v’è che un mezzo. Guardare dentro di sé. Interrogarsi sul motivo che gli intima di scrivere; verificare se esso protenda le radici nel punto più profondo del suo cuore; confessare a se stesso: morirebbe, se gli fosse negato di scrivere? Se lo domandi, nell’ora più quieta della sua notte: devo scrivere? Dovrà frugare dentro di sé alla ricerca di una profonda risposta. E se sarà di assenso, se potrà affrontare con un forte e semplice «io devo» questa grave domanda, allora costruisca la sua vita secondo questa necessità. La sua vita, fin dentro la sua ora più indifferente e misera, deve farsi insegna e testimone di questa urgenza.
Ma ora siamo atterrati su un piano filosofico. È come dire “perché si scrive”? Ma è da quando esiste che l’uomo esterna il proprio linguaggio con segni e parole non verbali. Comunque, vogliamo dare un aiuto a questi neofiti o provetti poeti su come si genera una poesia?
Per un solo verso si devono vedere molte città, uomini e cose, si devono conoscere gli animali, si deve sentire come gli uccelli volano, e sapere i gesti con cui i fiori si schiudono al mattino. Si deve poter ripensare a sentieri in regioni sconosciute, a incontri inaspettati e a separazioni che si videro venire da lontano, a giorni d’infanzia che sono ancora inesplicati, ai genitori che eravamo costretti a mortificare quando ci porgevano una gioia e non la capivamo, a malattie dell’infanzia che cominciavano in modo così strano con tante trasformazioni così profonde e gravi, a giorni in camere silenziose, raccolte, e a mattine sul mare, al mare, a mari, a notti di viaggio che passavano alte rumoreggianti e volavano con tutte le stelle, e non basta ancora poter pensare a tutto ciò. Si devono avere ricordi di molte notti d’amore, nessuna uguale all’altra, di grida di partorienti, e di lievi, bianche puerpere addormentate che si schiudono. Ma anche presso i moribondi si deve essere stati, si deve essere rimasti presso i morti nella camera con la finestra aperta e i rumori che giungono a folate.
Qual è il ruolo del poeta, posto che abbia un ruolo?
È difficile il nostro compito, quasi tutto ciò che è serio è difficile, e tutto è serio. E ci vuole coraggio oggi scrivere dei versi: pare che nessuno se ne freghi delle poesie! È questo in fondo l’unico coraggio che si richieda a noi: essere coraggiosi verso quanto di più strano, prodigioso e inesplicabile ci possa accadere.
Non credo che tutti coloro che si accingano a scrivere una poesia hanno vissuto tutto questo. Si trae gli strumenti e i sentimenti dai ricordi degli studi fatti in gioventù. Vivere tutto quello che lei afferma non basta una vita.
Anche avere ricordi non basta.Si deve poterli dimenticare, quando sono molti,e si deve avere la grande pazienza di aspettare che ritornino.Poiché i ricordi di per se stessi ancora non sono. Solo quando divengono in noi sangue, sguardo e gesto,senza nome e non più scindibili da noi,solo allora può darsi che in una rarissima orasorga nel loro centro e ne esca la prima parola di un verso.
Ci regala un pensiero sull’amore?
L’amore non si impara; l’amore consiste in questo, che due solitudini si proteggono a vicenda, si toccano, si salutano. L’amore ha ragione, in ogni caso. Oggi chi dà ancora ragione a un amore ben fatto? Nessuno. Una volta si sapeva di avere in sé l’amore come il frutto ha il nocciolo. E seppur dovesse avere torto, datele sempre ragione: l’amore è come un’opera d’arte che nemmeno il critico più avveduto e preparato riesce a comprendere nella sua straordinaria totalità.
Mi suona strana questa risposta, strana perché detta da un uomo introverso e incapace di mantenere relazioni amorose durevoli.
E dice bene. Ho pensato soprattutto alla mia arte, accattivarmi protezioni illustri e di prendere il meglio dalla poesia del mio tempo. Con questo obiettivo potevo dare davvero poco alle donne. Più che possedere una dote di amatore, ho scoperto nel tempo di possedere una vocazione per la poesia, il che mi obbligava a sottomettermi non ad una donna (perché quando si convive con una donna ci si sottomette con tutta coscienza però, è inutile negarlo), ma ad una poesia religiosa che andava anche, per certi versi, contro la mia volontà, ma la sottomissione a qualcosa di più grande non mi lasciava scampo.
Cioè Dio, la Verità, la pienezza dei sentimenti che ogni uomo reca in sé, come qualcuno ha detto?
Glielo dico con una mia poesia dal titolo emblematico Dio: Non attender che Dio su te discenda / e che ti dica: Sono. / Senso alcuno non ha quel Dio che afferma / l’onnipotenza sua. / Sentilo tu, nel soffio ond’ei ti ha colmo / da che respiri e sei. / Quando, non sai perché, ti avvampa il cuore, / è Lui che in te si esprime.
Allora i critici si sono sbagliati: comprendo che la sua è una pseudo-religiosità, ma ci sono molti riferimenti a Dio, al cielo, all’eterno, alla trascendenza dell’anima.
I critici hanno preso un abbaglio! A stare dietro ai critici, la mia poesia assume una strana posizione nella cultura del ‘900: è stata interpretata, erroneamente, come una specie di surrogato religioso, una sorta di misticismo.
Può darsi che abbiano preso un abbaglio, ma è ciò che ci hanno trasmesso: un Rilke divino.
Ognuno può dire quello che vuole, ma la realtà è un’altra: non hanno compreso cosa intendo per divino.
Ce lo spieghi, allora.
Come può un poeta interpretato in chiave mistico-religiosa che non crede in Dio?
Vuole dire che lei non crede in Dio?
Non come s’intende nella maggior parte dei casi, cioè credere ad un essere superiore. La mia posizione nei confronti della divinità non prevede un essere superiore, il Dio di tutte le cose, come è concepito dalle varie religioni. Non ho mai creduto a un Dio metafisico, il mio Dio non è scollegato dall’uomo, in quanto è nell’uomo che si manifesta, fino a confondersi con l’io, fino a divenire l’essenza dell’uomo. Si figuri che non sono nemmeno cristiano e mi hanno avvicinato al Cristianesimo. Nominare Dio non significa parlare con Dio.
L’argomento è interessante, si dovrebbe approfondire e venire a capo di una definizione precisa della sua poesia. Ma questo compito lasciamolo ai critici della sua poesia. Soprassediamo su questi argomenti troppo filosofici e passiamo ad argomenti più “leggeri”. Decisivo è stato il suo incontro con la scrittrice e psicanalista tedesca Lou Andreas-Salomé, più anziana di lei di quindici anni, amica di Nietzsche e poi allieva di Freud. Ricordiamo ai lettori il suo viaggio in Russia con la scrittrice, dove conobbe Tolstoj, che ha influenzato non poco la sua poesia e rafforzato il suo misticismo, o meglio, il suo presunto “misticismo”, come lei asserisce. A parte Tolstoj ed altri scrittori, artisti e poeti (penso a Rodin, Kierkegaard, la scultrice Clara Westhoff, che sposò dopo pochi mesi, Gide, Klopstock, Hölderlin, Nietzsche, Cézanne. Quanto ha contato per lei?
Chi?
Lou Andreas-Salomé! Alla quale ha intitolato anche una sua poesia: (A Lou Andreas-Salomé) «Non posso ricordare. Ma quei momenti / puri dureranno in me come / in fondo a un vaso troppo pieno. / Non penso a te, ma sono per amore tuo / e questo mi dà forza. / Non ti invento nei luoghi / che adesso senza te non hanno senso. / Il tuo non esserci / è già caldo di te, ed è più vero, / più del tuo mancarmi. / La nostalgia / spesso non distingue. Perché / cercare allora se il tuo influsso / già sento su di me lieve / come un raggio di luna alla finestra». Doveva amarla tanto…
In lei ho trovato un sostegno umano e artistico. A lei ho dedicato un diario, il Quaderno di Firenze.
Tutto qui?
E le pare poco? Non si trova facilmente, sa, una donna che ti sostenga umanamente ed artisticamente: anzi, direi, che ti sopporti. Forse lei ci riusciva in quanto anch’ella facente parte del mondo artistico. Ma anche in questo caso non è detto che funzioni sempre: è più facile che subentri invidia, gelosia, egoismo, possessione per la propria arte che sostenere il proprio partner.
Comunque, dobbiamo riconoscerlo: la sua poesia resta un punto di riferimento per la poesia del Novecento. Secondo lei perché?
Forse perché la dove si stava perdendo il gusto della vita che culminò con una inutile guerra mondiale, la mia poesia è considerata come una esaltazione della vita che si materializza nella morte, quindi nella rinascita di sentimenti nuovi.
Però i cambiamenti decisivi dell’arte del suo periodo nascono nella scuola psicanalitica e neopositivistica freudiana.Quanto ai suoi romanzi gli viene riconosciuto un ruolo di primo piano nella narrativa del Novecento. La sua narrativa ha rotto gli schemi epici ottocenteschi con una forma diaristica che spesso sfocia nel saggio, accompagnata da una tematica dell’angoscia e dell’alienazione. Ma è così difficile convivere con l’arte?
Le opere d’arte sono di una solitudine infinita, e nulla può raggiungerle meno della critica. Appena un artista ha trovato il vivo centro della sua attività, nulla per lui è così importante come mantenervisi: il suo posto non è mai, neanche per un attimo, accanto allo spettatore e al critico. L’esperienza artistica, invece, è così incredibilmente prossima a quella sessuale, alle sue pene e ai suoi piaceri, che i due fenomeni non sono in realtà che forme diverse di una identica brama e beatitudine.
Quasi una ossessione, allora, la ricerca dell’uomo-dio nell’arte, nell’aspirazione alla bellezza. Una ricerca dell’assoluto?
Per questa ricerca mi è stata compagna fedele e costante la depressione. Ma non so fare altro; anzi, non voglio fare altro che deprimere per l’arte, la poesia, le uniche per cui valga la pena perdersi. La vera bellezza consiste in una vita bella (si badi bene! Non ho detto “una bella vita”) e scoprire il vero segreto della vita, cioè l’arte della vita.