Lucio Battisti nasce a Poggio Bustone, in provincia di Rieti, il 5 marzo 1943, un giorno dopo un altro grande della musica italiana, Lucio Dalla, e muore a Milano dove viveva, il 9 settembre 1998. Tra i più grandi e influenti cantautori italiani di sempre, Battisti ha contribuito a dare alla canzone tradizionale e melodica una forma innovativa che si è spostata verso ritmi e sonorità pop-rock. Ha venduto oltre 25 milioni di dischi e pubblicato 19 album, con successi quali Mi ritorni in mente, Il tempo di morire, E penso a te, Io e te da soli, Eppur mi son scordato di te, Emozioni, La canzone del sole, I giardini di marzo, Il mio canto libero, La collina dei ciliegi, Il nostro caro angelo, ecc.
Ma il suo successo non si ferma a queste canzoni ormai classiche del suo repertorio. Battisti ha vissuto una seconda e una terza vita, artisticamente parlando. Alla seconda vita appartengono canzoni altrettanto famose quali Con il nastro rosa, Perché no, Ancora tu, Una giornata uggiosa, Prendila così, Una donna per amico, Aver paura d’innamorarsi troppo, Amarsi un po’, ecc. Alla terza fase, invece, dopo il divorzio da Mogol, suo paroliere storico, per essersi esaurita quell’esperienza autobiografica, pubblica un album, E già (1982), con testi della moglie, Grazia Letizia, che si firma con lo pseudonimo di Velezia.
Sono testi semplici e diretti, meno raffinati di quelli scritti da Mogol, un’aria nuova: il confronto è improponibile sin da subito, d’altronde. Quello che aggiungono questi testi al percorso di Battisti è una fase di serenità e freschezza, di rinascita, un ritorno alle origini del cantautore. Ormai la strada della sperimentazione musicale è avviata, influenzata dalla synth pop. Usa suoni sintetici, post-moderni, monotonali, tastiere elettroniche, sintetizzatori e batterie elettroniche.
Questa sperimentazione si avvia verso il traguardo nel 1986 con Don Giovanni, il primo album con testi di Pasquale Panella, un poeta più che un paroliere, ricchi di doppi sensi e giochi di parole, enigmatici che impegnano l’ascoltatore alla riflessione, per completarsi nel 1994, con l’ultimo album pubblicato, Hegel. Anche la musica subisce una flessione, le melodie sono più compiute e ariose, si dispiegano tra sonorità elettroniche e tradizionali, facendoci conoscere l’anima rock del cantautore: «Ed il tuo volto è tutto nel momento in cui / passando sopra alla tua immagine / della quale è troppo facile dire che in superficie, / affiori l’anima passando sopra la tua immagine, invece / ci si vede intraducibile l’estraneità al lavoro. Ché il volto è tutto / ma non è del corpo, al quale pare unito» (La voce del viso, da Hegel).
Quando inizia ad avvicinarsi alla musica?
In pubblico nell’autunno del 1962. Ho incominciato a suonare la chitarra proprio nella sua città di Napoli, con “I Mattatori”, nei locali notturni e al bar “Rosso e Nero”, contro il parere di mio padre che per me aveva sperato in un conseguimento del diploma di perito tecnico e poi un lavoro. Facevamo quasi la fame, pochi soldi e tanta gavetta. Ma fu la solitudine e la lontananza dalla mia famiglia che mi fecero prendere la decisione di far ritorno a casa.
E dopo?
Un anno dopo sono entrato ne “I Satiri”, gruppo romano che accompagnava Enrico Pianori, e che spesso suonava a Roma nel locale “L’Osteria dell’Orso”, ma suonammo anche al “Torricelle” di Verona, al “Fiasco” di Forio d’Ischia, un night club che Pianori affittò interamente per poterci esibire. È lì che scrissi per la prima volta la musica ad una canzone dal titolo Lilì, con testo di Pianori. Poi suonammo al “Lloyd” di Napoli, un bellissimo night club sul lungomare. Ma è con “I Campioni”, il gruppo che accompagnava Tony Dallara, che sono entrato realmente nel mondo della musica, grazie al loro leader, Roby Matano, il quale cercava un chitarrista in sostituzione di Bruno De Filippi che aveva abbandonato il gruppo. Però devo ringraziare anche Alberto Radius, uno dei tre della Formula Tre, il gruppo che mi accompagnerà in seguito nei concerti, che aveva rifiutato l’offerta di Matano. Mi trasferisco a Milano dove orbitano “I Campioni” e con loro faccio la conoscenza del jazz e della musica rock italiana.
Come è diventato autore e cantante in proprio?
Devo tutto a Matano, ancora una volta: fu lui ad invogliarmi nello scrivere canzoni e di intraprendere la strada da solista, dopo aver ascoltato Se rimani con me, che lo stesso Matano volle scriverne il testo.
Si ricorda i primi successi?
Certamente! Sono morto, mica rincretinito! Il primo è stato Per una lira, inciso dai “Ribelli”, poi fece seguito Uno in più che diedi a Ricky Maiocchi e infine Dolce di giorno per i Dik Dik. Ma il vero successo arrivò con 29 Settembre per “L’Equipe 84”, con testo di Mogol, che avevo da poco conosciuto.
Dopo il tour del 1970, ha deciso di non fare più concerti. Perché questa decisione?
Perché intendevo conservare la mia autonomia, la mia personalità per quanto possibile, e una delle cose che ti spersonalizzano al massimo sono le serate. Non faccio tournée né spettacoli perché mi sembra di vendermi, di espormi in vetrina: io voglio che il pubblico compri il disco per le qualità musicali e non per l’eventuale fascino del personaggio.
Si dice in giro che la decisione è stata presa per la sua timidezza poco adatta ad intrattenere le folle di un concerto. Qualche maligno azzarda pure che cantare dal vivo rende le sue performance alquanto scadenti, per via delle sue poche doti canore.
Il mondo è pieno di maligni. Gliela dico io la verità. Dal vivo mi sono reso conto che è impossibile riprodurre la perfezione dei suoni ricavati in sala d’incisione. E siccome mi piace la perfezione, ecco la motivazione. Il resto sono solo chiacchiere.
Molti suoi successi si devono soprattutto ai testi di Mogol. Come ha conosciuto Mogol?
Nel 1965. Durante un provino con il discografico Franco Crepax, vengo notato da Christine Leroux, una imprenditrice musicale di origine francese, talent-scout per la casa discografica Ricordi. Fu la prima a credere nel mio talento e mi procurò un appuntamento con Mogol. Ero contentissimo: avevo bisogno di uno che mi scrivesse i testi. Una scelta migliore non potevo auspicarmela: da quel giorno numerosi successi col binomio Battisti-Mogol si sono succeduti negli anni, occupando spesso il primo posto delle classifiche di dischi più venduti. Chissà se si ricorda!
Non dubiti: se lo ricorda. Come potrebbe dimenticarlo! Quest’anno il suo amico Mogol ha compiuto 80 anni. La RAI gli ha dedicato una serata dove il binomio Battisti-Mogol ci è sembrato che non si fosse mai concluso. C’è un fatto, però: le sue canzoni vengono riproposte sempre meno in televisione, per i veti che impone sua moglie. Probabilmente per stoppare la mercificazione delle sue canzoni?
Sono stato io stesso a dettarle come comportarsi. Mia moglie sta eseguendo solo le mie volontà. Non è che sia contrario del tutto alla commercializzazione delle mie canzoni, ma in modo stretto, sfruttando il mio nome il meno possibile. Mi ha riferito che volevano abbinare la mia musica alla pubblicità di una famosa casa automobilistica italiana, ad un’azienda produttrice di pasta alimentare e alla più vecchia banca che abbiamo in Italia, ed ha rifiutato. Ha fatto benissimo! Crede che avrei accettato se fossi stato in vita di sfruttare una mia canzone per avallare una banca o una casa automobilistica? Chi pensa questo non mi conosce affatto: la mia musica non deve essere calpestata per vili motivi di lucro.
Nelle sue canzoni lei ha rilanciato temi ormai in disuso, come i piccoli avvenimenti di vita quotidiana. Quanto ha contato il sodalizio artistico con Mogol?
Giudichi lei stesso: mi sono fatto costruire una villa accanto a quella di Mogol, a Dosso di Coroldo, nel comune di Molteno.
Nel 1972 lei inizia a rifiutare di posare per le riviste e rilasciare interviste sia per i giornali sia per la televisione, dichiarando di preferire l’olio di ricino alla televisione, attirandosi addosso l’ira della stampa che inizia ad accusarlo di aver scelto di non farsi più intervistare solo per attirare l’attenzione e farsi pubblicità: «Sogno» l’accusa di essere incoerente perché era appena apparso in televisione, partecipando alla trasmissione “Teatro 10”, condotta dalla sua amica Mina e da Alberto Lupo; «Oggi» pubblica un dibattito tra musicisti e critici sul tema «Battisti è davvero un fenomeno?» in cui Riz Ortolani lo accusa di «scopiazzare»; Augusto Martelli dichiara che lei è un dilettante spaventoso e un pallone gonfiato, mentre Aldo Buonocore dichiara che la sua voce è una lagna, uno strazio.
Tutta invidia, la stessa invidia (ma in questo caso rasentiamo quasi la diffamazione) che a partire dallo stesso anno, si iniziano a diffondere delle voci secondo le quali io sarei stato un fascista e, addirittura avrei finanziato organizzazioni di estrema destra. Non sono mai stato interessato alla politica. Facevo invidia perché i miei “colleghi” non sopportavano che un autodidatta come me (a suonare la chitarra me l’ha insegnato un elettricista del mio paese nativo, Silvio Di Carlo) arrivasse là dove sono arrivato.
D’accordo. Ma il suo collega Pierangelo Bertoli ha dichiarato che «negli anni settanta si sapeva che lei stava a destra» e che era vicino al MSI.
Pensi che alle scuole medie (avevo 13 anni), un professore mi mise quattro sul registro perché riteneva che fossi un fascista. Si può essere fascisti o di qualsiasi espressione politica a soli 13 anni? In seguito mi hanno affiancato alla destra perché nelle mie canzoni manca del tutto l’impegno sociale e la simpatia per il proletariato, in un periodo in cui tutti i cantautori scrivevano canzoni impegnate, mi sembrava superfluo. Da De André a De Gregori; da Venditti, tutti autori impegnati: io volevo fare altro. Sono andati ad analizzare le mie canzoni, interpretando alcune atmosfere, dicono, come riferimenti fascisti. Ne La canzone del sole «mare nero» e «fiamma»; ne La collina dei ciliegi «planando sopra boschi di braccia tese», paragonate al saluto romano; addirittura il titolo Il mio canto libero è fatto passare come una metafora dell’ideologia fascista. Semmai l’accusa deve essere rivolta a Giulio, è lui l’autore dei testi. Ma se interpella Giulio le dirà senza esitazioni che le braccia tese sulla copertina de Il mio canto libero rappresentavano un inno alla libertà. Ma in Italia chi parla di sentimenti o non s’impegna nel sociale, è possibile che venga etichettato come un fascista?
Comunque sia, a noi piace così com’è: le sue canzoni hanno fatto storia e allietate intere generazioni. Tutto il resto è noia, come diceva un suo collega.
Vorrei aggiungere solo che la musica non ha colore politico. E questo mi basta.