Ernesto Guevara de la Serna, detto il “Che”, medico di professione, è stato un rivoluzionario sud-americano (è nato nel 1928 a Rosario in Argentina) al servizio dei popoli oppressi (Bolivia, Guatemala, Messico, Cuba) da regimi autoritari o da governi incapaci che riducono il popolo quasi alla fame, in particolare le classi minori e il proletariato. Il suo nome è conosciuto a tutti (un po’ meno le sue azioni) al punto da diventare un’icona del comunismo mondiale, dottrina politica per cui sposò la pratica della guerriglia di cui sapeva tutto, teorizzando addirittura una sua struttura generale per altri popoli oppressi. Guevara, detto il “Che” (suo nome di battaglia), sin da piccolo è stato educato dal padre allo studio delle dottrine sociali progressiste e con questi insegnamenti partecipa a 14 anni a una dimostrazione politica contro il governo peronista.
L’azione che più si ricordi è senza dubbio il contributo che ha dato alla rivoluzione cubana per liberarsi della dittatura di Batista, al fianco dei fratelli Castro, Fidel e Raoul, con le sue strategie di guerriglia, in particolare nella battaglia decisiva di Santa Clara. Diventato cittadino cubano, viene nominato dal capo indiscusso della rivoluzione cubana Fidel Castro, dapprima direttore del Banco Nacional de Cuba (con questa carica stringe importanti rapporti commerciali con Cina, URSS e Corea del Nord) poi come ministro dell’Industria, diventando anche il più audace pioniere del rinnovamento socio-economico di Cuba. È morto assassinato a La Higuera in Bolivia nel 1967.
Comandante Che, vorrei iniziare questa intervista con una domanda che ci faccia comprendere l’essenza della guerriglia. La vittoria armata del popolo cubano sulla dittatura di Batista ha modificato vecchi dogmi sul comportamento delle masse popolari dell’America latina, a dimostrazione che un popolo oppresso può liberarsi da un governo tirannico. Perché con la guerriglia?
La rivoluzione cubana ci ha dimostrato che è l’unica via, l’unica riformatrice sociale: impugnare le armi per rispondere all’irata protesta del popolo contro l’oppressore e lottare per cambiare il regime sociale colpevole di tenere i suoi fratelli inermi nell’obbrobrio e nella miseria.
Oggi è possibile che un popolo si armi contro un governo tirannico?
Dove un governo è salito al potere attraverso qualche forma di consultazione popolare, fraudolenta o no, e mantiene almeno un’apparenza di legalità costituzionale, è impossibile che sbocci l’impulso della lotta armata, dato che non si sono esaurite tutte le possibilità di lotta politica. Comunque, la vera rivoluzione deve cominciare dentro di noi.
Quali caratteristiche deve avere un buon guerrigliero? I suoi, quali caratteristiche avevano?
Il guerrigliero deve conoscere alla perfezione i terreni che batte, i luoghi di accesso e di fuga, le possibilità di rapida manovra e deve avere l’appoggio del popolo. Senza l’appoggio del popolo qualsiasi rivoluzione è destinata a soccombere. I miei guerriglieri interpretavano l’aspirazione della grande massa contadina di essere padrona dei mezzi di produzione, degli animali, di tutto ciò a cui si è dedicata per anni, delle cose che costituiscono insomma la sua vita e tra le quali infine concluderà l’esistenza.
Questo ai tempi del latifondismo. Ma oggi?
Bisogna tenere presente che questo tipo di lotta è l’embrione di un vero conflitto. Per questo uno dei principi fondamentali è che non si deve in nessun modo impegnarsi in un qualunque combattimento se non si è sicuri di vincere. Oggi è quasi impossibile in quanto nei Paesi capitalisti c’è la furbizia di accontentare in qualche modo il popolo per camuffare i loro intrallazzi.
Nel suo manuale La guerra per bande, lei parla di sabotaggio come azione rivoluzionaria. Ma il sabotaggio non è terrorismo?
Il sabotaggio non ha niente a che vedere col terrorismo o l’attentato personale che sono fasi del tutto diverse e opinabili in quanto credo sinceramente che il terrorismo sia un’arma negativa, che non produca assolutamente gli effetti desiderati. Tra l’altro voi avete avuto l’esperienza negativa del Brigate Rosse. Il sabotaggio è stato un’arma di inestimabile valore per i popoli impegnati in una lotta partigiana. Basti ricordare la Resistenza durante la Seconda Guerra Mondiale per farsi un quadro, per cui era lecito anche effettuare un attentato personale, anche se soltanto in circostanze molto precise e particolari: la soppressione di una capo dell’oppressione.
Abbandoniamo il Guevara guerrigliero e parliamo un po’ del Guevara uomo. Quando non veste i panni del rivoluzionario, cosa pensa del capitalismo?
Libera volpe in libero pollaio. La storia del capitalismo è la storia della pirateria organizzata da pochi che si appropriano del lavoro di molti.
Quale valore ha per lei la libertà?
Non sono un liberatore. I liberatori non esistono. Sono solo i popoli che si liberano da sé. Se proprio dovessi definirla la libertà, direi che quando sarò morto nessuno mi piangerà, non rimarrò sottoterra perché sono vento di libertà. Ma nessuno è libero finché anche un solo uomo al mondo sarà in catene.
In questa società globalizzata è ancora ammissibile una lotta armata per difendere i propri diritti?
Credo di no. Però a tutti i poteri che cercano di frenarci, dobbiamo dimostrare, una volta di più, la capacità del popolo di costruire la propria storia. Vale la pena di lottare solo per le cose senza le quali non vale la pena di vivere. E se vale la pena rischiare, io mi gioco anche l’ultimo frammento di cuore. Chi lotta può perdere, chi non lotta ha già perso. Hasta la Victoria, siempre!
In conclusione: che consiglio darebbe ai giovani di oggi che non sanno ancora affrontare la vita?
Fare esattamente ciò che si pensa. L’importante è che non smettano di essere giovani.