Oggi ci è venuto a trovare il fantasma di Carmelo Bene, personaggio controverso del teatro italiano. Nasce a Campi Salentina, in provincia di Lecce nel 1937 e morto a Roma nel 2002. Nel 1957 si iscrive all’Accademia nazionale d’arte drammatica “Silvio D’Amico” e ne frequenta i corsi per un solo anno, ritenendoli inutili. Carattere ribelle, a Roma si ubriaca frequentemente e fuma molto. Spesso viene arrestato: «Bastava girare con la barba non rasa di un giorno» per essere fermato, interrogato o addirittura arrestato. Nel solo anno 1958 Carmelo Bene trascorse «trecentoventicinque notti nei vari commissariati di zona», come riportato nel libro scritto dallo stesso Bene con Giancarlo Dotto, Vita di Carmelo Bene (Bompiani, 2005), In teatro debutta a 22 anni con Caligola di Albert Camus.
Trasferitosi a Firenze, ha il primo impatto letterario leggendo l’Ulisse di James Joyce, una lettura che lo affascina talmente da sconvolgerne il modo di pensare. Si avvicina al mondo dell’avanguardia. Costituisce un “Teatro Laboratorio” a Trastevere, quartiere di Roma, in seguito chiuso per via di un “piscio” sulla platea attribuito al pittore Alberto Greco. È lo stesso Carmelo Bene a raccontarci l’accaduto: «La sera della prima successe un parapiglia infernale. Questo Greco, poco assuefatto al bere, si briaca di brutto […] cominciò a dare in escandescenze […] In ribalta si alza la veste, mette il lembo fra i denti e comincia a orinare nella bocca dell’ambasciatore d’Argentina, della consorte in visone e dell’addetto culturale. Nel frattempo, si faceva passare le torte destinate al dessert e le spappolava in faccia a quel diplomatico e signora […] Fui condannato in contumacia [… e poi] assolto per essere estraneo ai fatti». Sempre sopra le righe, Bene aveva una forza creativa straordinaria, apprezzata da numerosi suoi colleghi, poeti, scrittori e artisti fuori dagli schemi tradizionali, che lo porterà anche a pubblicare un paio di dozzine di libri, tra cui l’ultimo, Un dio assente, con U. Artioli (Edizioni Medusa, 2006).
L’arte sta attraversando un momento di smarrimento. Troppe dispersioni in questa cultura globalizzata, troppa visibilità strumentale. Come preservare l’arte dallo sciame di personalismi, dall’immagine di una torre di Babele?
Ci sono cose che devono restare inedite per le masse anche se editate. Pound o Kafka diffusi su Internet non diventano più accessibili, al contrario. Quando l’arte era ancora un fenomeno estetico, la sua destinazione era per i privati. Un Velazquez, solo un principe poteva ammirarlo. Da quando è per le plebi, l’arte è diventata decorativa, consolatoria. L’abuso d’informazione dilata l’ignoranza con l’illusione di azzerarla. Del resto anche il facile accesso alla carne ha degradato il sesso.
Che cos’è per lei l’arte?
È decorazione, è volontà di esprimersi. Ciò che nel linguaggio meglio si comprende non è la parola, bensì il tono, l’intensità, la modulazione, il ritmo con cui una serie di parole vengono pronunciate. Insomma la musica che sta dietro le parole, la passione dietro questa musica, la personalità dietro questa passione: quindi tutto quanto non può essere scritto. Per questo lo scrivere ha così poca importanza. Nasce così la vera interrogazione che non è della letteratura ma della filosofia del secolo: oltre Nietzsche e ben oltre Freud, e ovviamente ben oltre Marx, a confronto con Heidegger, dentro la coscienza dell’essere detti e del non poter più dire e dirsi ma tuttavia dicendo e dicendosi.
Stessa difficoltà incontrano i giornali, troppe notizie inutili: si ricerca il sensazionale, lo scoop come avvoltoi sui cadaveri. Cosa si sente di dire ad un siffatto giornalismo?
I giornalisti sono impermeabili a tutto. Arrivano sul cadavere caldo, sulla partita, a teatro, sul villaggio terremotato, e hanno già il pezzo incorporato. Il mondo frana sotto i loro piedi, s’inabissa davanti ai loro taccuini, e tutto quanto per loro è intercambiabile letame da tradurre in un preconfezionato compulsare di cavolate sulla tastiera. Cinici? No frigidi. Comunque, siamo nell’ambito della libertà di stampa, anche se spesso frigida: la libertà di stampa mi sta bene se è libertà dalla stampa.
Un tempo la poesia, che non si distacca dalla stessa sorte dell’arte e dell’informazione, era il motore della cultura: oggi è decadente e rinunciataria, rinchiusa in se stessa. Che cos’è per lei la poesia?
La poesia è distacco, lontananza, assenza, separatezza, malattia, delirio, suono, e soprattutto, urgenza, vita, sofferenza. È l’abisso che scinde orale e scritto. È ora di cominciare a capire, a prendere confidenza con le parole per non farci fottere dal linguaggio che vi trapassa e voi non ve ne accorgete. Si sputa su Einstein, si sputa sul miglior Freud, sull’aldilà dei principi di piacere; si impugna e si applaude l’ovvio: avete fatto una minchia di questo ovvio!
Ma come si fa a comprendere un poeta in questa società globalizzata e postmoderna?
Per capire un poeta, un artista, a meno che questo non sia soltanto un attore, ci vuole un altro poeta e ci vuole un altro artista. Io per esempio, di poesia mi occupo (e ? purtroppo o per fortuna ? si occupano di me) solo dei significanti, i significati li lascio ai significati.: «Voce mia tua chissà chiamare questo | Mia tua chissà la voce che chiamare | ventilato è suonar che ne discorre | in che pensar diciamo e siamo detti | vani smarriti soffi rauchi versi | prescritti da un voler che non si sa | disvoluto e alla mano intima incisi | segni qui divertiti disattesi | sensi descritti testi | d’altri che morti fiati | dimentichi ‘n mia tua chissà la voce || Noi non ci apparteniamo È il mal de’ fiori | Tutto sfiorisce in questo andar ch’è star | inavvenir | Nel sogno che non sai che ti sognare | tutto è passato senza incominciare | ‘me in quest’andar ch’è stato».
I giovani o vogliono tutto e subito o se ne fregano dei problemi. È pur vero che la società non li mette in condizioni di agire, anzi, contrariamente tende a renderli innocui con la velocizzazione del pensiero e il consumismo sfrenato. Come ne escono i giovani?
Disprezzo i giovani di questi ultimi trent’anni. Tutto il lager schiamazzante delle rivolte studentesche. Questa sciagurata età pericolosamente volitiva. Mummie foruncolose e imbellettate che, con la scusa di rivendicare e accattonare un mutamento, una riforma o altro, nidificano nell’autoconservazione.
Non le sembra di essere un po’ duro con i giovani?
Perché lei è in grado di confutare questo mio pensiero dimostrandomi che i giovani di oggi non hanno spina dorsale? Sempre rinchiusi in casa, davanti ad un computer, ad una playstation, ad un telefonino col quale (se ne avessero l’occasione) ci farebbero anche all’amore. Timidi, impacciati, insicuri, mammoni o, bulli, squilibrati in solitudine o in assemblee perditempo. Questa perpetua assemblea è il comfort della bestialità del branco. Di giovinazzi e giovinazze che, invece di sequestrare se stessi, “desiderando” (è l’etimo di “studio”) e progettando in tutto privato, s’illudono di “okkupare” una scuola pubblica allo scopo cretinissimo di conferirle “dignità” ed “efficacia” innovativa.
Giuseppe Prezzolini diceva che la «scuola è fatta per avere il diploma. E il diploma? Il diploma è fatto per avere il posto. E il posto? Il posto è fatto per guadagnare. E guadagnare? È fatto per mangiare. Non c’è che il mangiare che abbia fine a se stesso, sia cioè un ideale. Salvo in coloro, in cui ha per fine il bere». Secondo lei la scuola non sa più insegnare ai nostri figli?
Direi, più che non sappia insegnare, sia superficiale, ripetitiva, perfino didascalica a volte: manca di espressività, di ragionamenti, di memoria. Una volta le poesie si imparavano a memoria, oggi non sanno neanche un verso, non sanno chi è Emilio Villa, Edoardo Sanguineti, Edoardo Cacciatore, Adriano Spatola, Luciano Caruso, Stelio M. Martini, De Sade, Jean Genet, Samuel Beckett, perché nessuno si azzarda ad insegnare artisti d’avanguardia, di ricerca del nuovo. Ma siamo nella scuola e la scuola crea dei guasti; anzi è fatta solo di buchi neri, di guasti. Ovviamente quella odierna.
Cosa pensa della politica, dell’Italia di oggi?
Non mi vergogno di essere nell’equivoco italiota, non mi interessano gli italiani. Qualunque governo come qualunque arte ? o tutta l’arte borghese – tutta l’arte è rappresentazione di Stato, è statale. È uno stato che si assiste fin troppo, se no alla mediocrità chi ci pensa? La mediocrità, par excellence, è proprio lo Stato. Lo Stato dovrebbe smetterla di governare, ecco. Si può dare uno Stato senza governo, mi spiego? Non deve amministrare, deve lasciarlo fare a dei privati. Detesto la nazionale azzurra, però lo dico. Non me ne fotte nulla del Rwanda, però lo dico. Voi no, non ve ne fotte, ma non lo dite! Non sono eroico; me ne infischio di me stesso, del governo, della politica, del teatro.
E la democrazia? Dove la mettiamo?
Dove vuole che la mettiamo? Nel cesso la mettiamo, dove l’hanno messa i nostri politici! In democrazia il popolo è bastonato su mandato del popolo. È la pratica certosina dell’autoinganno.
Un carattere non facile il suo, anche se condividiamo molto del suo pensiero. Immaginiamo che con lei le donne abbiano avuto un pessimo rapporto. Delle donne, cosa ci dice delle donne?
Il culto della donna gravida, della puerpera e della mamma, è la più manicomiale abiezione della razza umanoide. Questa efferata “matrice” preferirei ammetterla come madre di Dio, purché fosse disposta a dimettersi come matrice dell’uomo.
Ancora duro col mondo!
Cosa pensa della morte?
La morte, in generale, non mi ha mai fatto piangere. È così incipiente. È un incipit. Uno come me ignorato in vita non ha paura della morte. Io sono già dimenticato, meglio ancora ignorato, in vita. Mi hanno promesso a Otranto i funerali da vivo. Non c’è bisogno di consegnare un cadavere in pubblico per meritare la dimenticanza.
Abbiamo parlato di molte cose ma non di teatro, la sua arte. È d’accordo sul pensiero di Eduardo De Filippo che nel «teatro si vive sul serio quello che gli altri recitano male nella vita»? Quando si è avvicinato al teatro?
Non ero (e non sono) ancora mai stato a teatro. Per me il teatro era solo quello d’opera, il “Margherita” a Bari, l’Arena a Verona, a Roma “Caracalla”, il “Politeama” di Lecce. Mi ci portavano i genitori, appassionati di lirica, quando andavamo in villeggiatura. Il teatro era cantato. Lo vedevo e soprattutto lo ascoltavo in radio. Ignoravo il teatro di prosa. E non ho mai più smesso di ignorarlo. Troppa attenzione: con Eduardo e Dario Fo Stato, alla mediocrità (ero pressoché ventenne) abbiamo cominciato una battaglia invocando la chiusura del Ministero del Turismo e dello Spettacolo, l’abbiamo rimproverato di non trascurarci abbastanza. Oblio dello Stato, oblio di me. L’artista, soprattutto il genio, vuole essere trascurato. Fa di tutto per trascurar se stesso! Già è sfuggito alle apprensioni di sua madre (che non l’ha lasciato suicidare in una pozzanghera, che l’ha sempre trattenuto e fermato), alla fine viene un ministro – proprio poliziotto – che ti si attacca e non smette più. Dico che la mediocrità dei ministri deve campare, deve sopravvivere anche quella (se no, a quella mediocrità dello Stato, alla mediocrità di Stato, “chi ci pensa?”). Lo Stato si occupa della mediocrità della democrazia (cioè a 65 milioni di Italiani), 65 milioni di Italiani (da imbecilli, cioè Italiani) votano questo Stato, che è il loro stato di cose, quello che è stato è Stato e quindi non è stato mai. E i fatti non sono se non nella stampa (nelle sue falsificazioni e omissioni) o come dice Derrida, la «stampa informa i fatti non sui fatti».
La sua arte teatrale è ritenuta “teatro dell’osceno”, “teatro pornografico”, “teatro dell’incomprensibile. Che cos’è il teatro pornografico?
Con teatro pornografico intendo una mescolanza e unione tra enti, in una dissoluzione dell’io e passaggio alla dimensione di “oggettità carnale” tra gli attori in scena. A differenza dell’erotismo, che si regge sempre sul dualismo soggetto-oggetto, in un avvicinamento impossibile (qui Bene sembra riecheggiare la teoria lacaniana sull’impossibilità del rapporto sessuale tra uomo e donna, tanta è la distanza tra l’appagamento del desiderio e la nostra costitutiva “mancanza a essere”), sempre destinato allo scacco dell’identità tra i due poli che si mantengono in posizione antitetica e inconciliabile, il porno garantisce l’unione tra oggetto e oggetto. Risultato: dissoluzione della soggettività e oblio dell’identità nella differenza. Il porno si instaura dopo la morte del desiderio ? morte sacrificale dell’eros ? l’aldilà del desiderio. Quando tu fai qualcosa al di là della voglia, la voglia della voglia, questo è il porno. È una svogliatezza, è quanto non è, è quanto ha superato se stesso, è quanto non ha voglia. L’osceno vuol dire fuori dalla scena, cioè visibilmente invisibile di sé. L’erotismo, invece, è quanto di romanticamente stupido ci possa essere. Appartiene all’io, il plagio reciproco nella irreciprocità assoluta. Il porno invece non è più il soggetto in quanto oggetto squalificato ma è starsi da oggetto a oggetto, non da soggetto a soggetto.
Quanto crede di aver ricevuto dal teatro?
Non ho mai cercato il consenso, e quindi non lo so. Non sono nato per divertire il pubblico con spettacoli teatrali consolatori: ho sempre rifuggito la vana ricerca di un perché alla vita. Credo che la mia opera sarà tra le poche che resteranno nella storia del teatro mondiale, la summa del massacro dei classici per un approccio oltre il testo stesso che si riflette sulla storia contemporanea.
Per concludere, ci spieghi in poche parole il suo teatro.
Amo il monologo, anche per le parti dialogate, la perdita del senso del dialogo o del discorso, il senso della direzione. Nelle mie performance ha un ruolo importante l’urlo lanciato con veemenza ma non spaventare bensì per auto-spaventarmi, come una eco che rimbomba per ritornare al mittente svuotato di significato. Una perdita del senso di identità come nel Riccardo III quando sputo allo specchio dove mi sto mirando, pensando o facendo credere di essere sputato. È la causa ed effetto, perdita dell’identità del ruolo, non sempre corrispondente al copione. È inutile cercare il senso, il significato, un messaggio, poiché si è sempre in balia dei significanti. Ciò anche quando scrivo versi.