Antonia Pozzi, donna fascinosa, elegante, ironica, una delle voci più intense e toccanti della poesia femminile del Novecento, nasce a Milano nel 1912 dove si consuma la sua giovane esistenza in seguito al suicidio nel 1938. Figlia di genitori benestanti e nobili (la mamma Lina è una contessa), si accosta alla poesia fin dall’adolescenza. Le prime sofferenze interiori, che ne mineranno la psiche, si materializzano durante gli anni del liceo, quando s’innamora del suo professore di latino e greco, un amore fortemente osteggiato dalla famiglia, come lo scrivere poesie che la Pozzi annota in segreto su fogli di quaderni a righe larghe.
«La giovanissima allieva non fatica a scoprire dietro l’ardore e la serietà, nonché la severità del docente, molte affinità: l’amore per il sapere, per l’arte, per la cultura, per la poesia, per il bello, per il bene, è il suo stesso ideale; inoltre il professore, ha qualcosa negli occhi che parla di dolore profondo, anche se cerca di nasconderlo, e Antonia ha un animo troppo sensibile per non coglierlo: il fascino diventa ben presto amore e sarà un amore tanto intenso quanto tragico» (Antonia Pozzi. Nelle immagini l’anima: antologia fotografica, a cura di Ludovica Pellegatta e Onorina Dino, Ancora, 2007).
Parlava d’amore Antonia Pozzi, anche attraverso eccellenti fotografie di paesaggi, a quell’amore irraggiungibile che diventa ben presto dolore, sofferenza, crisi esistenziale che riesce a tramutare in poesia con l’aiuto nella stesura editoriale del fraterno amico Vittorio Sereni: «Io vorrei per te dare la mia vita: e tu lo sai. Ma la mia vita è vuota, priva di Dio, ignara di silenzio. La mia vita non può esserti nulla: ed il tuo pianto è solo». Un quadro della personalità di Antonia Pozzi ce l’ha rilasciato Maria Corti, l’italianista che la conobbe all’università durante le lezioni di estetica di Antonio Banfi: «il suo spirito faceva pensare a quelle piante di montagna che possono espandersi solo ai margini dei crepacci, sull’orlo degli abissi. Era un’ipersensibile, dalla dolce angoscia creativa, ma insieme una donna dal carattere forte e con una bella intelligenza filosofica; fu forse preda innocente di una paranoica censura paterna su vita e poesie. Senza dubbio fu in crisi con il chiuso ambiente religioso familiare. La terra lombarda amatissima, la natura di piante e fiumi la consolava certo più dei suoi simili».
Ci ha lasciato pochi testi, tutti pubblicati postumi, ma significativi e pieni di speranza, nonostante l’esito tragico della sua breve esistenza di una vita irrimediabile: Parole (Mondadori, 1939; Garzanti, 2014); Poesie pasturesi (Arte Grafica Valsecchi, s.d., ma 1954); La vita sognata ed altre poesie inedite, a cura di Alessandra Cenni e Onorina Dino (Scheiwiller, 1986); Tutte le poesie, a cura di Alessandra Cenni (Garzanti, 2012); Ti scrivo dal mio vecchio tavolo. Lettere 1919-1938, a cura di Graziella Bernabò e Onorina Dino (Ed. Ancora, 2015); Parole. Tutte le poesie, a cura di Graziella Bernabò e Onorina Dino (Ed. Ancora, 2015).
Sciogliamo il ghiaccio con una domanda diretta e cruda: come si arriva a suicidarsi a soli 26 anni?
Le rispondo come risposi alla mia amica Elvira Gandini qualche mese prima della mia decisione di farla finita con la vita. Prima si sbaglia, ci si perde, ci si arrampica per astratte impalcature intellettuali, finché la vita un bel giorno comincia, coi suoi gesti leggeri e sapienti, a richiamarci a lei: è come aprire gli occhi ad un tratto e ritrovarsi su una striscia di prato al sole, vicino alle pietre e alle piante. Il senso della vita non è più sparso, nel cervello, nelle mani, negli occhi, ma è tutto raccolto nel centro del petto, come un enorme fiore o come una corazza: e il domani non è più che portare sempre più in avanti quel fiore, sereni, eretti, per una grande strada bianca.
Quanto ha inciso la relazione osteggiata dalla sua famiglia con il suo professore di latino e greco Antonio Maria Cervi ai tempi del liceo a creare crepe psicologiche e di sofferenza nella sua esistenza?
Tantissimo, che nemmeno la poesia era riuscita a controllare la vulnerabilità di un turbamento di disagio per una vita ormai minata da uno stato d’animo che aveva perso i suoi punti forti di riferimento, tanto quanto la situazione politica e sociale in cui fu costretta a vivere una donna prigioniera dei pregiudizi altrui. Neanche l’amore per la natura che fino ad ora è stato il rifugio della mia anima poté salvarmi dall’oblio della depressione e della fine, neanche i miei amici, la mia famiglia.
Perché non ha provato rifugio in qualcos’altro che le desse la forza di andare avanti?
Ho tentato di trovare riparo nel Signore, nella preghiera, ma evidentemente senza riuscirci anche se ho scritto una poesia che s’intitola proprio Preghiera: «Signore, tu lo senti / ch’io non ho voce più / per ridire / il tuo canto segreto. / Signore, tu lo vedi / ch’io non ho occhi più / per i tuoi cieli, per le nuvole tue / consolatrici. // Signore, per tutto il mio pianto, / ridammi una stilla di Te / ch’io riviva. // Perché tu sai, Signore, /che in un tempo lontano / anch’io tenni nel cuore / tutto un lago, un grande lago, / specchio di Te. / Ma tutta l’acqua mi fu bevuta, / o Dio, / ed ora dentro il cuore / ho una caverna vuota / cieca di Te. // Signore, per tutto il mio pianto, / ridammi una stilla di Te, / ch’io riviva».
La sua poesia parte dal crepuscolarismo di Sergio Corazzini (penso ai suoi versi “Lascia ch’io sola pianga, se qualcuno / suona, in un canto, qualche nenia triste”), per poi approdare all’ermetismo. Quanto ha contato questo, diciamo, “approdo” la sua amicizia con Vittorio Sereni, uno dei giovani esponenti di quella corrente letteraria?
Direi di fondamentale importanza. In entrambi c’è una voce profonda che si misura con la sostanza delle cose, una passione che diventa quasi magica quando scrivo poesie, anche se il mondo in cui si realizzano sta crollando. Sono gli anni del nazismo, di Hitler, dei sogni svaniti, delle certezze sopite, non lo dimentichiamo, anche se non manca, in questi casi di tragedie umane, la speranza di poterne uscire un giorno. Ma a volte si riesce ad esprimere il disagio con la nostalgia della morte, perché, forse, in quest’epoca l’età delle parole è finita per sempre.
La sua estrema vulnerabilità sul piano affettivo e sentimentale era nota ai suoi amici?
Ai più stretti, ma per una donna innamorata che non trova pace in se stessa pur esprimendo con le parole l’autenticità dell’esistenza, gli amici possono poco. Il ripiego, almeno per me, è stato il riversare i turbamenti della vita nella poesia.
La natura ha rappresentato per lei un vero e proprio rifugio interiore che troviamo nelle sue poesie. Basta l’amore per la natura a distoglierci dal pensiero della negazione?
Certo che non basta, ma senza la poesia tutto diventa palesemente inutile. È pur vero che la poesia ti pone di fronte a delle domande che non fanno altro che alimentare la disperazione. E allora t’immagini una vita parallela, ma non per sfuggire alle proprie responsabilità di essere umano nei confronti della vita e dei tuoi simili, bensì per rinfocolare proprio questo legame con la vita. Nel mio caso, però, è stato inutile, il male di vivere ha sopraffatto la voglia di vivere. Rivedendo la mia breve esistenza, certe sere vorrei salire / sui campanili della pianura, / veder le grandi nuvole rosa / lente sull’orizzonte / come montagne intessute / di raggi. // Vorrei capire dal cenno dei pioppi / dove passa il fiume / e quale aria trascina; / saper dire dove nascerà il sole / domani / e quale via percorrerà, segnata / sul riso già imbiondito, / sui grani.
Allora si può uscire dalla disperazione con la poesia?
Sì. Perché la poesia ha questo compito sublime: di prendere tutto il dolore che ci spumeggia e ci rimbalza nell’anima e di placarlo, di trasfigurarlo nella suprema calma dell’arte, così come sfociano i fiumi nella celeste vastità del mare.
Terminiamo questa intervista con una sua poesia, La vita, scritta il 18 agosto 1935:
Alle soglie d’autunno
in un tramonto
muto
scopri l’onda del tempo
e la tua resa
segreta
come di ramo in ramo
leggero
un cadere d’uccelli
cui le ali non reggono più