Oggi ci è venuto a trovare il fantasma del poeta André Breton, il padre del surrealismo, fondatore e teorico di questo movimento d’avanguardia. Breton nasce a Tinchebray, in Francia, nel 1896, figlio unico di Louis Breton e Marguerite Le Gouguès, e muore a Parigi nel 1966). Nel 1907 si iscrive al College Chaptal di Parigi come esterno. Nasce in questi anni il suo amore per la poesia. Crea un paio di poesie che sulla rivista della scuola «Vers l’idéal», firmandosi con lo pseudonimo anagrammato René Dobrant. Inizia la sua scoperta di poeti come Mallarmé, Baudelaire, e al contempo si appassiona alle arti figurative, attratto dall’arte primitiva. L’anarchismo inizia a far breccia nella sua idea politica. Il debutto “ufficiale” come poeta avviene nel marzo 1914 con la pubblicazione di alcuni testi poetici sul n. 93 della rivista neosimbolista «La Phalange». Conosce Paul Valéry al quale chiede un giudizio critico sulle sue poesie e scopre Alfred Jarry. Stringe amicizia con Apollinaire, al quale chiede un giudizio sulla pièce Décembre scritta nel 1915. L’anno dopo compone un poema in prosa, Âge, invece, durante il servizio militare come infermiere (Breton frequenta la facoltà di Medicina). Nel 1917, tornato a Parigi, conosce Pierre Reverdy, Philippe Soupault e Louis Aragon. Grazie a quest’ultimo, nasce in lui la convinzione di rompere con la metrica classica. Nel 1919 ha contatti con Tristan Tzara e fonda con Aragon e Soupault la rivista «Littérature», alla quale, tra gli altri, collabora anche Tzara. La rivista dedicherà il n. 13 al dadaismo di Tzara, che apre le porte a Breton e ai suoi sodali. Grazie alla rivista entra in contatto con Paul Éluard e diventa amico di Francis Picabia. Lascia gli studi di medicina e inizia a lavorare al servizio abbonamenti della “Nouvelle Revue Française”, per Gaston Gallimard, mentre pubblica, presso Au Sans Pareil, Champs magnétiques (con Soupault, primo esperimento di “scrittura automatica”). A luglio, però, già stanco del dadaismo che considera monotono e inconcludente, abbandona il lavoro presso Gallimard e il dadaismo. Nel 1924, dopo la rottura con il dadaismo, esce il primo manifesto del surrealismo di Aragon, Breton, Crevel, Desnos, Éluard, Naville, Péret, Soupault, Vitrac ed altri, e nasce la rivista «La Révolution Surréaliste» cui collaborano, Antonin Artaud, Michel Leiris, Joan Miró, René Magritte, Raymond Queneau.
Andiamo subito al sodo. Che cos’è, in pratica, una poesia surrealista? Di cosa si tratta, di un’astrazione a priori di un linguaggio inconscio o c’è dell’altro?
Di cosa si tratta? Niente meno che di ritrovare il segreto di un linguaggio i cui elementi cessano di comportarsi come relitti alla superficie di un mare morto. La pratica poetica si pone come il tentativo moderno di sopravanzare l’ambito della rappresentazione, e di restituire, attraverso proclami, sommosse, dichiarazioni d’amore, ciò che gli oggetti stessi della poesia tendono chiaramente a disarticolare in parvenze di vita. Si può essere sordi nei suoi confronti, ciechi verso noi stessi, stupidi nel bel mezzo della vita, le conseguenze sono tutte ancora da trarre. Ma ciò che in tanti negano e che noi vogliamo, si fa centro e slancio vitale della molta incoscienza che abbiamo (e sempre avremo) nell’essere più di tutto noi stessi.
Lo stato di lacerazione sociale in cui viviamo rende difficile di incontrare una letteratura e un’arte di qualità. L’adempimento di una sensibilità e di una ricerca, al di là della propria autobiografia, sono venuti meno nella maggior parte dei letterati e degli artisti. Come se ne esce?
Se si vuole evitare che nella società la vita privata prenda il sopravvento, con più coscienza sociale.
Ma questo è Marx?
Embé, le fa schifo Marx?
No, per carità! Come deve essere una poesia?
Una poesia deve essere una disfatta dell’intelletto. Non può essere altro. Disfatta: cioè si salvi chi può, ma solenne, probante: immagine di ciò che dovremmo essere, di quello stato in cui gli sforzi non contano più. L’esistenza della poesia non è mai certa; del che dobbiamo dolerci. Per tale motivo, noi non somigliamo ancora pienamente alle sue pretese.
Se la poesia è la liberazione dell’uomo, perché in questa società odierna sembra destinata a soccombere?
La maggior parte degli umani ha della poesia un’idea così vaga e sconsiderata, che l’indeterminatezza stessa di quell’idea presso molti dei cosiddetti poeti ha racchiuso finora ogni proposito di poesia. Stia tranquillo, amico mio: la poesia non morirà mai, magari continuerà a fare la fine dei cristiani ai tempi dei Romani, rifugiandosi nelle catacombe, ma non morirà. Chi morirà della loro bella morte saranno le poesiole e i poetucoli che, grazie all’uso dei social network hanno abolito il contraddittorio, la forza dirompente, in quanto la critica è stata sostituita da un quasi sistematico “mi piace”.
Allora non c’è giustizia a questo mondo!
E perché ti meravigli? La giustizia, anche quella editoriale, è amministrata da tre quarti di bue. Una volta per tutte la poesia deve risorgere dalle rovine, negli ornamenti e nella gloria di Esclarmonde, cambiare la vita, come disse Rimbaud, trasformare il mondo, secondo Marx. La poesia salverà il mondo!
Ma chi è ?sta Esclarmonde?
Esclarmonde de Foix, Una donna eretica càtara, della famiglia dei Foix della nobiltà francese.
E cosa c’entra con la poesia?
A parte che era una donna colta, ospitava principi e trovatori, tutti càtari, abilmente con le parole, che la donna sfruttava in tutte le possibilità semantiche, per mandare messaggi cifrati.
La manifestazione del merveilleux, o la costruzione di una città-testo che alteri il segno del soggetto della quête, dopo la crisi del sistema hegeliano? Oggi è possibile costruire una città-testo che si polarizzi attorno al meraviglioso amour-passion per qualcosa?
Il meraviglioso non è lo stesso in tutte le epoche; esso partecipa oscuramente a una sorta di rivelazione generale di cui pervengono solo alcuni elementi: le rovine romantiche, il manichino moderno o qualunque altra cosa atta a turbare la sensibilità umana per un certo periodo. In queste cornici che ci fanno sorridere, si dipinge tuttavia l’irrimediabile inquietudine umana, ed è per questo che la prendo in considerazione, che le giudico inseparabili da alcune produzioni geniali che più delle altre ne sono dolorosamente attinte. Sono le forche di Villon, le greche di Racine, i divani di Baudelaire. Il meraviglioso è sempre bello, qualsiasi meraviglioso è bello, anzi non c’è nient’altro di bello che il meraviglioso.
Dunque, una ricerca dell’abîme, dell’abisso dell’anima, almeno agli inizi del suo movimento. Ed è stata questa posizione, diciamo, con filiazione a una vena romantica o alla figura dell’ignoto che l’ha condotta a litigare con Tzara e il movimento Dada? Eppure nel “Manifesto” surrealista, si evince una forte opposizione alla forma romantica della poesia, come nel programma di Tzara, che lei chiama “il promotore di un cosiddetto movimento di Zurigo”. Qual è la differenza?
Trasformare il mondo, ha detto Marx, cambiare la vita, ha detto Rimbaud, come ho già detto prima. Queste due parole d’ordine sono per noi una sola. Quasi un testamento, ma come tutti i testamenti presuppone un’imperdonabile concessione, la presenza dell’io. Dada, invece, propone il rifiuto della ragione e della logica, enfatizzando la stravaganza. Provare disgusto nei confronti delle usanze del passato non è sbagliato, ma non tutto il passato, secondo noi, è da buttare.
Tzara la ritiene responsabile della fine del dadaismo, accusato di essersi appropriato della teoria dadaista, rinominandola surrealismo.
Tutto falso. Il surrealismo nasce prima che Tzara arrivasse a Parigi. Se il dadaismo rivendica una qualche autorialità sulla teoria del surrealismo, questa può limitarsi al modo di organizzare un movimento, une révolution surréaliste, che abbiamo imparato da Tzara e dai dadaisti.
Dessaignet l’ha definita «Falso fratello e falso comunista, falso rivoluzionario ma vero commediante». Come si difende da queste accuse?
Semplicemente rispondendo, e con questo rispondo anche a Tzara e al suo modo incontrollato di fare poesia, che la poesia si fa in un letto come l’amore, le sue lenzuola sfatte sono l’aurora della cose. La poesia si fa nei boschi, ha lo spazio che le occorre, ha tutto il tempo davanti a sé: l’amplesso poetico come l’amplesso carnale, sinché dura vieta le prospettive di miseria del mondo.
Così è complicata!
Le complicazioni del linguaggio spesso fanno tutt’uno con la variazione infinita delle forme, mantenendosi su posizioni di retroguardia che fondano da un bel pezzo ciò che si chiamava avanguardia e di cui non resta nient’altro che tante belle alienazioni materializzatesi nei musei. Con ciò, intendiamo dire che s’inventerebbero ben altri moti, e di formidabili, a lasciar perdere gli effetti formali della materia.
Crede all’esistenza di una letteratura proletaria?
Non credo alla possibilità di una letteratura proletaria.
Detto da un comunista mi sembra quasi un bestemmia!
Credo, invece, nel progresso, che una società che si sarà sbarazzata dall’ossessiva preoccupazione del pane quotidiano, in cui le lavanderie comunali laveranno bene la buona biancheria di tutti, in cui i bambini – tutti i bambini – ben nutriti, sani, allegri assorbiranno gli elementi dell’arte e della scienza come l’aria e la luce del sole, in cui non ci saranno più “bocche inutili”, in cui l’egoismo liberato dell’uomo tenderà soltanto alla conoscenza, alla trasformazione e al miglioramento dell’universo, in quella società il dinamismo della cultura non sarà paragonabile a nulla di ciò che abbiamo conosciuto in passato.
Se avesse davanti Tzara, cosa le direbbe?
Mi piace il suo atteggiamento intellettuale che non ha mai cessato di essere inequivocabile, credo che sarebbe dar prova di ristrettezza mentale non dargliene pubblicamente atto. Credo all’efficacia della poesia di Tzara, e anzi posso dire che la considero, all’infuori del surrealismo, come la sola che sia veramente “situata”. L’ operazione nel campo più vasto me lo rende anche simpatico; questa efficacia plurima costituisce un passo in avanti compiuto oggi nel senso della liberazione umana.
Cosa pensa del lirismo poetico?
Il lirismo è merda. Il lirismo è quel genere di malattia che intristisce la voce – la voce che sconcerta, che grida, che si scalmana; o che accarezza e si profonde in silenzi pieni di carne – per la quale i fonemi sono segnali di fumo in un mondo che, già da tempo, ha obliato il suo fuoco.Occorre che ci si rifiuti di concedere efficacia a quei poeti che si rifanno meschinamente ad una causa prima. Ogni ara, ogni risciacquo dialettico, ogni poetica confusionista: vanno concretamente annientati.
La poesia può spiegare alla società il senso vero della vita?
La poesia non spiega niente: ripiegata su se stessa, marca con un falso temperamento la corteccia della vita. Non c’è nulla dietro la voce dei letterati: campo minato su cui saltano gli imbecilli; stato di catatonia dell’idea; spaccio al dettaglio della bestia trionfante. Verrà però il giorno (o la notte) in cui si riuscirà a leggere negli occhi senza compitare, e a scrivere finalmente sull’acqua senza sensi di colpa.
Perché ha abbandonato il gruppo Dada?
Dada non è mai stato considerato da noi se non come l’immagine sommaria di una condizione di spirito che non ha affatto contribuito a creare. Io e i miei amici Soupault ed Èluard siamo arrivati a respingere questa etichetta e a prendere coscienza dell’abuso che subiscono, forse quel principio iniziale verrà salvato. Quel tipo di attività non mi sollecitava più, ci vedevo un modo per arrivare senza colpo ferire ai ventisei, ai trent’anni. Dopo tutto, quello che è stato in gioco per noi non è stato soltanto la spensieratezza e il buon umore del momento. Quanto a me, distrarmi non è mai cosa a cui aspiro.
È sbagliato dire che la scrittura automatica viene liberata con tecniche opportune seguendo una precisa immagine poetica ad après coup, a posteriore, quale possa essere il presupposto di una ricerca meccanica delle parole che affranchi dall’assoluto di una immagine, un valore di immagini metaforiche, primordiali, uno scarto di parole ma non una deformazione di parole?
Il valore dell’immagine dipende dalla bellezza della scintilla ottenuta, essa è perciò funzione della differenza di potenziale tra i due conduttori. Quando questa differenza esiste appena, come nel paragone, la scintilla non si produce.
Cosa succede se non si produce la scintilla?
Che la metafora diventa teoria e la teoria poesia, cioè una catacrèsi. Il pericolo sarebbe la forma di manifestazione della necessità esteriore che trova la sua strada verso l’inconscio umano. La maggior parte degli umani ha della poesia un’idea così vaga e sconsiderata, che l’indeterminatezza stessa di quell’idea presso molti dei cosiddetti poeti ha racchiuso finora ogni proposito di poesia.Il corpo che insorge non è definibile altrimenti. È della stessa natura di ciò che muore quando lo si costringe sui banchi del mercato.
Viene a cadere anche il funzionamento di una parola analitica, tanto cara ai surrealisti, il funzionamento dei significanti e del piacere del testo? Neanche il surrealismo, dobbiamo ammetterlo, è riuscito a restituire al linguaggio la sua vera natura. È un fallimento o un processo naturale o un processo naturale di conservazione della tradizione?
Non si è insistito abbastanza sul senso e la portata dell’operazione che tendeva a restituire il linguaggio alla sua vera vita, ossia piuttosto che a risalire dalla cosa significata al segno che le sopravvive, il che oltretutto si rivelerebbe impossibile, a riportarsi d’un balzo alla nascita del significante. Lo spirito che rende possibile, e perfino concepibile, una tale operazione non è altro che quello che ha da sempre animato la filosofia occulta e secondo il quale, dato che l’enunciazione è all’origine di tutto, bisogna di conseguenza che il nome germini, per così dire, altrimenti è falso.
Che cos’è l’amore per lei?
L’amore è quando incontri qualcuno che ti dà delle notizie su di te. Cerco a più riprese di allontanarlo, ma invano, il misterioso, l’improbabile, l’unico, lo sconvolgente indubitabile amore.
E il suo rapporto con le donne?
È arrivato il tempo di far valere le idee delle donne a scapito di quelle degli uomini, il cui fallimento si consuma oggi abbastanza tumultuosamente.
E con la morte?
Per quanto mi riguarda, chiedo di essere portato al cimitero in un furgone da sgombero. Non serve a niente essere vivi, se bisogna lavorare.
Ma una società che non si basi sul lavoro è destinata a scomparire. Ma qual è la più grande debolezza di questa nostra società che sembra già aver intravisto l’apocalisse?
La più grande debolezza del pensiero contemporaneo mi sembra risiedere nella sopravvalutazione esagerata del conosciuto rispetto a ciò che rimane da conoscere. Si presta più attenzione al super-io che al subconscio, senza comprendere che dare attenzione al subconscio significa stimolare la parte della nostra coscienza più sincera.