Oggi ci è venuto a trovare il fantasma del cantante Efstratios Demetriou, alias Demetrio Stratos. Senza preamboli, iniziamo col chiedergli la sua storia.
Ci racconta un po’ la sua storia?
Dovrei fare una descrizione quasi dettagliata, in quanto credo che siano in molti a non conoscermi. Sono nato nel 1945 ad Alessandria d’Egitto, da genitori greci, Janis e Athanassia Archondoyorghi. Ho vissuto ad Alessandria d’Egitto fino all’adolescenza. È nella mia città natale che ho iniziato ad avvicinarmi alla musica studiando fisarmonica e pianoforte al “Conservatoire National d’Athènes”. Nel 1958 dovetti lasciare l’Egitto in seguito agli scontri politici in Libano, scaturiti dall’uccisione di Nassit el Metui, editore dell’importante quotidiano di Beirut «Al Telegraf,», noto oppositore del presidente Chamoun, che coinvolsero anche il governo egiziano di Nasser. I miei genitori, giustamente preoccupati, mi mandarono a studiare al collegio di Terrasanta, a Nicosia, dove mi raggiunsero due anni dopo. Nel 1962 mi trasferisco in Italia per studiare architettura al Politecnico di Milano. Ma la musica non mi voleva abbandonare, sicché l’anno dopo metto su un gruppo di studenti. Ci esibivamo in locali da ballo di Milano, il “Santa Tecla”, l’“Intra’s” e altri. Da solo inizio a lavorare come tastierista in sale di registrazione. Finita l’esperienza “studentesca”, nel 1967 mi accettano nel gruppo “I Ribelli”, dopo l’abbandono dei fratelli Bichara, come tastierista e frontman, in quanto nel frattempo mi ero cimentato anche nel canto. Del periodo universitario mi è rimasto un bellissimo ricordo, la donna che poi ho sposato, Daniela Ronconi, mia compagna di università. Intanto nel 1970 termina anche l’esperienza con “I Ribelli”, ma non la fame di musica. Mi azzardo a formare un mio gruppo. Ma il capolavoro – mi si passi il termine – avviene con la fondazione degli “Area”, in collaborazione con Giulio Capiozzo Altra musica, altri musicisti (Eddie Busnello – sax; Patrick Djivas – basso; Leandro Gaetano – pianoforte; Johnny Lambizzi – chitarra), altri generi musicali, altra vocalità. Nel 1973 mi avvicino al mondo della poesia fonetica, sonora, alla performance, grazie a Gianni Sassi, menbro del movimento “Fluxus”. Ma l’iperbole, credo, l’abbia raggiunta con John Cage che mi dà la possibilità di diventare, diciamo così, internazionale. Lavoravo con Juan Hidalgo, Walter Marchetti e Gianni-Emilio Simonetti, poeti sonori e performer della body art. Ma anche in Italia incomincia a materializzarsi il “successo”. Che brutta parola! Comunque, passatemi un po’ di vanità, alla “Festa del Proletariato Giovanile” del 1974, nel Parco Lambro di Milano, presentai i Mesostics di Cage davanti a oltre 15.000 spettatori. Bello, no? Chi li aveva mai visti tanti spettatori! L’anno più creativo fu 1978: un concerto al “Museo d’Arte Moderna” di Parigi, all’interno della X Biennale internazionale dei giovani artisti “musiche di un’esposizione” di Daniel Caux, in rappresentanza della Grecia; una performance alla “Galleria Pre-Art” di Milano; una tournée con il mio gruppo in Portogallo; incido il mio ultimo album (1978), Gli dei se ne vanno, gli arrabbiati restano!; come solista continuai a lavorare con Gianni Sassi e realizzando nuovo disco, Cantare la voce; fui invitato alla “II Settimana Internazionale della Performance” di Bologna; ad Amsterdam, invece, partecipo ad una lunghissima e stremante performance “Sounday” di John Cage, interrottamente dalle 7.00 alle 17.00. In Olanda tengo anche un seminario con performance allo “Stedelijk Museum”; continua la collaborazione con il mio mentore John Cage: Il treno di John Cage – alla ricerca del silenzio perduto, a Bologna; al concerto di Cage presso il “Teatro Margherita” di Genova, insieme alla pianista Grete Sultan e al violinista Paul Zukofsky; alla “Settimana John Cage” all’Opéra Louis Jouvet di Parigi; con gli “Area” sono invitato a Cuba, dal Ministro della Cultura, per l’“XI Festival Mondiale della Gioventù”. Per l’antologia storico-critica della poesia sonora “Futura”, tra un’esplorazione della forza onomatopeica del canto delle cicale, uno scioglilingua e ricerche sulla voce; sono invitato, su indicazione di Cage, a tenere un corso sulle possibilità della voce umana, presso il “Centro di Musica Sperimentale dell’Università” di San Diego, in California. Poi, come spesso capita, nel pieno della carriera, nel 1979 divento fantasma. Questo è quanto. Scusatemi per la lungaggine. Sono quasi quarant’anni che attendevo di parlare.
A quale album si sente più legato?
Non saprei. Forse Metrodora, che è stato il mio primo disco da solista, risultato delle ricerche sulla mia voce. C’è poco testo in questo disco, per es. il titolo e un unico testo ispirato al codice medico-ginecologico di Metrodora, appunto, ostetrica dell’impero bizantino, vissuta nel VI secolo d.C. Ma i miei album sono come figli per me, e di conseguenza tutti uguali. Come per ogni artista, d’altronde.
Tra le novità della musica e del modo di cantare, da più parti etichettano il rap, ovvero l’hip-hop come rivoluzione dei nostri giorni. Fatta eccezioni per alcuni artisti statunitensi, in Italia mi sembra che la scelta verso questo genere è dovuta essenzialmente dal non saper cantare, da non avere una voce. Cosa ne pensa, lei che è stato un maestro della voce con cui faceva praticamente quello che voleva?
La voce è oggi nella musica un canale di trasmissione che non trasmette più nulla. L’ipertrofia vocale occidentale ha reso il cantante moderno pressoché insensibile ai diversi aspetti della vocalità, isolandolo nel recinto di determinate strutture linguistiche.
La sua è stata definita una voce che suona, tanto da incuriosire il compositore e teorico della musica sperimentale statunitense John Cage che la invitò a partecipare, al “Roundabout Theatre” di New York, al concerto “Event” di Merce Cunningham & Dance Company, sotto la direzione artistica di Jasper Johns, quella musicale di Cage, quella coreografa di Merce Cunningham e i costumi e le scene degli artisti visivi Jasper Johns, Robert Rauschenberg, Mark Lancaster e Andy Warhol. Come nasce questa sua straordinaria voce capace di emettere due, tre e quattro suoni contemporaneamente?
Le mie diplofonie, trifonie e quadrifonie (come lei dice, emissioni di due, tre, quattro suoni contemporaneamente) sono un dono di natura. Ma nascono anche dalle tecniche che ho acquisito e alle ricerche realizzate al centro fonetico del CNR di Padova, sotto la guida del prof. Franco Ferrero che ebbe a dire: «Stando a quanto ho riscontrato durante l’emissione, le corde vocali non vibravano. La frequenza era molto elevata (le corde vocali non riescono a superare la frequenza di 1000-1200 Hz). Nonostante ciò Demetrio otteneva non uno, ma due fischi disarmonici, uno che da 6000 Hz scendeva di frequenza, e l’altro che da 3000 Hz saliva. Non si poteva supporre, quindi, che un fischio fosse l’armonico superiore dell’altro. Constatai anche l’emissione di tre fischi simultanei. La strabiliante ricerca di Stratos porta molte suggestioni e piste di ricerca ancora da studiare. Vorrei limitarmi a due sottolineature particolarmente stimolanti ed innovative per il nostro tempo: la preminenza del significante rispetto al significato e il valore rituale della voce in ordine all’accesso alla scaturigine del corpo». Immagino che qualcuno non ci creda, ma basta leggere il volume di Antonio Oleari, Demetrio Stratos: gioia e rivoluzione di una voce, pubblicato con Aereostella nel 2009.
Vorrei citarle, come nostro piccolo omaggio alla sua infinita fonazione vocale, una poesia di Kostantinos Kavafis (Voci) per definire come ci appare la sua voce: Voci ideali e amate / di quelli che morirono, di quelli / che per noi sono persi come morti. // Talora esse ci parlano nei sogni, / e le sente talora tra i pensieri la mente. // Col loro suono, un attimo ritornano / suoni su dalla prima poesia della vita – / come musica, a notte, che lontanando muore. Come ha iniziato a cantare, con questa estensione di voce incredibile, inimitabile?
Nel 1963 avevo da poco formato un gruppo musicale studentesco che arriva poi ad esibirsi in locali simili alle vostre discoteche. Tutto avviene per caso, come quasi tutti i grandi cambiamenti delle nostre vite. Nel gruppo mi limitavo a suonare le tastiere, ma dovendo sostituire il nostro cantante, che aveva subito un incidente d’auto, iniziai a cantare spostando il nostro repertorio su ritmi e canzoni soul, blues e di r&b, il rhythm’n’blues. Dite così oggi, no?
Quando si accorse di avere doti eccezionali nel canto, ovvero suonare con la voce come nelle Flautofonie, Canto dei pastori, Mirologhi, veri slogan, unitamente, per es., a Gioia e rivoluzione, per affermare che una vita migliore, e una musica migliore, non sono utopie?
La conferma inconfutabile si materializzò quando entrai a far parte, come tastierista e cantante, del gruppo rock-beat “I Ribelli”. La mia interpretazione di Pugni chiusi divenne la canzone-simbolo di quegli anni.
Quando ha inizio la sua ricerca musicale e vocale che l’ha portato ad essere un esempio del Prog italiano?
Nel 1970, quando lascio “I Ribelli” per fondare un mio gruppo con musicisti inglesi. Tra essi c’era il batterista Jan Broad che poi farà parte dei “Deep Purple”. L’imput mi venne dall’osservazione della “fase di lallazione” di mia figlia Anastassia, nata proprio nel 1970.
Una vera forma di poesia, allora?
Mi accorsi che nei primi mesi di vita mia figlia giocava e sperimentava ricche sonorità con la propria voce, ritmi inappropriati ma variegati. Con l’andare avanti mi accorsi che quella ricchezza della sonorità vocale quasi neonatale andava perdendosi con l’acquisizione del linguaggio: mia figlia perse il suono per organizzare la parola. La tematica linguaggio-voce è stata sempre la mia poetica, che mi ha accompagnata lungo tutto l’intero mio percorso artistico.
La sua raffinata e avanguardistica sonorità vocale pensiamo le abbia provocato non poche frenate nel mondo della musica dove primeggiavano le melodie tradizionali di Morandi, Reitano, Ranieri, Villa, Paoli, Zanicchi, Dorelli, Remigi, Vanoni, Wess, Ghezzi, etc. Eppure c’è stato un momento in cui si è fatto ingolosire dalla musica commerciale. Come è avvenuto il suo passaggio dalla sperimentazione al commerciale?
Non direi passaggio, ma un momento della mia carriera. Era nel 1971 e decisi di incidere un singolo, Daddy’s Dream, per la Numero Uno, la neonata etichetta discografica di Lucio Battisti, Mogol e Sandro Colombini. Ma fu la prima e ultima volta. Da allora chiusi definitivamente con la musica commerciale.
Ma è con il gruppo “Area” che si fa conoscere ed apprezzare a livello internazionale. Quando nasce questo gruppo che ha fondato aprendo nuovi percorsi nella musica non solo italiana?
Nasce nel 1972. Facevano parte del gruppo Giulio Capiozzo (batteria e co-fondatore), Patrick Djivas (basso), Johnny Lambizzi (chitarra), Leandro Gaetano (pianoforte), Eddie Busnello (sax), almeno nei primi tempi. L’anno dopo la formazione cambiò quasi radicalmente: del precedente gruppo faceva parte solo Capiozzo, al quale si aggiunsero Giampaolo Tofani (chitarra e sintetizzatore VCS 3), Patrizio Fariselli (pianoforte e tastiere), Ares Tavolazzi (basso e trombone). Partecipammo, in rappresentanza dell’Italia, alla VIII Biennale di Parigi – Sezione Musica. Un grande onore per noi, dopo soli due anni di vita.
Almeno lei fece un passo indietro, molto elogiativo. Difficile che oggi questo possa accadere, in musica come in poesia: dalla sperimentazione si passa definitivamente al commerciale.
Il mio intento, e quello degli “Area”, era quello di creare una musica totale, rifiutando le influenze anglosassoni che impazzavano tra i miei colleghi e i gruppi rock a me contemporanei, già a partire dal primo album del 1973, “Arbeit macht frei”, con influenze jazzistiche, Il primo album degli “Area” esce nel 1973.
Ricordo che in questo album c’è un brano Luglio Agosto Settembre Nero che è un omaggio al gruppo armato palestinese responsabile della strage alle Olimpiadi di Monaco del 1972. Perché?
In radio non ci hanno mai trasmessi, chiaramente tutti avevano dei blocchi morali, si scandalizzavano perché abbiamo fatto un pezzo che si chiamava “Settembre Nero”. Non c’è bisogno oggi di spiegare questo tipo di musica: ci sono solo cinque musicisti che hanno una rabbia repressa perché hanno suonato per tanti anni quello che volevano i padroni. Noi riuscivamo a tradurre in musica la cultura del movimento giovanile proletario dell’epoca, la colonna sonora delle proteste e delle rivendicazioni sociali e di libertà. Abbiamo preso parte a tutti i festival organizzati dai movimenti di lotta e di protesta. Ma, per sbarazzare il campo da ogni malinteso, il mio mitra è sempre stato un contrabbasso, quasi stessa forma e stessa impugnatura, ma un contrabbasso che al posto dei proiettili sparava musica.
Grazie a Gianni Sassi, fondatore della Cramps Records e membro del movimento “Fluxus” italiano, entra nel mondo della poesia sonora, avvicinandosi definitivamente al pensiero e all’opera di John Cage. Bei tempi, no?
Bei tempi! Lavoravo con Juan Hidalgo, Walter Marchetti, Gianni-Emilio Simonetti, artisti performer e poeti visuali e della body art. Era un periodo in cui m’interessavo anche di psicanalisi (studiano Lacan, Saussure, Freud, Young) con ricerche sul rapporto tra linguaggio e psiche. Partecipai a molti corsi e seminari nelle scuole sulla pedagogia della voce e, su indicazione di Cage tenni un corso sulle possibilità della voce umana presso il “Centro di Musica Sperimentale” dell’Università di San Diego, in California.
I suoi studi di musicologia comparata e sulla vocalità l’hanno portata lontano dall’Italia. Penso alle tecniche delle civiltà orientali e medio-orientali.
Sì, il prodotto è Crac!, terzo album degli “Area”. Ampliai il discorso nel 1974 dopo la partecipazione ad un festival a Cuba. Ricevetti dal Ministero della Cultura cubana l’invito a unirmi ad una delegazione di musicisti della Mongolia per partecipare a un dibattito sulla vocalità di quelle zone.
Gianni-Emilio Simonetti una volta ha detto che lei ha saputo cogliere nella voce l’estetica del vuoto che attraversa l’arte moderna e oltrepassa il culto del realismo. È ancora molto difficile oggi affermare la voce come uno strumento musicale, una poesia per le orecchie e per il cuore, un’estetica del bello oltre il compiacimento, come voce-sesso, voce-arte, voce-corpo, voce-amore per la vita?
Oggi si parla della voce come di uno strumento difficile da suonare; ma contrariamente a qualsiasi altro strumento che può essere riposto dopo l’uso, la voce non si separa mai dal suo proprietario e quindi è qualcosa di più di uno strumento. L’ipertrofia vocale occidentale ha reso il cantante moderno pressoché insensibile ai diversi aspetti della vocalità, isolandolo nel recinto di determinate strutture linguistiche. È ancora molto difficile scuoterlo dal suo processo di mummificazione e trascinarlo fuori da consuetudini espressive privilegiate e istituzionalizzate dalla cultura delle classi dominanti.
Programmi per il futuro?
Oh, questa è bella! Continuare a fare il fantasma, cos’altro potrei fare?