Oggi ci è venuto a trovare il fantasma di Lina Mangiacapre. Parliamo soprattutto di mito, contestazione giovanile (il ’68, di cui quest’anno corre il cinquantesimo anno), e di femminismo. Lina (Carmela) Mangiacapre (Napoli, 1946 – 2002), dipingeva la poesia. È stata una delle figure chiave del femminismo in Italia, un artista totale: pittrice dal look provocatorio, poetessa, scrittrice, regista teatrale e cinematografica, editore, fondatrice di riviste, etc. Insomma: artista totale. Un po’ dimenticata, anche se la regista e giornalista romana Nadia Pizzuti nel 2015 l’ha omaggiato con un cortometraggio di 41’ dal titolo Lina Mangiacapre. Artista del femminismo, con riprese effettuate a Posillipo, zona alta di Napoli. «Figura di difficile collocazione – ci dice Margherita Giacobino sulla pagina facebook dedicata all’artista napoletana – e forse scomoda anche per il femminismo italiano, Lina Mangiacapre ci invita non tanto a decifrare quanto a lasciarci sedurre dalla sua complessità di teorica che rifiuta la teoria, di militante che lavora con e per le donne ma si proclama androgina, anticipando le moderne teorie sull’identità sessuale fluida. Dacia Maraini dice che non apparteneva al mondo degli umani ma a quello delle fate e degli elfi, Adele Cambria afferma che non possedeva il gene della banalità. Di se stessa Lina Mangiacapre dice: «Io vado cercando la non-donna, il non-uomo, ciò che non è». Il 1° aprile 2017 le è stato intitolato un belvedere a Posillipo-Napoli. Sulla targa si legge “Lina Mangiacapre. Artista femminista”.
A Lina Mangiacapre si devono, tra l’altro, la fondazione del gruppo “Nemesiache” (1970), uno dei collettivi più rappresentativi del movimento femminista; l’ideazione della Rassegna del Cinema femminista di Sorrento “L’altro sguardo”, primo festival del genere in Europa (1976); l’istituzione del Premio cinematografico Elvira Notari (1987), ora Premio Lina Mangiacapre.
La ricerca di libertà è stato il leit-motiv della sua vita. Ma che cos’è per lei la libertà?
Potrei rispondere in modo materiale, presentarmi in pubblico con fantasiosi abiti dark o punk rock, cilindri e bombette, grandi occhiali a farfalla, ciocche di capelli colorate. Ma sarei banale.La libertà è provocazione senza tempo.
Oggi c’è un ritorno al mito. Che rapporto ha avuto col mito che ha rimesso al mondo?
Un rapporto conflittuale, anche se ho posto il mito al centro della mia ricerca ideando la “psicofavola”, metodo teatrale e di autocoscienza, in cui ho composto la mia prima opera femminista: “Cenerella”, trascritta poi per il cinema con l’omonimo titolo, chepone – appunto – il mito al centro della mia ricerca intellettuale ed artistica. Ma il mito lo afferro e lo inchiodo nel tempo della mia volontà: Achille lo stupro io e rido delle sue labbra oscene che si spalancano su di me. Il mito è stravolto, afferro il suo piede, mordo il suo calcagno, lo stacco, lo sputo. Le mie poesie, per es., sono più dedicate al vento, simbolo della libertà.
Quando ha incontrato il mito?
Il mito per me veniva dalla passione filosofica, la scoperta del concetto, di come anche la logica nella sua astrattezza potesse essere una pericolosa negatività per la liberazione delle donne. Allora mi sono chiesta come e perché è nata la filosofia. È chiaro che ci doveva essere un modo di comunicare precedente al concetto. Ho pensato che questo precedente era il mito; cioè che il mito, fosse questa forma dove c’era il corpo.
Che cos’è l’arte?
L’arte e la creatività sono forme di lotta per la liberazione delle donne, sono politica come le azioni performative delle Nemesiache.
Leggendo i suoi lavori, notiamo che c’è una forte verve ironica e a tratti giocosa. Che peso hanno nella sua vita?
Sono il significato della mia, forza di un’antipolitica che mi porta al rifiuto degli schemi, delle strutture precostituite, delle gabbie di pensiero a senso unico.
Filosofia e esistenzialismo come vanno d’accordo nella sua scrittura?
Durante la contestazione studentesca del ’68 a me è scoppiata la passione filosofica, una grande rivoluzione culturale in cui i contenuti del passato e il provincialismo di una cultura chiusa venivano messi in discussione, quasi una grande risata; in questo senso il Sessantotto appare come un momento romantico.
E come è riuscita a uscire da quel periodo dove si contestava tutto?
Fuggendo dall’Università, andando a Mergellina e fare filosofia con i pescatori e i camerieri dei bar che mi chiamavano Socrate. Avevo incontrato Sartre, la passione filosofica, marxismo ed esistenzialismo insieme. Non poteva essere diversamente. Appena arrivavo si radunavano attorno a me, cominciavano a parlare di questioni filosofiche. Questo è il mio ’68, eliminare caste e rigidità, che ancora c’erano tra gl’intellettuali e la gente che lavorava: operai, artigiani e là ho trovato la mia passione filosofica. Ogni giorno si partiva dal concreto, dal particolare e si arrivava all’universale. Si bruciavano i libri e a me è scoppiata la passione filosofica.
Quindi, non si è mai aggregata al gruppo della contestazione giovanile che quest’anno compie cinquant’anni?
Il gruppo di cui facevo parte era soprattutto senso di libertà, orgoglio di rottura degli schemi, contestazione di qualunque limite rispetto all’arte. Tutto è politica, si diceva. Il nostro discorso era: tutto deve essere arte, la stessa politica deve diventare arte. Il concreto lo incontravi continuamente in una città come Napoli. Napoli è per un artista pane quotidiano. Questo è stato il mio ’68: eliminare caste e rigidità, che ancora c’erano tra gli intellettuali e la gente che lavorava: operai, artigiani e là ho trovato la mia passione filosofica. Ogni giorno si partiva dal concreto, dal particolare e si arrivava all’universale.
Parliamo un po’ di cinema. Ricordiamo alcuni suoi film: Follia come poesia (1979), girato insieme alle donne psichiatrizzate dell’ospedale “Frullone” di Napoli; Ricciocaproccio (1981) e Didone non è morta. Ci dedica due parole sul cinema?
Il cinema è un insieme di immagini, la sintesi di tutte le arti. Non c’è astrattezza, ecco perché dalla scrittura sono passata al cinema, sempre in questa mia ricerca di capire da dove nasceva il “concetto”. Ecco il perché di tutto il movimento, del gruppo chiamato Nemesiache che parte dall’analisi del mito e ricerca il perché dell’eliminazione del mito e della nascita del “concetto”, la ragione dell’eliminazione di un sistema cosmico precedente al patriarcato.
Quale messaggio esce fuori dal suo cinema?
Soprattutto la memoria. Memoria anche di realtà soppresse e volutamente cancellate. Un ritorno del valore della storia, uno sguardo sprofondato in modo profano e blasfemo oltre le soglie della morte. Orfeo con la musica del cinema valica le sponde dell’Averno (tempo) e porta alla luce.
L’arte oggi è molto legata al denaro, come quasi tutte le proposte culturali odierne. Qual è il suo concetto di arte?
Bisogna riprendere l’arte dell’amore come pratica di rivoluzione.
Tutto qui?
E le sembra poco? Cosa vuole che le scriva un trattato?
Un consiglio per i giovani, quale strada consiglierebbe?
Bisogna vedere in quale direzione andare, dove trovare le tracce che ci interessano, la forza che cerchiamo, lo star bene. Però il modello non è più unico, siamo in un mondo frammentato perché troppo ricco di informazioni, possibilità, in cui ognuno di noi, penso, farà il viaggio nella direzione che vorrà e si incontrerà forse con quelli/e che hanno interessi contrari.
Ringraziamo Marisa Papa Ruggiero per averci suggerito questa intervista.