Oggi ci è venuto a trovare il fantasma dello scrittore argentino Jorge Luis Borges: parliamo di “finzioni” (ogni riferimento alla rubrica che accoglie quest’articolo è puramente casuale). Finzioni è anche il titolo di uno dei volumi di Borges, considerato la sua opera capitale, pubblicato per la prima volta da Einaudi nel 1955, con traduzione di Franco Lucentini, una serie di racconti-saggi scritti tra il 1935 e il 1944 divisi in due parti: Il giardino dei sentieri che si biforcano e Artifici. «Le finzioni di cui Borges ci parla in tutta l’opera appaiono come comuni e universali, vicine alla quotidianità umana e si delineano come quelle interpretazioni approssimate e fittizie della realtà da parte dell’uomo. L’invito indiretto fatto dall’autore sta nel non considerare tutto come stabilito e definito, ma nell’appropriarsi della materia di cui sono fatte le stesse finzioni, ovvero nella capacità critica e interpretativa dell’uomo» (Domenico Cuomo, Finzioni. L’opera capitale di Borges, in «900 Letterario», 16.9.2014).
Bibliotecario di provincia, Borges è considerato il capofila dell’ultraismo, una corrente letteraria argentina che attinge dall’espressionismo tedesco spagnolo, dal futurismo italiano, dal cubismo e dal dadaismo. Un’avanguardia che Borges ben presto rinnega, ma che le riconosce i tratti provocatori e di gran fermento. Matura in sé racconti fantastici e lo studio degli autori dell’antichità, quale errante labirinto, ma nulla di profetico, come gli antichi. Poi la vista che gli viene a mancare del tutto, condiziona l’approccio con la scrittura, che ora si basa sul breve frammento, anche in poesia.
Finzioni è considerata la sua opera capitale. Perché Finzioni?
Per un’interpretazione critica della realtà circostante, spesso ci si debba servire dell’intuizione per creare un linguaggio universale, capace di andare al di là delle cose, invitandoci a riflettere sulla loro reale entità. E non può che avvenire attraverso una finzione, per non essere intrappolato dalle congetture o dal troppo legame con se stessi. E allora si finge addirittura di essere un altro, ma alla fine la finzione non è altro che la ricerca della verità.
Oggi sembra che la realtà abbia adottato come primario sentimento la finzione. Finge lo scrittore, il poeta, il politico, l’amico con l’amico, finsero Adamo ed Eva con Dio, finse Caino, finse Giuda: si finge addirittura in famiglia. Allora il mondo è basato sulla menzogna?
Ti rispondo con alcuni versi di una mia poesia: Emerson, dedicata al padre della filosofia fantastica: il monismo. «… Ho letto i libri essenziali / e altri ne ho composti che il buio oblio / non cancellerà. Un dio mi ha concesso / ciò che è dato ai mortali di sapere. / Per tutto il continente va il mio nome; / non ho vissuto. Vorrei essere un altro». Ecco, l’uomo desidera sempre di essere un altro ed è per questo che finge, dichiarando che un uomo è tutti gli uomini e non c’è nessuno che non si reputi al di sopra di se stesso. Ovviamente in quel momento finge, e finge alla grande, perché la verità assoluta non esiste ed ognuno può dirsi quello che vuole.
Allora questo mondo è irreale?
Perché, avevi qualche dubbio? Può mai essere reale se l’umanità è schiava di una sovrastruttura non “umana”, quale è il “dio denaro”?
Un momento, Maestro: qui le domande le faccio io. Me state appiccianne ‘e cerevelle! Allora noi chi siamo?
Quello che vogliamo essere, non c’è smentita che abbia un fondamento che non sia finzione, che non sia il contrario. Chi può smentire tutto questo? E su quali basi lo farà se la verità è soggettiva?
Cosa può dire a coloro che affermano che il presente è indefinito: quindi, senza futuro?
Dico semplicemente che nel mentre dormiamo non possiamo essere svegli. Se non si accetta questo principio, si arriva a negare anche la storia, la propria storia umana, in quanto dovremmo accettare il fatto che ogni uomo è due uomini, sconosciuti tra loro.
Se l’essere umano arriva a fingere di glorificarsi col proposito di imporsi alla realtà per un riscatto della sua condizione di apparenza?
La gloria è una forma d’incomprensione, forse la peggiore che gradualmente lo avvezza dalla realtà. È un po’ come camminare nel fuoco e non bruciarsi in quanto il fuoco è considerato una proiezione di un sogno in quanto affermare o negare la realtà non è altro che un infinito gioco d’azzardo, davanti al quale siamo destinati sempre a perdere o semplicemente ad essere ammessi come parte di una realtà innegabile.
Maestro, una sua definizione di poesia.
Vedere nella morte il sonno, nel tramonto un triste oro, tale è la poesia che è immortale e povera. La poesia ritorna come l’aurora e il tramonto. Guardare un fiume fatto di tempo e acqua e ricordare che il tempo è un altro fiume.
E l’arte? Che cos’è l’arte?
L’arte è guardare in fondo ad uno specchio e rivelarci ciò che non si vede.
Come nasce un suo racconto?
Comincio con l’intravedere una forma, una specie di isola remota […] Vedo la fine e vedo l’inizio, ma non ciò che si trova in mezzo. Questo mi viene rivelato gradualmente, quando gli astri o il caso sono propizi. Più di una volta devo ripetere il cammino nella zona d’ombra. In tutte le opere narrative, ogni volta che si è di fronte a diverse alternative, ci si decide per una e si eliminano altre.
Ma così è facile!
A volte nelle sere una faccia / ci guarda dal fondo di uno specchio; / l’arte deve essere come quello specchio / che ci rivela la nostra propria faccia.