Il poeta che andiamo ad intervistare è Antonio Trucillo, nato a Napoli nel 1955 e vive a Minori (SA), sulla costa di Amalfi, dove insegna. Suoi testi sono apparsi su riviste e quotidiani: «Letture»; «clan-Destino»; «Nuovi Argomenti»; «Il Mattino di Napoli»; «La Repubblica»; sul blog «Nazione Indiana» e sulle rassegne on-line «Pangea» e «Formicaleone». È presente nel Dizionario critico della poesia italiana 1945-2020 (SEF, 2020), a cura di Mario Fresa. Traduce dal francese e dall’inglese. In volume ha pubblicato, le raccolte di poesia: Ko an di Aziz (Ripostes, 1982); Il mercato bianco (Lalli, 1985); Notizie dell’unicorno (Edizioni del Leone, 1989); Teofanìe (id., 1990); Anche nei villaggi (Campanotto, 1995); La nuvèla (Marietti, 2011); Nella luce di un giorno di paga (Edizioni Ensemble, 2017); Un’idea di bene (Ladolfi, 2019); Destino de la Garisenda (Oèdipus, 2020, premio “Rubiana – Dino Campana”, 2021). Nel 2020, presso Ensemble, è uscito il suo primo volume in prosa, Presso il re moro. Per lo stesso editore, nel 2021, ha curato La ghirlanda nunziale di lettere del mistico indiano Ramana Maharshi.
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Vana da questa terra c’è l’aria
e i simboli che fanno l’eco,
andava dove il tempo andava
e moriva.
Io, l’odore del sonno, perché
se piove è il sonno che quieta
la terra, i corpi…
se fosse anche il mio sonno
e fossi come una volta.
(da Un’idea di bene, Giuliano Ladolfi Editore, 2019, p. 79)
Come ti sei avvicinato alla poesia?
Ero molto piccolo. Leggevo tutte le poesie che trovavo sui libri di scuola. Le imparavo a memoria. Pascoli, soprattutto, ma non solo. Poi la mia passione è diventata la musica: il rock, il blues, Bob Dylan e Leonard Cohen di cui traducevo i testi, a modo mio, senza conoscere una parola degli originali. Verso la fine degli anni ’70 cominciai di nuovo a scrivere qualcosa che somigliasse vagamente alla poesia. Sull’onda dei Beats, Ginsberg e Burroughs su tutti. E nel 1982 pubblicai a mie spese il primo libro di poesie “Ko an di Aziza, reduce da viaggi in Marocco, Egitto e India e da una breve permanenza a Casablanca come insegnante nella scuola italiana. Un tributo ad Allen Ginsberg, molto ingenuo ma pieno di passione.
Se i critici più bravi e più esperti di me, affermano che la poesia (o l’opera d’arte) si compie nella interpretazione, secondo te che ruolo ha la critica?
La critica ha un ruolo importante ma ‒ credo ‒ non fondamentale. Può chiarire, aprire, perfino illuminare un testo. Ma forse la poesia basta a sé stessa.
Che cos’è la critica per un poeta? E per te?
Credo che per un poeta sia, in ogni caso, un punto di riferimento indispensabile. Anche per me. La mia vanagloria si manifesta quando qualche critico o poeta-critico mi dice qualcosa che posso commentare così: «Ha ragione, ha proprio capito!».
Posto che non si riesce mai a definire una poesia, principalmente perché racchiude in pratica in sé tanti canoni diversi, da poesia a poesia, addirittura da verso a verso, tentiamo almeno di definire che cos’è un poeta o chi è un poeta. Francesco Iannone, nella prefazione al tuo volume, Un’idea di bene, ci dice che è «sangue e alluvione, arteria e flusso, ossigeno e respiro». Ma che cos’è o chi è per te un poeta?
Un poeta è uno che o è poeta per 24 ore al giorno o non lo è. È un mestiere difficile. Non esiste “distrazione”. La poesia è l’espressione della profondità e della concentrazione che tu hai nei confronti della realtà. Anche se non è necessario essere profondi per essere poeti. Ci sono poeti, per così dire, “futili” che sono grandi poeti. Non è il mio caso. Non sono un grande poeta, senza dubbio, ma posso dire altrettanto di non essere futile.
A proposito di Un’idea di bene, da cui abbiamo estratto la poesia che dà inizio a questa intervista. Emerge in esso che il bene si può ricavare a partire dalle parole, dalla disposizione dei linguaggi, ovvero dalla comunicazione tra i viventi, oggi alquanto decaduta: «Ma ora la vita è più acuta, / si fa nuda / sotto lo sguardo, ecco, una luce / occidentale, un’idea che si può / toccare, un’idea materiale, un’idea / di bene». Ma che cos’è per te il bene? Come si rapporta con la tua esistenza?
Ecco un caso in cui il critico vede meglio dell’autore e scoperchia tutto un mondo. Per me il bene è proprio questo: la disposizione delle parole, la sovversione del linguaggio, la comunicazione tra i viventi. Sono le conseguenze di comportarsi in una certa maniera, con un atteggiamento di humanitas, di compassione, di comprensione.
E la poesia è un bene o una dannazione? Una “regina” o una “schiava” in questa nostra società?
Per me la poesia è un bene, comunque la si pensi. Può cambiare il mondo? Non lo so, ma certamente ha anche una funzione di donare quiete, appagamento, riposo, tregua.
Dalla tua biografia noto che scrivi anche in prosa. Qual è ‒ secondo te ‒ la situazione della prosa, del romanzo in Italia?
Fino a una decina di anni fa, leggevo molta narrativa italiana. Oggi ho smesso quasi del tutto. Francamente mi sembra tempo perso. Preferisco leggere cose che mi sono perso o classici riconosciuti come tali. Non vedo granché nel panorama letterario italiano. Si va per i premi e per vendere. Odio il concetto: Ho voluto raccontare una storia… Lasciamolo alle “Mille e una notte”, è molto meglio.
Abbiamo parlato di un’idea di bene. Non possiamo esimerci ora dal parlare anche di gioia ‒ diciamo, per par condicio ‒ (un po’ azzardato ‒ mi rendo conto ‒ in questo preciso momento storico, tra la pandemia e una guerra assurda alle porte dell’Europa, praticamente di casa nostra), citando un altro tuo testo, Commentario a una specie di gioia, pubblicato con Oèdipus, del nostro corregionale e compianto amico Francesco Forte. Insomma: qual è questa specie di gioia che pare tu abbia individuato? Forse ne «I tram con il mare dentro / la trasparenza delle cose / sghembe come se lo stesso mare si sfrangiasse / in molte superficie o come se gli stessi tram – / aggeggi futuribili – si sfrangiassero / nella riviera verde» della tua bella Minori?
È forse anche questo, cioè la vita nei suoi minimi dettagli ma, come ho detto prima, queste esperienze devono tradursi in qualche modo in poesia. La mia poesia cerca riposo, uscita dal dolore, mira, appunto, a “una specie di gioia”.
C’è stato qualcuno che devi o vuoi ringraziare per averti dato, che so, dei consigli di come muoverti nel tuo percorso artistico? Insomma, c’è un modello che hai seguito o che segui?
Non ho frequentato e non frequento abitualmente molti poeti o critici. Confesso che un po’ mi annoia. Preferisco le chiacchiere da bar e non me ne vergogno. I miei maestri sono stati i grandi poeti e i grandi scrittori: Bernhard, Handke, Céline, Singer, Dante, i poeti delle Origini, Leopardi, Montale, Hopkins, Lorca, Walser, la Ortese per citarne solo i primi che mi vengono alla memoria, alla rinfusa.
Che cos’è per te l’amicizia?
È fondamentale. So di dire una banalità ma fa lo stesso: ha la medesima importanza dell’amore.
Cosa distingue l’uomo dal poeta?
Ah no, è la stessa cosa, non sono inscindibili. Bisogna essere poeti anche quando si beve il caffè.
Ti sei mai occupato di politica? Che idea hai della politica?
Da giovane molto. Sono stato militante a sinistra. Sono sempre stato comunista e lo sono ancora. Come dice Saramago, è un’idea troppo bella per essere abbandonata.
E della guerra in corso tra Russia e Ucraina? Credi che inviando armi agli ucraini, sanzionando economicamente i russi, accettando le richieste di entrare nella Nato di Svezia e Finlandia, due nazioni ai confini del conflitto in corso, siano scelte politicamente giuste o sono altre le strade per risolvere questo conflitto?
No, credo che le due parti debbano entrambe abbassare le pretese. Solo così se ne esce. Occorre assolutamente una mediazione, un riconoscimento da parte di entrambe le parti. Inviare armi vuol dire allungare i tempi della guerra. Altri morti, più povertà, più arricchiti. Mi indigna il comportamento dei media italiani e di tutta Europa: nessuna voce discorde. Pensiero unico, come ormai in tutti i settori.
Torniamo alla poesia, quelli di cui sopra sono decisioni che spettano ad altri. Cosa cerchi nella poesia? Quali sono gli argomenti alla base dei tuoi intenti?
Il compito della poesia è comprendere la realtà. Tutta. In che modo? Non c’è una ricetta. Se è poesia, qualcosa del mondo è più chiaro, un po’ di oscurità se ne va via, i cieli diventano più tersi.
Oggi il compito della poesia sembra un’auto-celebrazione. Sembra che i poeti non abbiano più nemici da contrastare. Troppi poeti della domenica, o sempre le stesse facce (poche) alle presentazioni di libri o letture poetiche; troppe poesie tutte dello stesso tono. Insomma: sembra esplosa in piccoli clan, e non sempre collegati tra loro, neanche nella stessa città. Qual è la tua opinione in merito?
Sono d’accordo. Ripeto, frequento pochissimo l’ambiente letterario e uno dei motivi è proprio questo, quest’aria di autocelebrazione, questo tono da “primi della classe”, questa spocchia risibile di appartenere a una qualche conventicola.
La tua scrittura segue delle linee o delle correnti culturali specifiche?
Non credo. Certo, ci sono poeti italiani che mi piacciono molto e che sicuramente mi hanno influenzato. Penso al secondo Viviani, a Cesare Greppi, a Scarabicchi, a Marotta, ma, di fondo, ho l’ambizione di percorrere una mia propria strada.
In letteratura si può incontrare l’amicizia, cioè fidarsi dei “colleghi”, o il poeta e lo scrittore sono destinati ad affrontare le problematiche in perenne solitudine?
Il poeta è solo, sempre.
Un consiglio per i giovani che si apprestano ad entrare nel tortuoso mondo della scrittura creativa.
Leggere tutta la poesia possibile e immaginabile. Senza conoscere la poesia è vano e inutile mettersi a scrivere. La poesia non è uno sfogo.
Sembra che oggi la poesia non venga presa con la dovuta serietà, finendo per essere un “passatempo”. Quanto prendi sul serio la poesia?
Molto, moltissimo. Ciò non toglie che parlare di poesia, come ho già detto, spesso mi annoia.
Oggi, con la crisi dell’editoria pubblicare un volume non è semplice: le grandi case editrici non ti filano se non sei legato alla politica o a risorse economiche; per di più le piccole (non tutte, per fortuna!) ti chiedono contributi economici, spesso esosi. Hai riscontrato difficoltà editoriali durante il tuo percorso poetico?
All’inizio molto. Da qualche anno di meno. Ho trovato un paio di piccole case editrici “di buona volontà”, molto attente e attive, per fortuna. Oh lasciami ricordare, a questo proposito, una persona che non c’è più e che ha fatto moltissimo per l’editoria e per la poesia: Francesco Forte, che hai citato più sopra. Ci sentivamo per telefono ogni lunedì. Grande intellettuale, uomo di grande umanità. Avrebbe meritato una dimensione quanto meno nazionale. Mi manca molto.
Se dovessi paragonare la tua poesia a un poeta famoso, a chi la paragoneresti e perché? Quale affinità elettive ci trovi con la tua poesia?
So di meritare la fucilazione. A Dante. Ma poiché l’ho sparata grossa dico a Guittone d’Arezzo che, d’altra parte, Dante non amava.
Cosa pensi dei libri digitali? Possono competere con l’editoria tradizionale, cioè con quella cartacea e perché?
Non ne so quasi niente. So soltanto che io sono un accumulatore quasi patologico di libri e che non ne potrei fare a meno. Certo con gli e-book si guadagna un sacco di spazio ma io non saprei che farmene.
E dei premi che idea ti sei fatto? Quale beneficio può arrecare un premio, ammesso che rechi benefici?
Ho vinto il premio Rubiana-Dino Campana e sono stato rimproverato perché non sono andato a ritirarlo. Forse alcuni premi hanno una loro importanza e dubito molto su eventuali rilevanti benefici.
Intendevo benefici culturali. Comunque, andiamo avanti. È risaputo che al giorno d’oggi si legge molto poco; gli autori, che siano poeti narratori o saggisti, a giusta ragione si lamentano di questa inedia. Ha mai cercato di dare una spiegazione a questo fenomeno?
La lettura è qualcosa di faticoso. Racconto la mia esperienza. Avevo sette-otto anni ed ero già attratto dai libri. Ho dovuto fare una dozzina di tentativi per riuscire a finire lo “Schiaccianoci” di Hoffman, un vero capolavoro. Da allora non mi sono fermato più.
È colpa dell’editoria che sforna libri scadenti o c’è qualcosa di più profondo in questa crisi di lettura? A proposito di editoria: c’è qualche editore non a pagamento che consiglieresti a chi si appresta a pubblicare e qualcuno da tenere alla larga, specie se a pagamento?
Consiglio le Edizioni Ensemble di Roma. Molto intraprendenti e attivi. Poi c’era Oèdipus ma purtroppo Francesco Forte non c’è più. Sconsiglio, ma solo per esperienza personale, Pequod (a suo tempo con me scorrettissima) e Manni, che utilizza il doppio canale (chi è “famoso” non paga niente, altrimenti per pubblicare occorre un mutuo.
Quel che avviene da Guida editore ‒ riferendoci a un editore a Napoli ‒ e lo so per esperienza personale. La soddisfazione maggiore – se c’è stata – che hai raccolto nel mondo letterario?
Quando qualcuno mi ha detto che sono un poeta autentico. È sufficiente.
E quella ancora da venire?
Forse essere un po’ più conosciuto, non so, un po’ più considerato. Ma solo un po’. Giuro.
Hai una ricetta per far uscire la poesia dallo stato comatoso in cui versa?
Occorrerebbero più operatori culturali all’altezza, più critici onesti e disinteressati, più case editrici disposte a leggere e a giudicare la qualità, più distribuzione. E anche tanto altro ancora.
In conclusione: quali programmi hai in cantiere?
Mah, ho un libro in lettura che spero sia preso in considerazione per una pubblicazione. Se così avverrà, sarà la mia ultima cosa. Ho sessantasei anni. Non ho più l’energia. La poesia è anche buona salute. È proprio vero. Lontano da ogni patetismo, vorrei dedicare quanto mi resta alla traduzione di “The Wreck of the Deutschland” di Gerald Manley Hopkins. Un libro straordinario. Troppo avanti per i suoi tempi. Imprescindibile per ogni poeta.