Ci sono poeti che scrivono e riscrivono le loro poesie forse perché insicuri, tagliano, aggiungono, tolgono col rischio di perdere l’idea originaria. Non è il caso di Vincenzo Pezzella, il quale in PoesiediTransito 1994-1999 (Edizioni “Archivi del ‘900”, 1999) ha raccolto poesie scritte di getto, come si diceva una volta alle scuole d’infanzia, in brutta copia, senza rivisitazione. Un’altra “anomalia” è data dal fatto che le ha scritte su foglietti tipo biglietti da visita che si stampa personalmente nelle macchinette della sotterranea della metropolitana. Esse si alimentano del quotidiano, di una lingua metropolitana – ci fa notare l’autore – che si annida in ciascuno di noi, coltivano odori, percezioni, sentimenti, odio, violenze, speranze, rumori, indifferenze. Un tutto magmatico come la vita.
Sono poesie non “infinite”, il risultato del mondo della vita comune frammentato dalla quotidianità delle città ingabbiate nella globalizzazione economica e culturale, risultato di un linguaggio non lontano dalle sperimentazioni avanguardistiche. Leggendo queste poesie facciamo la conoscenza di paesaggi multietnici di Roma Termini, di Napoli Piazza Garibaldi e della zona flegrea, delle Langhe palermitane, di Milano, etc.
Violenze organizzate e minorili che il poeta ha incontrato sulla sua strada vanno pari passo con i sogni dei giovani e i cancri delle periferie, «tra-ambulantiAfricani-con-carrozzini/ di-merci-e”milleliremangiareperfavore”-/ e-il-marevulcanico-dei-vicoli-le-lolite-sulle-/ funicolari-per-Posillipo-i-posteggimoto-i-soldi-/ e-le-puttane-in-P.zzaGaribaldi-su-scarpezattere/ in-top-e-sorrisi…». Chi avrà la meglio in questa babele? È una domanda che il poeta lascia senza risposta, come giusto che sia.
Ha percorso chilometri e chilometri per la Penisola Pezzella, per marciapiedi di città, sotterranee dei metrò, stazioni ferroviarie, autogrill, tra sogni e realtà, tra fughe e indolenza di un popolo che spesso dimentica di appartenere alla categoria del genere umano. Il tutto abilmente con una poesia stampata in una forma vicino alla poesia concreta, con diversi caratteri e corpo, che spesso fa ricorso a immagini fuori testo (un volto di donna, disegni, immagini di paesaggi, una macchina fotografica, l’uomo vitruviano di Leonardo, l’atomo) o chiede aiuto ai grandi poeti del passato (Byron, Merini, Pasolini, Dylan) per ricordarci che quando finisce un sogno bisogna pensare ad un altro, perché «Ognuno-va-incontro-al-suo-InFiNiTO».
Vorrei cominciare questa intervista con una domanda, forse banale ma utile per i lettori: chi è Vincenzo Pezzella?
“Me lo domando, a volte, anch’io: lo sto scoprendo a poco a poco, di certo un viaggiatore che continua una lontana antropologica migrazione, irrinunciabile. Le opere, (pittura e scrittura), i manufatti di questo viaggio cominciano dagli anni ’70. Sono tutte opere sconosciute che sto catalogando in circa 2000 immagini con il progetto di farne un libro, un altro viaggio, forse l’ultimo? Per chi vuole accedere a informazioni spicciole, mi può cercare nel pozzo di San Patrizio della rete”.
C’è molto riferimento a Napoli in queste poesie. Se dovesse fare un breve quadro della città…
“Il viaggio termina a Napoli narrativamente, là dove ha inizio la mia biografia per quello che ne so; è vissuta da me come un canzoniere e come la Dublino per Joyce: contraddizioni e visionarietà per ritornare all’altra domanda. L’ho lasciata con lo stesso cuore “a poppa” con lo stesso bisogno di ignoto e visione dello “spleen” “.
Cosa ha voluto trasmetterci con queste poesie?
“Le PoesieDiTransito non sono solo un’opera poetica (so che è difficile comprenderne il senso) ma tant’è che è così; altri linguaggi ne sono intrisi, disegno, grafica, foto, video, performance, mappe. Cosa hanno trasmesso a me che mi considero il portatore di un’energia, di un magnetismo preesistente; direi uno stato di conoscenza non sempre razionalizzabile, certamente l’essere in “ascolto” di un viaggio umano a cui non posso sottrarmi.”
Poesie nate nel 1999, con atmosfere e situazioni, dunque, “vecchie” di 20 anni. Cosa è mutato, secondo lei, nell’ambiente poetico?
“All’ambiente poetico come all’ambiente dell’arte non sono interessato, li trovo alienati e poco critici. Sono interessato al linguaggio. Semplifico, pur interpretandone un contenuto: quest’opera poetica testimonia il confine e anticipazione della liquidità della lingua contemporanea della sua contaminazione digitale; credo che la poesia in quanto lingua debba contaminarsi con il suo presente storico, non a caso Dante, Petrarca, Leopardi, scrivono in un’altra lingua che noi oggi non parliamo più, la leggiamo ma non la parliamo.”
La poesia oggi sembra destinata all’oblio. Come se ne esce?
“Al contrario, direi che è un ingorgo di citazioni, una “parolaterapia” sempre più diffusa; ma se manca la vita non si esce dall’alienazione e resta solo la “citazione della poesia” perché non c’è storia”.
Facendo nostra una sua espressione, esiste una poesia metropolitana contemporanea che riflette sull’esperienza della strada, on the road, alla Jack Kerouac, secondo coscienza?
“Per quello che ne so quando la scrivevo venti anni fa era la sola con queste caratteristiche estreme di modalità performative; e va detto che non solo gli americani mi sono stati compagni nel viaggio, anche Baudelaire, Rimbaud, Campana, tra i primi visionari delle “metropoli” “.
Secondo lei, e concludiamo, la poesia deve essere contraddizione o visionarietà del poeta?
“Entrambi gli stati; non si dà l’uno senza l’altro. Credo che la poesia sia sempre radicata in un momento storico-umano e che nello stesso tempo tenda a una visione “utopica” in senso positivo, a una percezione di assoluto come per la fisica”.