Il poeta che andiamo ad intervistare è Stefano Taccone, nato a Napoli nel 1981. Dottore di ricerca in Metodi e metodologie della ricerca archeologica e storico-artistica, è attualmente docente di storia dell’arte alle superiori. Dal 2013 al 2015 ha insegnato storia dell’arte contemporanea presso la RUFA – Rome University of Fine Arts. Ha pubblicato le monografie Hans Haacke. Il contesto politico come materiale (2010); La contestazione dell’arte (2013); La radicalità dell’avanguardia (2017); La cooperazione dell’arte (2020); le raccolte di racconti Sogniloqui (2018) e Morfologie (2019); il romanzo Sertuccio (2020); le raccolte di poesia Alienità (2019) e Terrestri d’adozione (2021). Ha curato il volume Contro l’infelicità. L’Internazionale Situazionista e la sua attualità (2014). Collabora stabilmente con le riviste «Frequenze Poetiche», «Segno» e «OperaViva Magazine». Ha pubblicato su «ACTA Non Verba», «Boîte», «sdefinizioni», «Diwali», «Poliscritture», «Roots§Routes», «Titolo», «Tracce», «undo.net», «TK-21», «Walktable», «Titolo», «Sudcomune».
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Vorrei incominciare con una domanda del tipo: cosa cerchi nella poesia? Quali sono gli argomenti alla base?
Nella poesia forse cerco un modo alternativo a tutti gli altri di dire le cose e di ascoltare ciò che viene detto. I modi di comunicare non saranno mai abbastanza rispetto al misterioso magma della somma delle idee di tutto il mondo; idee come concetti lineari – o presunti tali – e idee che nascono da fraintendimenti di altre idee; idee assertive e idee stupidamente contro-assertive che però, magari ricontestualizzate loro malgrado, diventano intelligenti, significative, o solo meno stupide. Entrando più nello specifico godo della poesia come spazio di libertà del discorso ancora concesso – forse almeno quanto mi rammarico dello spazio di non libertà del discorso che invece incatena quello istituzionalmente dell’extra-poesia. Naturalmente anche questa è una libertà che, come tutte le altre, va conquistata e rinegoziata costantemente.
Mi piace ricombinare i piani del significato e del significante, con un irresistibile gusto dell’ambiguità, che però potrebbe più freddamente dirsi polisemicità. Credo che questo lavorio concili il piano dell’interrogazione sul linguaggio e il piano dell’urgenza dei contenuti. Importante per me è il ritmo dato dalla rima, o almeno dalla consonanza e dalla assonanza, ma non dimenticando che anche la dissonanza è qualcosa di diversamente ritmico. Il mio uso della rima o di espedienti affini è serio non più di quanto sia ironico e persino a tratti canzonatorio. Così come una ibridazione tra questi due piani, messi reciprocamente a valore – come due colori complementari sulla tela di un pittore impressionista -, è connessa al mio prelievo continuo di parole e locuzioni più “alla moda”. Veicolate dai social, ultimo grido della propaganda politica del momento – politica ma non necessariamente partitica, anzi negli ultimi tempi direi politico-bellicistica -, contagiose più dell’ultima variante del Covid che verrà, ovvero quella che deve ancora venire, il carattere spesso abbietto di esse si rovescia – spero – in un piccolo barlume di luce ed aria, in virtù della loro demistificazione.
Una mia curiosità: sei principalmente uno storico dell’arte che ha scritto anche alcuni volumi di racconti. Come ci sei arrivato alla poesia?
Ho una formazione storico-artistica e continuo a scrivere di storia dell’arte in varie forme, ad insegnarla alle superiori e ad occuparmene in tante altre modalità possibili, con una costante problematicità sui suoi confini soggettivi ed oggettivi. La sottolineatura della non certezza dei confini fornisce già una prima chiave per comprendere il mio bisogno di e la mia tendenza a volgermi anche ad altri linguaggi, nonché a trasformare il mio ruolo – non più commentatore, ma produttore. Si tenga conto, inoltre, che ben presto il mio oggetto di ricerca storico-artistica principale è divenuto l’arte delle avanguardie – e dintorni ‒ intese come superamento della divisione della specificità dei linguaggi e infine dell’arte stessa.
Alla poesia in realtà – come del resto alla narrativa – ci sono arrivato prima ancora che alla storia dell’arte, perché già verso i 6-7 anni ho cominciato a scrivere le prime poesie e i primi racconti, che però erano appunto non più che conformi ad una tale età. Successivamente, durante l’adolescenza e la prima giovinezza, ho continuato a scrivere poesie e racconti ad ondate saltuarie, senza però mai pubblicare e neanche avendo l’idea di come si facesse, e non facendo leggere nulla a nessuno o quasi. Del resto all’epoca l’online era nella sua fase archeologica. Poi verso i 22-23 anni ho cominciato a scrivere i primi testi critici sulle arti visive e per lungo tempo, fino alla soglia dei 40 anni, ho riversato la mia vocazione creativa prettamente in quell’ambito. Solo successivamente sono riuscito a liberare finalmente la narrativa e la poesia dalla cappa di ombra in cui la tenevo relegata. Credo sia dipeso da un processo di mia trasformazione interiore causato in parte dalla mia volontà e in parte da contingenze esterne. A volte penso che la narrativa e la poesia, se le cose fossero andate diversamente, potevano venire in me alla luce prima, ma anche ancora più tardi, oppure mai, e comunque in ogni caso la mia produzione avrebbe preso forme sempre parzialmente diverse a seconda del momento storico dell’anima coincidente con la loro emissione. L’ostacolo principale era dato da me stesso, dal mio grado di (in)sopportabilità di pensarmi come produttore di narrativa o di poesia. Trovare le strade formali opportune naturalmente non è una questione da poco, ma veniva insieme immediatamente dopo come problema e immediatamente prima come non problema, in quanto appunto – come ho spiegato sopra – slancio che premeva e nasceva da una esigenza profondissima ed antichissima del mio essere.
C’è qualcuno che devi ringraziare?
Fin troppe persone. Questa è forse la domanda più complessa e spinosa di tutte. Innanzi tutto i miei genitori, sia quando mi sono stati complici sia quando mi hanno sabotato. Una menzione meritano poi senz’altro i miei professori, Angelo Trimarco e Stefania Zuliani, per tutto quello che mi hanno insegnato intorno all’arte e alla critica d’arte. In particolare non sarò mai troppo grato per avermi portato ad intendere lo studio del fatto artistico in stretta relazione e confronto con le altre discipline, oltre che naturalmente con un occhio alla molteplicità dei linguaggi artistici. Più specificamente in ambito letterario non posso tralasciare gli incoraggiamenti ‒ e talvolta anche gli insegnamenti ‒ che a vario titolo e in vari frangenti mi hanno fornito in questi primi anni – in rigoroso ordine alfabetico – Marco Amore, Rocío Bolaños, Cristiana Buccarelli, Letizia Leone, Alfonsina Caterino, Marco De Gemmis, Nadia Lisanti, Lia Manzi, Domenico Mennillo, Ivano Mugnaini, Marisa Papa Ruggiero, Rosaria Ragni Licinio, nonché un certo Giorgio Moio. Qualche parola voglio spenderla per due artisti visivi, nonché amici fraterni, come Enzo Calibè e Salvatore Manzi, con i quali intrattengo da quasi vent’anni un inossidabile rapporto di affinità e scambio a trecentosessanta gradi su arti, politiche, pensieri e spiritualità. Voglio inoltre ricordare le due case editrici che più di tutte le altre si sono intrecciate con la mia scrittura, ovvero Iod Edizioni di Francesco e Pasquale Testa e Ombre Corte di Gianfranco Morosato. Infine, ultimo ma più importante di tutti, vorrei ringraziare un signore comunemente chiamato Dio, che per me è quello di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, di Mosè e di Gesù. Mi scuso con tante altre persone che a causa dello spazio esiguo e delle motivazioni più proprie di questa intervista tralascio di menzionare esplicitamente. Confido nel fatto che ciascuna di essi sappia bene del posto che occupa nel mio cuore.
Nel tuo ultimo volume di poesia, Terrestri d’adozione (Edizioni Progetto Cultura, 2021), nel testo che porta il titolo del volume, situato a p. 55, i primi versi recitano così: «dicono che la vita / ebbe origine / extraterrestre / sarà per questo / che la stessa fuliggine / tempesta / uomini e bestie / alberi arbusti e fiori / veniamo tutti da fuori…». L’origine sarà pure extraterrestre, ma mi sembra con una pessima eredità, specialmente in questi ultimi anni. Cosa ne pensi?
L’origine extraterrestre vuole avanzare una possibile spiegazione al dolore che accomuna le vite di ogni essere vivente dall’essere umano fino al più piccolo organismo, dolore-bisogno che è tanto causa di ciò che chiamiamo imperfezione quanto molla ad agire per ovviare a ciò che ci manca. Perché ci manca sempre qualcosa, e se così non fosse avremmo ben altra concezione del fare, sia nell’accezione del pràttein che in quella del poiêin. Meglio ancora forse non ne avremmo alcuna. Non avremmo bisogno di procacciarci del cibo e neanche di produrre e fruire di poesia – che poi il produrre e il fruire di talvolta in una certa misura si compenetrano. Un essere perfetto è sempre sazio ed in forze ed è sempre in uno stato di poesia piena, non conosce stati impoetici.
Una pessima eredità? Bisogna capire rispetto a chi o a che cosa? Rispetto al pianeta di cui saremmo ospiti? Quando parliamo di salvare la Terra adoperiamo quanto meno una espressione impropria. In realtà stiamo parlando nella migliore delle ipotesi di preservare condizioni di vita accettabili dell’uomo sulla Terra; nella peggiore stiamo parlando di preservare i nostri modi di vita produttivisti, operazione che implica di contro tutt’altro che una preservazione, visto che la logica intrinseca ad essi è fondata su una espansione illimitata della produzione e del consumo. È evidente che tutto ciò somiglia ad una corda che corre il serio rischio di spezzarsi, e non solo perché viviamo in una biosfera dalle risorse limitate – noi non creiamo nulla, trasformiamo solo, per quanto le nostre trasformazioni possano essere relativamente straordinarie -, ma perché le nostre risorse stesse – cognitive, emotive etc. – sono limitate. L’intelligenza artificiale è un paradosso perché nel momento in cui promette di liberarci da tanta fatica proclama anche la nostra inutilità di fare, eppure – come dicevo sopra – il non fare è per noi assimilabile al non essere, per quanto con questo verbo non intendo affatto il pragmatismo aziendalistico che è piuttosto una sorta di punizione del fare ed al fare.
Se l’uomo scomparisse dalla faccia della Terra, tutti gli altri esseri viventi troverebbero un nuovo, sia pure sempre e comunque instabile, equilibrio, ed anzi il sospetto è che toglierebbe loro un sacco di rogne – per usare un eufemismo – che attualmente noi umani arrechiamo alle loro possibilità normali di vita. Per quanto riguarda il mondo inorganico, quello che immagino autenticamente terrestre, autoctono, praticamente non cambierebbe nulla. Allo stato delle nostre conoscenze attuali mi pare difficile sostenere che un masso o una chiazza di petrolio possano provare nostalgia non solo per una eventuale scomparsa dell’uomo, ma anche per la scomparsa di se stessi. La Terra continuerebbe ad esistere come prima della “invasione extraterrestre” dei viventi e del resto se anche per ipotesi l’uomo dovesse letteralmente provocare una distruzione del pianeta, tale avvenimento equivarrebbe, per il nostro sentire immediato, ad un qualcosa di proporzioni cosmiche, eppure – come ben affermava Mao Tse Tung in tempi di minaccia nucleare – non avrebbe praticamente alcuna ripercussione sulla “quotidianità” dell’universo, e al massimo qualche riverbero si registrerebbe nel sistema solare. Dunque neanche questa è la strada giusta per approcciare la cattiva eredità.
Circoscriverei dunque enormemente, rispetto all’ampiezza delle sfere aperte sopra, la cattiva eredità. Credo che essa sia rintracciabile nella dinamica per cui l’uomo occidentale ha, peraltro in tempi relativamente recentissimi, di fatto costretto tutti gli altri uomini entro i suoi modelli di vita, e poco importa che proprio la culla di quei modi, l’Europa, sia oggi ampiamente superata sul suo stesso piano da altri popoli. Gli allievi – per quanto inizialmente allievi riluttanti – possono ampiamente superare i maestri. Subito dopo non possiamo però dimenticare la scomparsa e la marginalizzazione della biodiversità che questi modi di vita, diciamo a partire dalla rivoluzione industriale in poi, hanno crescentemente prodotto. Quante specie animali si sono estinte o sono in via di estinzione, e lo stesso si può dire delle specie vegetali? Inoltre se tutto ciò ha una ripercussione sull’uomo stesso, fino a che punto ci sentiamo di dire che non esiste alcun diritto degli animali e dei vegetali di esistere a prescindere dal beneficio che apportano all’uomo?
Come definisci l’umanità di oggi?
Relativamente ancora molto varia, malgrado la globalizzazione e a prescindere dalle sue crisi, ché probabilmente la crisi non è altro che uno stato permanente della globalizzazione, ad essa intrinseco, escluso magari soltanto il suo breve periodo “eroico”. La dividerei, cosciente di semplificare, almeno in tre fasce, intendendo bene però che non esiste una divisione netta e molti soggetti possono essere più o meno trasversali ad esse. La prima è composta dagli “opulenti”, nella quale – sia chiaro – mi metto anche io; da quelli che – almeno per ora – godono ancora di condizioni materiali di vita accettabili, per quanto abbiano mille motivi di frustrazione e non siano certo immuni dallo sfruttamento e dalla sopraffazione. Vi sono poi i “desiderosi di opulenza” quelli che – come si suol dire – vorrebbero vivere come noi, ovvero avere il riscaldamento, l’elettricità e l’acqua corrente, mangiare tutti i giorni e magari anche diventare sfacciatamente consumisti con l’ultimo smartphone in tasca, ma – almeno temporaneamente – sono impossibilitati a raggiungere questo status. Se da una parte non è dato a chi vive nell’opulenza di biasimare tali desiderosi – spesso già incamminati verso il proprio desiderio -, il mio sospetto è anche che, d’altra parte, data la distruzione delle loro società tradizionali, non sia rimasto loro da desiderare nient’altro, che ne siano coscienti o meno. Infine ci sono appunto coloro che, per quanto non certo “selvaggi incontaminati”, sono ancora in buona parte legati ai modi di vita non occidentali. Se l’opposizione alla deforestazione – tanto per formulare un esempio lampante – divide “opulenti” ed “opulenti” e una parte di essi sostiene che è facile essere contro la deforestazione quando si vive in una metropoli e si lavora nel terziario avanzato, mentre è uno schiaffo agli altri “desiderosi” di svilupparsi, la deforestazione può essere anche uno schiaffo, forse ancora più forte, ai “tradizionali”. La loro aspirazione a preservare i loro modelli di vita è forse meno rispettabile di quella di coloro che aspirano agli standard “occidentali”?
Ribadisco che queste tre fasce non esistono praticamente mai allo stato puro, pur essendo per me efficaci astrazioni per illustrare per grandi linee quello che credo sia il volto proteiforme dell’umanità del 2022. Parimenti non esistono o quasi paesi la cui totalità degli abitanti sia decisamente incasellabile in una e una sola di esse.
C’è speranza di una ripresa e come?
Confesso che se mi metto ad immaginare un futuro relativamente prossimo tendo vederlo in maniera radicalmente diversa a distanza di pochi giorni se non di poche ore, magari a seconda delle suggestioni che più prevalgono in quel momento in me. In realtà credo di aver capito che non necessariamente solo talvolta sono più vicino a quello che verrà mentre altre volte sono totalmente fuori strada. Il panorama del futuro potrebbe essere, in altre parole, pieno di contrasti e contraddizioni, o almeno di situazioni apparentemente tali. Le inondazioni sempre più frequenti, le desertificazioni sempre più avanzate, le pandemie sempre più pervasive potranno infatti tranquillamente – e persino “naturalmente” – convivere con una gestione ipertecnologica di esse, laddove gestione non significa affatto di per sé risoluzione o anche solo attenuazione del danno. Anzi l’ipertecnologia potrebbe essere foriera di ulteriori danni futuri. È un po’ il discorso che fa Ivan Illich sulla iatrogenesi, solo che dal campo medico-sanitario va generalizzato agli altri campi, per quanto ogni questione oggi più che mai sia impensabile senza un quid di afferente al medico-sanitario. D’altra parte tale generalizzazione è perfettamente coerente col discorso illichinano, dato che esso trova meno la genesi in un campo specifico che in una intuizione generale che poi viene ricondotta ai differenti campi, portandolo a formulare così un discorso simile anche per la scuola, per il lavoro…
In realtà – mi accorgo ‒ il futuro che sto disegnando non è neanche troppo diverso dal tempo che già viviamo, solo sto prevedendo una radicalizzazione delle contraddizioni. Ma non è forse questo il limite – o se vogliamo la peculiarità – di tanti film e romanzi fantascientifici – spesso e volentieri ad alto tasso di distopia ‒, i quali – come si constata a distanza di decenni – finiscono per descrivere molto più il loro tempo e illuminarlo di una luce inedita di quanto facciano circa il tempo futuro?
Va da sé che tale prospettiva – e tale attualità – tenda a piacermi poco, tuttavia per immaginare una “ripresa” è necessario immaginare delle soggettività che si facciano protagoniste di essa. Il primo presupposto è l’insoddisfazione, ma se questa è condizione necessaria di certo non è sufficiente. Un tempo non lontano si parlava di “droga di Stato”. Oggi vedo più droga che Stato, e mi spiego: lo spazio dello Stato – che dovrebbe rappresentare molto in teoria il bene pubblico, ma in un’ottica non solo anarchica, ma anche marxiana non è certo così – è in quest’ultimo ventennio costantemente eroso dai grandi colossi del cosiddetto “capitalismo della sorveglianza” (Shoshana Zuboff). Noi non nativi digitali tendiamo di fatto ormai a percepire un certo motore di ricerca e certi social alla stessa stregua dell’aria, come gratuità che è sempre esistita, avulsa da rapporti di potere e da questioni di business. Se questo avviene tra i non nativi, figuriamoci tra i nativi… Non dico, naturalmente, che questi siano peggiori dei loro genitori e nonni, tuttavia sommano all’assuefazione dei più anziani non solo una assuefazione ancora più profonda, ma anche difficoltà più marcate a mantenere l’attenzione, a scrivere in maniera “tradizionalmente corretta”, a comprendere testi complessi. D’altra parte il loro mondo è fatto di linguaggi altri di cui noi over 30 non possediamo i codici di accesso. Linguaggi certo più legati all’immagine istantanea e alla espressione brevissima, ai limiti della correttezza grammaticale. Da tale humus può nascere un nuovo mondo più giusto, egualitario, democratico? Se ai miei occhi appare improbabile perché il “loro mondo” è in realtà un mondo la cui proprietà e gestione sono saldamente in mano ad una oligarchia, peraltro tanto più insidiosa quanto invisibile – come l’aria appunto –, che se da una parte conosce i nostri pensieri e i nostri affetti e proprio nell’esplicarsi di essi consolida il suo (bio)potere, è anche vero che i miei occhi sono irrimediabilmente lontani dal poter godere di quei codici di accesso di cui sopra, e pertanto potrebbe esistere una zona vastissima sulla quale io non leggo altro che “Errore 404 Not Found”, ma indossando gli occhiali appositi potrei scorgere tutt’altro.
Parliamo ancora del tuo Terrestri d’adozione. Dice Gino Rago in La sfida al labirinto che introduce il volume, «Stefano Taccone supera d’un balzo gli steccati poetici del ʼ900. Nei versi che si succedono con una inconsueta omogeneità stilistica […] non vi sono né echi né tracce di futurismo, di crepuscolarismo, di esperienze vociane o rondiste». Insomma, non ci sono i canoni del ʼ900. E allora puoi dirci qual è il canone della tua poesia e se si aggancia ad un canone ‒ se è individuabile ‒ degli anni 2000?
Beh, intanto mi va di esprimere la soddisfazione per la (presunta) lontananza della mia poesia dai canoni del ʼ900, perché se così fosse lo vedrei già come un enorme riconoscimento della qualità di quello che faccio. Naturalmente Gino Rago ha ben altri titoli rispetto a me per dirlo e dunque non dovrei neanche pormi il dubbio. Tuttavia viviamo in un tempo in cui ci pare che dal ʼ900 non si riesca mai ad uscire, e non solo relativamente ai linguaggi artistici. Per molti viviamo incatenati ad un secolo che è sembrato breve prima di finire (Eric Hobsbawm), ma che sembra lungo, in quanto di fatto non ancora chiuso nel suo spirito anche se terminato sul piano cronologico ormai da quasi un quarto di secolo.
In realtà io non credo tanto, su un piano storico generale, che questo XXI secolo somigli troppo al XX, e circa la dissimiglianza basterebbe considerare quello che ho scritto sopra sulle oligarchie del capitalismo digitale e sui suoi nativi. Più difficile è per me articolare il discorso quando ci si volge al caso specifico della poesia. Forse perché sono ben lungi dal possedere un quadro che possa ritenere sufficientemente esauriente della poesia degli ultimi vent’anni – anche solo della poesia italiana – e come potrei visto che, come tu sai benissimo, che alla poesia in maniera più sistematica mi sono avvicinato relativamente da poco continuando peraltro a coltivare tanti altri interessi? Vi è poi un fattore più oggettivo che, al netto della mia non conoscenza, non sottovaluterei: è sufficiente una approfondita conoscenza della storia della poesia con particolare riferimento all’ultimo ventennio per poter davvero pensare di individuare un canone degli anni 2000? Non occorrerebbe forse una maggiore distanza storica, tanto che forse questo canone sarà più facilmente leggibile per gli uomini del secolo XXII?
La mancanza di distanza, questa volta prima di tutto psicologica, oltre che storica, è il motivo per cui pure stento a parlare di un canone della mia poesia. Posso soltanto delineare alcune modalità ed intenti attraverso i quali la pratico ‒ come ho già fatto in parte sopra ‒, nonché elencare spunti extraletterari che nella mia poesia confluiscono ed attraverso la mia poesia elaboro: dal farfugliare da bar alle ricette per il benessere trovate su un calendario di una farmacia, dagli slogan (anti)politici alle manfrine da social, dal linguaggio della burocrazia scolastica a quello del tempo pandemico. Naturalmente attingo anche a spunti più propriamente letterari, ma nell’uno e nell’altro caso non è mai semplice citazione; piuttosto tentativo di far slittare il significato originario, usare – in altre parole – le stesse unità costruttive per costruire oggetti differenti, benché non necessariamente in polemica con quelli originari, facendo sì che parte del significato scaturisca proprio dallo scarto tra l’uso per il quale sono stati pensati e l’uso al quale li costringo.
Oggi il compito della poesia sembra un’autocelebrazione. Sembra che i poeti non abbiano più nemici da contrastare. Troppi poeti della domenica. E tu che poeta sei? Quanto prendi sul serio la poesia?
Ancora una volta non riesco a non partire dal problema dei social per prendere per le corna il toro scatenato dell’autocelebrazione. Mi rendo conto di quanto l’immagine oggi conti sul piano dell’attrattività, e tanto più il selfie può essere una immagine attrattiva. D’altra parte essa, con il suo supporto sempre più effimero, costituisce anche una sorta di negazione della poesia come monumento più duraturo del bronzo di oraziana memoria. Non biasimo insomma in assoluto chi posta proprie poesie associate ad un selfie o anche ad una immagine più o meno acchiappa-like. Solo che così facendo non sai mai quanti apprezzano davvero la tua ricerca poetica e quanti viceversa mettono un mi piace semplicemente all’immagine, più immediatamente consumabile, ma anche assai meno “sostanziosa” per la mente e per il cuore. È ormai ampiamente accertata la relazione tra i like e la dopamina, tuttavia ci interessa più la sensazione epidermica e sempre bisognosa di rinnovamenti e conferme di essere largamente stimati oppure ci interessa intercettare un numero magari inferiore di persone – anche assai inferiore – che però sia veramente interessato ad immergersi nel nostro mondo poetico con la necessaria calma e dedizione che si deve alla poesia che abbia almeno un briciolo di valore?
D’altra parte i “poeti della domenica” – nel senso negativo del termine perché mi pare di ricordare anche una accezione positiva di poeti, e pittori, della domenica, allorché li si intende certo non solo fuori dai circuiti ufficiali, ma anche carenti di bagaglio tecnico eppure proprio per questo capaci di generare spinte di rinnovamento che da soggetti un po’ più canonicamente formati non sarebbero mai pervenute in quei termini specifici; pensiamo in pittura ad Henri Rousseau! – per me sono un problema fino ad un certo punto. Mi sono tolto da tempo l’ossessione per tali poeti, così come mi sono tolto quella per gli autori acclamati perché semplicemente costruiti per il successo. La mia dimensione è un’altra e un attacco frontale non può che rafforzarli. Bisogna invece contrastarli in maniera laterale, se non proprio obliqua. Nel concreto, il migliore antidoto al successo spettacolare – grande nei numeri, ma profondo quanto un pantano – è perseverare nel rigore della propria ricerca, cercando di sfuggire alle sirene delle vie larghe, ma anche a quelle della polemica tutta incentrata su di un mainstream che lascia il tempo che trova, ovvero molto poco. Conoscere sì; impelagarsi no. La vita è breve ed ogni singola stilla di tempo e salute è preziosa più dell’oro.
In questo periodo di pandemia e di “arresti domiciliari” forzati, quanto ti ha aiutato la poesia e in che modo?
Beh, la pandemia dura da oltre due anni e non mi pare che sia finita, benché non graffi più come nei primi tempi. Durando da così tanto tempo il mio rapporto con la poesia in pandemia ha avuto fasi alterne. Durante il primo lockdown, quello della primavera del 2020, che ho trascorso a Milano in estrema solitudine, la poesia mi ha aiutato non poco. La nuova, per certi versi difficilmente leggibile situazione, è stato alimento per alcune poesie che sono confluite nell’ultima sezione di Terrestri d’adozione. Ogni singolo aspetto della nostra vita per mesi e mesi è stato radicalmente condizionato dalla pandemia e mi è parso chiaro relativamente presto che il mondo che uscirà dalla pandemia – nel bene o nel male – non sarà più il mondo che nella pandemia è entrato. Senza quest’ultima sezione, Coronavita, credo che la mia raccolta non avrebbe in definitiva conseguito la capacità di presa sull’attualità sulla quale si fonda la mia poesia. Non stento a mettere in chiaro che non vedevo altro modo per salvare una raccolta di poesie in buona parte concepita in condizioni storiche differenti.
Non è stato così invece il tempo del secondo lockdown, quello dell’autunno 2020. Allora, probabilmente per tutta una serie di congiunture soggettive ed oggettive, anche il lume della poesia ha finito per smorzarsi, benché temporaneamente. Così se qualche mese prima la poesia mi aveva aiutato ad alleviare la durezza del tempo pandemico, ora a quest’ultima si aggiungeva la sofferenza della stitichezza creativa. A cosa era dovuta? Ho parlato di una molteplicità di cause, ma quella più specificamente legata alla pandemia credo fosse prioritaria ed è molto semplice: non sempre e non solo la poesia è il prodotto di una (apparente) autogenerazione; alla lunga la povertà delle esperienze porta all’inaridimento; c’è bisogno di uscire, confrontarsi con persone, guardarle in faccia… Nel primo lockdown avevo ancora in corpo la “benzina” della normalità prepandemica; con il secondo lockdown il mio serbatoio è rimasto a secco e ci è voluto un po’ perché si riempisse nuovamente. Già dagli inizi del 2021 mi sono però sentito lentamente, ma crescentemente meglio.
Qual è il tuo rapporto con la politica, con l’ambiente, con i problemi di tutti i giorni?
Credo che chiunque abbia letto almeno qualche brano di un qualsiasi mio libro, sia esso di argomento storico-artistico, narrativo o di poesia, o anche solo stando alle risposte precedenti, si sia già formato almeno una vaga idea del mio approccio politico. Non dico che personale e politico coincidano perfettamente, come vorrebbe un vecchio adagio, ma certo in me si compenetrano costantemente. La questione ambientale mi pare oggi tanto centrale quanto mistificata proprio nella misura in cui è posta al centro del discorso politico mainstream. A momenti persino criticare il greenwashing rischia ormai di ribaltarsi in parte integrante delle strategie di greenwashing, che non sono più tanto e solo quelle delle aziende, ma anche quelle dei politici, dei cosiddetti “grandi della terra”. La galassia altermondista – ammesso che si possa parlare ancora in questi termini date le enormi divisioni e i drammatici arretramenti – sembra messa sotto scacco da tale situazione, così come un altro filo scoperto – a dir poco – è dato dalla colonizzazione dei grandi oligarchi del capitalismo delle piattaforme – sui cui mi sono soffermato sopra – che ha interessato ampiamente anche i movimenti che teoricamente dovrebbero trovare in esso il nemico numero uno. Un tempo relativamente non lontano, quello del web dei pionieri degli anni novanta ed almeno fino all’11 settembre – che segna per ovvi motivi anche in questo campo una frattura radicale – i movimenti altermondisti sapevano davvero usare i nuovi media a loro vantaggio ed in maniera creativa. Pensiamo al fenomeno di (anti)globale Indymedia, strettamente legato all’emersione del Popolo di Seattle (novembre 1999). Purtroppo quell’esperienza allo stato attuale appare archeologia elettronica.
Certo in passato, rispetto ad ora, sono stato più direttamente coinvolto in percorsi di militanza politica, benché gli impegni più strettamente culturali siano sempre stati per me preponderanti. Oggi, un po’ per il minore tempo a disposizione e un po’ per una certa sfiducia, non lo sono più da tempo. Credo tuttavia che l’agire politico primario si giochi proprio nella vita quotidiana: in quello che si fa potendo scegliere di farlo, ma anche in come si fa quello che si è prevalentemente costretti a fare. Cercare di calare i principi di eguaglianza e libertà nelle tue identità quotidiane è qualcosa per cui non esiste una formula simile a quelle matematica. Al massimo si può pensare a qualcosa di simile a delle “linee guida”, per quanto l’espressione mi piaccia poco. Queste linee guida tuttavia, a differenza di quelle che danno le istituzioni statali, vanno continuamente riscritte – in maniera talmente continua che probabilmente è impossibile porle materialmente nero su bianco. Inoltre ciascuno può tranquillamente plagiare – nel senso lautremontiano del verbo – le proprie linee guida da ogni fonte possibile, ma il plagio non è copia conforme e quindi queste linee guida sono infine qualcosa di unico per ciascuno.
E a proposito di ambiente. Sembra, come non mai che in questo ultimo decennio, l’uomo e la natura siano in conflitto. È pur vero che l’uomo distrugge o trasforma qualsiasi cosa quando si tratta di trarne benefici economici. Cosa pensi dei movimenti pro-ambiente del tipo quello che sfrutta l’immagine di una ragazzina, cioè Greta Thunberg, anche se con la pandemia del coronavirus per ora è scomparsa dalla circolazione?
Non vedo di cattivo occhio Greta Thunberg e tutto il movimento che più o meno gravita intorno a lei. Credo fondamentalmente alla sua sincerità. Le ho anche dedicato una poesia, prima uscita a inizio 2020 su Poetarum Silva, poi ripubblicata in Terresti d’adozione. Risale dunque a prima della pandemia e a meno di un anno dalla epifania mondiale di Fridays For Future (15 marzo 2019). Il componimento è forse più curvato sull’aspetto umano, intimo della piccola Greta, che sulle implicazioni politiche, che naturalmente pure emergono. Ho cercato forse di scavare al di là della immagine spettacolare di lei, per quanto possibile, nella convinzione di essere di fronte ad una personalità non ordinaria. Tutto ciò al netto delle strumentalizzazioni a vari livelli di cui sono assolutamente consapevole.
Più che scomparsa durante la pandemia Greta, il suo movimento, le sue questioni sono state un po’ sommerse, ma sono poi appunto riemerse non appena la pandemia ha morso un po’ meno, un po’ come un fiume carsico. Piuttosto è l’attuale situazione internazionale, il conflitto ucraino, che sta mettendo in evidenza la debolezza non tanto dei movimenti contro il surriscaldamento climatico, ma la fragilità della volontà autentica dell’uomo contemporaneo di affrontare il problema. Se il surriscaldamento climatico è un’emergenza, ma lo schizzare in alto del costo dell’energia è “più emergenza” e quindi la salvaguardia dell’ambiente può aspettare, difficilmente andremo lontano. Sarebbe necessario imparare a vivere diversamente, abbattendo ogni consumo, ma tutto ciò non potrebbe che tradursi in una scandalosa ingiustizia se non accompagnato da un processo di redistribuzione radicale, più equa, delle ricchezze a livello mondiale? Ma quanti desiderano che tutto ciò avvenga davvero tra i quasi otto miliardi di abitanti di questo pianeta? E chi sarebbe in grado di portare a termine un tale obbiettivo con mezzi pacifici e democratici, senza spargimenti di sangue? Troppe aporie!
Alcune politiche se ne fregano se la natura viene incontaminata o addirittura privata della sua azione. L’esempio ci viene dalla scellerata politica brasiliana di Jair Bolsonaro che invece di opporsi al suo sradicamento per far posto a enormi spazi per costruirci i loro imperi, avalli tale sfruttamento. In passato la poeta Marcia Theophilo si è battuta tanto per la sua salvaguardia. Può la poesia oggi, in questa società globalizzata e liberista, dare una mano affinché la natura venga preservata e sottratta agli interessi economici delle multinazionali?
Purtroppo la poesia e le arti in generale, almeno quelle più interne al mainstream e che quindi arrivano ad un maggior numero di persone e sono in grado di influenzarle, tende fin troppo a caricarsi di contenuti impegnati, ma non è più l’impegno graffiante di un tempo. Essi non adoperano che un rivestimento superficiale, che modi esteriori dell’impegno che fu ma di fatto hanno solo la funzione di rendere simpatici i valori propagandati dai potenti della terra. Ecco perché credo che più ancora dei lupi dichiarati alla Bolsonaro siano da temere gli evangelici lupi che si travestono da agnelli. Quelli che dicono di voler salvare la Terra, l’umanità, addirittura la biodiversità, ma di fatto agiscono in tutt’altra direzione. Il caso italiano, con un Ministero della Transizione Ecologica – che innanzi tutto ha soppresso nei fatti quello dell’Ambiente – presieduto da un uomo della Leonardo – chissà cosa penserebbe il nostro illustre genio poliedrico… -, ovvero dalla terza azienda produttrice di armi in Europa, è emblematico.
Non si contano gli eventi culturali che fanno appello al valore dell’ambiente – praticamente tutti – o gli stessi artisti che si dicono sensibili a certe tematiche che però si contraddicono nello stesso momento in cui formulano le loro asserzioni, visto che operano puntualmente all’ombra di sponsorizzazioni a dir poco imbarazzanti. Certo credo che la poesia nello specifico sia ancora relativamente meno coinvolta in questo tipo di logiche, ma ciò avviene nella misura in cui resta appannaggio di un numero esiguo di simpatizzanti e di conseguenza impatta sulla coscienza mondiale molto poco. Per il grande pubblico il “poeta ambientalista” per eccellenza – diciamolo pure – è Franco Arminio, ovvero un autore dotato di una tecnica raffinatissima, ma più funzionale ad esiti di attrazione epidermica – che poi si traducono in successo commerciale – che corrispondente ad una poesia di qualità davvero elevata.
Qual è la tua impressione sulla poesia attuale in Campania?
Devo formulare varie premesse: oltre al fatto che mi sono avvicinato maggiormente alla poesia di recente la mia possibilità di rispondere soddisfacentemente a tale domanda è complicata dal mio essermi avvicinato alle soglie del periodo pandemico ed anche di averlo fatto quando ormai mi ero trasferito a Milano. Attendo dunque ancora di vivere per un tempo congruo la poesia campana nella “normalità”, sempre che questo tempo arrivi. Di conseguenza non posso che rispondere per cenni, magari formulando anche un confronto con l’ambiente lombardo e milanese in particolare.
Nei reading in ambito lombardo ho sempre trovato una certa predilezione per una poesia più pacata e austera, un’atmosfera che, se dovessi avanzare un paragone geologico, paragonerei ad un ruscello turbato dalle onde molto blandamente. Nei reading in ambito campano invece prevale una poesia scoppiettante, teatrale, paragonabile ad un vulcano che esplode. Mi rendo conto che questa descrizione rischia di somigliare alla peggiore oleografia, tuttavia fotografa in maniera abbastanza fedele quella che è la mia esperienza fino ad ora. La mia esperienza appunto; non la realtà oggettiva di un critico che faccia un lavoro metodico in tal senso. D’altra parte se mi sento più vicino poeticamente – e spiritualmente – ai modi campani, non significa che io non sappia apprezzare e prendere il buono – o almeno lo spero – anche da quelli lombardi.
Hai trovato o trovi difficoltà con l’ambiente letterario in cui vivi e col rapporto con i tuoi “colleghi” campani?
In parte devo rimandare alla risposta precedente per quanto riguarda la mia impossibilità di vivere a pieno l’ambiente letterario ed in particolare quello campano. Alcuni dei nomi campani con cui ho un rapporto importante sono stati da me già ricordati nella risposta sui ringraziamenti. A questi magari aggiungerei qualche altro nome con cui ho minori rapporti diretti sul piano personale – almeno per ora ‒, ma che ascolto, leggo ed apprezzo. Rigorosamente in ordine alfabetico nomi di età varia – qualcuno anche non residente in Campania – e pure molto diversi stilisticamente tra loro: Biagio Cepollaro, Francesco Forlani, Vincenzo Frungillo, Federica Giordano, Mimmo Grasso, Costanzo Ioni, Ketty Martino, Antonio Perrone, Eleonora Rimolo, Angela Schiavone, Antonio Spagnuolo, Ferdinando Tricarico, Giuseppe Vetromile. Non posso infine non dedicate un pensiero alla cara Maria Giovanna Assumma, che ci ha lasciati da poco.
A quale dei due volumi di poesia sei più affezionato e per quali motivi?
Sono due volumi che non sono usciti a distanza di molto tempo, eppure sono molto diversi. Alienità esce a fine 2019 ma raccoglie un dilatatissimo lavoro che comincia almeno nel 2014. Terrestri d’adozione esce ad inizio 2021, ma raccoglie una produzione densissima, vulcanica, che non riuscivo a fermare. Il primo è di una essenzialità che è la rappresentazione plastica dei miei dubbi, dei miei tentennamenti, delle mie esitazioni ad uscire fuori e per un pelo non è rimasto ancora nel cassetto. Il secondo raccoglie poesie molto più vicine al mio modo un po’ eccedente di scrivere adesso, conseguenza del mio definitivo sblocco. Se insomma quest’ultima rappresenta la mia provvisoria attualità, la raccolta di esordio è per me comunque preziosa per il suo carattere di unicità, nel senso che mi sembra impossibile che tornerò a scrivere componimenti così brevi e stringati, quasi epigrammi, però mai dire mai.
E della poesia degli altri chi ti ha dato o ti dà una ragione per continuare a fare il poeta? A tal proposito, quali parametri, quali canoni deve avere la poesia per farsi “comprendere” da una società culturalmente alla deriva?
Per quanto riguarda la poesia degli altri sicuramente ci sono i nomi che ho elencato in precedenza nella risposta sui ringraziamenti e sulla Campania. Potrei aggiungerne altri nomi di non campani viventi, ma temo di dimenticarne troppi. Meglio puntare su qualche nome non vivente, visto che i morti non si offendono. Stando solo all’ultimo secolo e agli italiani potrei fare nomi diversissimi ed antitetici, magari neanche troppo contenti – se potessero parlare – di essere messi nello stesso novero: da Sergio Corazzini a Edoardo Sanguineti, da Francesco Cangiullo ad Elio Pagliarani, da Eugenio Montale a Nanni Balestrini. Se invece provo a tirare fuori la poesia di tutti i tempi e di tutti i luoghi senza cercare di essere troppo ordinato potrei dire dai vari libri in versi della Bibbia a Giulio Cesare Cortese, dai grandi tragediografi greci a Michelangelo Buonarroti, dalla lirica siciliana a Tristan Tzara ed Hugo Ball.
La domanda sui parametri invece mi lascia un po’ spiazzato. Forse mi ripugna indicare una sorta di canone generale. Non che tu mi chieda questo, ma considerando una domanda del genere la prima reazione è di paura di scrivere qualcosa che un secondo dopo scoprirei essere una maldestra indicazione di regole rigide ed asfittiche. Dico solo questo allora. Amo una poesia sporca, impura, bastarda, odorosa dei cattivi profumi delle vite imperfette. Trovo tutto ciò sicuramente molto più confacente alle caratteristiche della società che evochi. Eppure confesso che talvolta balena in me anche un debole per un gusto più classico e raffinato, benché con esso abbia un rapporto meno viscerale e lo ritenga appunto meno confacente all’esigenza di un “parlare democratico”. D’altra parte questo gusto mi attrae spesso proprio perché mi piace catturarlo, sabotarlo, farlo slittare attraverso la mia scrittura.
Si sa che molti premi letterari, direi il 90%, sono costruiti ad personam, per amici e con una tassa di lettura per leggere qualche testo. Secondo me da evitare quando sono fini a se stessi, senza una programmazione e diffusione che, quando c’è, si limita a coinvolgere solo il vincitore. Hai mai partecipato ad uno di essi e che opinione ti sei fatto, quale beneficio ha arrecato alla tua poesia?
Darò una risposta secca: mai partecipato. C’è però anche un altro motivo oltre a quello molto pregante che sollevi. Sono freddo proprio verso l’idea in sé di premio letterario, e forse proprio su quella di premio in sé. Sarà anche per questo che non amo gli sport. Intendiamoci: rispetto chi organizza e vince premi letterari qualora ci sia sostanza. Faccio i complimenti a tutti gli amici che li vincono. Però mi tengo lontano da essi. Credo che i più grandi premi non siano quelli ufficiali e roboanti. Credo ai premi che si consumano nel silenzio, ai premi che si godono senza che vengano proclamati. Ma quei premi li elargisce solo la vita con le sue contingenze, e non sono programmabili. C’è stato in passato e forse c’è ancora chi non pubblicava come scelta politica, così come artisti visivi che non vendevano – e talvolta neanche esponevano – come scelta politica. La mia è una scelta etico-politica, anche se ciò non significa che io ritenga che coloro che sono implicati con i premi siano da ritenersi inferiori a me o peggio ancora che debba mandagli degli anatemi. Del resto neanche le scelte etico-politiche sono necessariamente definitive. Può darsi che in futuro sia portato a fare altre considerazioni ed a rivedere questa posizione che può apparire rigida ma per me è solo netta e relativamente anomala nel panorama dell’autorialità.
Oggi con la crisi dell’editoria, pubblicare un volume non è semplice: le grandi case editrici non ti filano se non sei legato alla politica o a risorse economiche; per di più le piccole ti chiedono contributi economici, spesso esosi. Hai riscontrato difficoltà editoriali durante il tuo percorso, ti hanno mai chiesto denaro per pubblicare?
È ovvio che se si pubblica avendo aspettative incongrue rispetto a ciò che presumibilmente avverrà si può andare incontro a delusioni cocenti. Io ho pubblicato ma ho sempre considerato ogni singola persona che era incuriosita dalle mie raccolte come un fatto prezioso e tutt’altro che scontato, tanto più se si trattava di poeti di una certa esperienza e da me apprezzati o se si prendevano la briga di scrivere anche solo qualche riga di commento. Non sento di raccontare di aver mai riscontrato grandi difficoltà. Forse perché avevo già fatto il callo con pubblicazioni in altri ambiti, forse perché tengo al rispetto della mia identità di scrittore prima di tutto e se ho poco riscontro pazienza: non cambio una virgola pur di piacere un po’ di più! Ho acquistato alcune copie delle mie raccolte perché mi piace regalarle a chi sa apprezzarle oppure scambiarle con altri autori amici.
Cosa distingue l’uomo dal poeta?
Forse non c’è una linea netta, ma un confine poroso. La distinzione più vieta che si potrebbe avanzare è che sono poeti solo gli uomini che scrivono poesie. Io però attribuisco grande importanza a quella attitudine che Paolo Virno in Grammatica della moltitudine (2001) definisce virtuosa. In altre parole, un fare senza lasciare residui (opere). Anzi dico di più: potrebbe esserci un fare che non solo non produce nulla di duraturo, nel senso oraziano del termine, ma neanche si dà a vedere. Un giorno al Parco Virgiliano, dopo un reading, una poetessa campana della mia età, Giuseppina Dell’Aria, mi allertò sul fatto che non tutti i movimenti del nostro corpo riguardano la sua parte esteriore. Molti avvengono anche al suo interno, e non solo quelli involontari. La stessa cosa vale ancor più per l’anima. Come facciamo dunque a dire che chi non scrive poesie nel senso più comune della parola non sia un poeta? Conosciamo forse i più reconditi sentieri della sua intimità? Ma se neanche lui può conoscerli in pieno, come possiamo noi?
Cosa ti fa paura nella vita e nel mondo artistico?
Non ho troppa paura della morte, almeno per ora. Non ho paura degli insuccessi sul piano artistico-letterario. In parte condivido il rovesciamento situazionista per cui le vittorie che mi potrebbe attribuire la società spettacolare sono in realtà delle sconfitte e viceversa. Un rovesciamento che, va detto, ha un retroterra molto cristiano, per quanto i situazionisti probabilmente non ne fossero abbastanza consapevoli.
Ho paura della burocrazia. Il compianto antropologo anarchico americano David Graeber nel suo libro Bullshit Jobs (2018) sostiene che ciò che è più spiacevole in assoluto per l’uomo non è la fatica in sé, ma una fatica cui non riconnette un senso, un fine – anche questo è un pensiero sotterraneamente cristiano, detto per inciso. Sento la burocrazia pervadere sempre più la mia vita e credo che pervada molta parte del mondo, almeno quegli individui appartenenti ad una classe sociale più o meno prossima alla mia. Certo forse meno un minatore che vive dall’altra parte del mondo, eppure – fatte le enormi differenze tra me e lui – potrebbe accomunarci il senso di non senso di ciò che viviamo.
In questi tempi la guerra schizza verso l’alto tra le nostre paure medie. La guerra ha forse un senso troppo duro da accettare come tale. Pensare che sia un non senso è persino terapeutico. Senza la protesta contro il non senso della guerra non comprenderemmo il non senso del Dada.
Mi fa paura infine il distanziamento sociale inteso non tanto come strategia del contenimento di una pandemia, quanto come addurre la pandemia o altro come pretesto per procedere ad una monadizzazione radicale. Del resto le parole, come dice Nanni Moretti, sono importanti. Perché fin dal primo momento, fin dalla coda della prima ondata, si è cominciato a parlare di nuova fase come connotata dal distanziamento sociale e non da un semplice distanziamento fisico?
È risaputo che al giorno d’oggi si legge molto poco; gli autori, che siano poeti o narratori o saggisti, a giusta ragione si lamentano di questa inedia. Tu quanto tempo dedichi alla lettura, e quanto alla scrittura?
Molto meno di quanto vorrei dedicare ad entrambe, a causa degli impegni di lavoro e “pratici” in generale. D’altra parte il mio lavoro e tutto ciò che dobbiamo fare per necessità è sovente una fonte di ispirazione per nuovi scritti, nuovi temi, nuovi argomenti, nuovi linguaggi, stimolo ad esplorare territori in cui altrimenti non ti saresti avventurato. Parimenti è un impulso ad abbracciare nuove letture che prima non erano tra le mie priorità.
Qualche esempio? Beh, il mondo della scuola è assai presente nella mia narrazione e nei miei versi, ricorre continuamente. Non avverrebbe così se non facessi il docente. Se non avessi patito le file chilometriche, i mezzi pubblici dove stai tipo sardina – anche in tempi di “distanziamento sociale” -, gli stessi disagi connessi alla pandemia etc. molte delle pagine che ho scritto sbiancherebbero all’istante.
Sul versante della lettura è lo stesso. Quest’anno sto insegnando in due scuole della Lomellina, una a Vigevano ed un’altra a Mortara. Se non ora quando leggere Il maestro di Vigevano (1962) di Lucio Mastronardi, ma anche il meno conosciuto Il meridionale di Vigevano (1964)? Mentre scrivo mi manca però ancora uno dei romanzi della trilogia, con il quale peraltro tutto è cominciato, Il calzolaio di Vigevano (1959).
Qual è l’ultimo volume che hai letto? Ti ha ispirato qualcosa?
Non è mai facile per me stabilire quale è l’ultimo libro che ho letto perché di solito accavallo due saggi ed un romanzo ma non disdegno di intervallare frequentemente tale andamento con della poesia, naturalmente. Però mi impongo appunto un limite: mai accavallare romanzi e mai accavallare più di due saggi, altrimenti i fili si attorcigliano.
Visto che ho citato Mastronardi mi soffermerò appunto sui due libri di fresca lettura di cui dicevo sopra. Immergersi nello spirito dei posti che non hai scelto ma in cui ti sei trovato ti aiuta a viverli meglio. Ti aiuta a conoscerli, affrontarli e persino ad apprezzarli, se non ad amarli tra qualche lacrima. Mi piace guardare i papaveri che fioriscono ai bordi delle strade di questi tempi in quei luoghi, così come mi piace guardare le oche che camminano libere tra quegli stessi prati che generano i papaveri, cercando di non pensare al fatto che le oche faranno una brutta fine. Il salame d’oca è assai rinomato da quelle parti.
La medesima attitudine animica mi ha condotto a leggere quei libri. Il maestro è decisamente più scorrevole e gradevole correndo lungo una trama ben distinta dalle altre microstorie e generando continue attese e disattese. Il quadro finale è terrificante, ma io credo nella catarsi aristotelica. Il meridionale è più sfilacciato e più faticoso da seguire, anche perché, a dispetto del nome, è pieno di dialoghi dialettali. I dialetti mi piacciono. Quello di quelle parti mi appare particolarmente gradevole. Ma quando non lo padroneggi fai fatica.
In generale è stato osservato che Il meridionale, rispetto a Il maestro, paga lo scotto di una più problematica identificazione tra l’autore e l’io narrante, visto che Mastronardi era davvero un maestro, ma meridionale (abruzzese) solo per via paterna. Pertanto è stato per me più toccante viaggiare nel mondo della scuola di settant’anni fa – per quanto non sia il mio grado di scuola – che nella condizione del meridionale a Vigevano nel medesimo periodo. Ho cercato di individuare i tic, le idiosincrasie, le deformazioni che ancora oggi pervadono il mondo della scuola in quei territori e non solo, ma anche ciò che era più valido prima rispetto ad adesso. Ciò che allora rappresentava i tratti più evidenti della scuola e della società in genere – e in parte specificamente di quel luogo – e ciò che invece allora era ancora in nuce ed oggi è venuto fuori chiaramente.
Non so ancora dire se e quanto tali letture influiranno nella mia scrittura. Sicuramente mi hanno fatto molto riflettere.
Cosa ne pensi dei libri digitali? Possono competere con l’editoria tradizionale, cioè con quella cartacea?
Non possiedo libri digitali, se con essi si intendono gli ebook. Ciò dipende senz’altro dalle forti resistenze che ancora ho verso l’uso della tecnologia. Resistenze di pancia in questo caso, prima ancora che resistenze teorizzate. Se ci sono testi interessanti di una certa lunghezza preferisco leggerli stampati. Sarà anche che non ho gli apparecchi adatti per leggere libri digitali e che al computer gli occhi si stancano. Mi dicono che esistono dispositivi che eludono questa stanchezza, ma mai sperimentato. So anche che sono in dirittura d’arrivo lenti che permetteranno di lenire la tipica stanchezza da sguardo sul computer. So però, d’altra parte, che queste lenti servono innanzi tutto a chiedere – imporre – più lavoro cosiddetto immateriale.
Non so se attualmente possono competere con l’editoria cartacea, ma credo che la direzione verso una destituzione dell’editoria cartacea da parte di quella digitale sia segnata, anche se non sarà un percorso perfettamente lineare e non possiamo prevedere i tempi precisi. Sicuramente nel campo delle riviste e dei quotidiani ciò è già assai più palpabile. La stessa televisione, almeno nelle forme in cui è nata ed ancora in buona parte resiste, potrebbe non esistere più prima o poi. Basta guardare il comportamento dei giovanissimi che non solo la guardano poco, ma, anche se la guardano perché trasmette qualcosa che interessa loro particolarmente, preferiscono il podcast in differita piuttosto che lasciare quello che stanno facendo per trovarsi davanti alla televisione in un orario stabilito.
Se tutto ciò è un bene o un male è una questione che si riallaccia a riflessioni che ho formulato anche sopra. Ho forti dubbi che digitalizzazione in quanto abbattimento dei costi possa assimilarsi tout court ad una democratizzazione. Certo: la digitalizzazione implica un abbattimento dei costi e il fatto che sempre più persone possano pubblicare ciò che scrivono. D’altra parte però quanti libri digitali saranno pubblicati solo in potenza, senza avere lettori o quasi? E la concentrazione delle ricchezze che avviene a livello globale come può non tradursi in una polarizzazione delle letture? Sempre meno autori con sempre con sempre più lettori e sempre più autori con sempre meno lettori. Ma questo non è quello che sta già avvenendo?
Cosa salveresti della Napoli letteraria odierna e cosa butterebbe dalla torre? Dacci anche delle spiegazioni, se ti è possibile.
Rimando in parte alle risposte di prima, a cominciare dalla necessaria premessa che io non ho mai vissuto la Napoli letteraria da quando ho cominciato a pubblicare racconti e poesie, dato che abitavo già a Milano. Questo mi impone una estrema prudenza nel discuterne. Per quanto riguarda ciò che salvo sicuramente una comunità di poeti – e narratori – alcuni dei quali molto validi, benché spesso magari non troppo letti e noti, ma un po’ è segno di questi tempi e un po’ è segno di tutti i tempi.
Se invece devo pronunciarmi sul buttare dalla torre premetto che così, a pelle, non sono troppo a mio agio con questa immagine. Forse sono un po’ troppo delicato, ma mi rimanda ad un qualcosa di troppo violento, e la violenza in questo momento – senz’altro per le contingenze storiche – mi tocca più che mai negativamente. D’altra parte comprendo anche la forza della metafora e non intendo passare come un fautore della cancel culture con venature pacifiste.
Dunque facendo memoria del mio vissuto culturale napoletano e di ciò che mi infastidiva – e mi infastidisce – direi che mi piacerebbe buttare dalla torre quel provincialismo travestito da cosmopolitismo – in realtà al massimo globalismo ideologico, esterofilia acritica – per cui quasi tutto ciò che viene da Napoli è un “pezzotto”, se non una schifezza, mentre tutto ciò che viene da sopra Roma, dalla mitica Europa, dagli Stati Uniti, ma ormai anche da molti paesi extraeuropei – benché opportunamente edulcorato attraverso filtri entocentrici – è una gran cosa. Può sembrare uno sparare nel mucchio senza troppe distinzioni. Infatti tutto ciò non è certo un qualcosa che accomuna tutti i napoletani e tutti i soggetti della Napoli culturale. Ma una critica che appare generalizzante non è che l’effetto collaterale dell’aver preso ad oggetto di critica un qualcosa che tende di per sè proprio alla generalizzazione. D’altra parte tale tendenza ha il suo solo apparentemente incoerente risvolto nel sovrastimare alcuni napoletani sia quanto a meriti oggettivi sia quanto a considerazione extracittadina. Inutile dire che nell’uno e nell’altro caso la considerazione o meno è legata alla presenza di “sponsor” più o meno forti e affascinanti, ma tale aspetto rende già più geograficamente generale quello che ho descritto come un tratto tipicamente napoletano.
Oltre che di poesia, di cosa ti occupi?
Beh, direi che arrivati a questo punto mi viene più facile dare una risposta in forma negativa, elencando in un ordine più o meno aleatorio tutta una serie di campi e questioni di cui pure vorrei capire di più e per i quali spesso ho curiosità, eppure non ho mai avuto particolare dimestichezza con essi, né mi sono dato (ancora?) troppo tempo per svilupparla. Tanto per cominciare credo di essere un grande ignorante di musica ed anche di danza, almeno in confronto a quel poco che conosco degli altri linguaggi artistici. Le scienze cosiddette dure sono poi sempre state per me, fin dai tempi della scuola, un po’ un tallone di Achille. Non di meno cerco di penetrarvi a partire da interessi per me preponderanti come la politica – politica significa ecologia e come comprendere le questioni ecologiche senza il discorso scientifico? – e le stesse arti. La poesia medesima è impensabile senza il numerus, parola che in latino indica anche la nozione di ritmo.
Sembra che oggi la poesia non venga presa con la dovuta serietà, finendo per essere, in diversi casi, un “passatempo”. Tu quanto prendi sul serio la poesia?
Da una parte la poesia rischia di essere intesa come una sorta di dolce dopo il pasto, come la “domenica della vita”, per usare una espressione a me molto cara di Theodor W. Adorno, il quale viceversa sottolineava con forza che l’arte non è tale. Dall’altra però mi sento freddino anche di fronte alle derive seriosa della poesia, che forse è un altro modo, rovesciato, di non prenderla sul serio. Mi viene in mente il Dada e quanto il suo non senso vada inteso come una vigorosa rivolta morale contro l’assurdità di un tempo che parla di un progresso lineare ed illimitato, che si crede sul «promontorio estremo dei secoli», come si legge nel primo Manifesto del Futurismo, ma poi produce la Grande Guerra.
Non siamo forse in un tempo che possiede molte affinità con quello dei dadaisti zurighesi e della prima guerra mondiale? Nel mio piccolissimo sento la necessità di iniettare ironia, ai limiti talvolta del caustico – però ai limiti perché di cinismo ce n’è già troppo e non dimentico mai il monito guevariano a non perdere la tenerezza, ché è quella che ci rende belli ‒, nella mia scrittura, e forse tanto più in quella in versi cercando appunto di mimare, con la tendenza al parossismo e a fini demistificatori, la logica di un mondo che spesso diviene irrazionale perché vuole essere fin troppo razionale. Ma questo ha a che vedere anche con l’onnipervasività delle macchine: crediamo che le macchine ci facilitano la vita perché fanno per noi cose importanti, risparmiandoci tempo e fatica; in realtà tutto ciò fa presto a rovesciarsi in una competizione non dichiarata con le macchine sul loro stesso piano – rapidità, precisione, efficienza ‒, competizione che naturalmente è persa in partenza e in quanto tale potenzialmente letale per l’uomo.
Durante il tuo percorso artistico l’asse, come si evince dalla tua biografia, si è spostato anche verso l’aspetto narrativo. Sono due assi diversi o hanno una convergenza? Se sì, quale?
Assolutamente vi sono tante compenetrazioni, e ciò vale anche per la poesia, oltre che per la narrativa. Visto che però la domanda è specificamente sulla narrativa prendo ad esempio il mio ultimo – e primo – romanzo, Sertuccio (Iod, 2020). La seconda delle tre storie secondarie – perché poi ce n’è una quarta che incornicia le altre tre – è interamente ambientata nel mondo dell’arte contemporanea napoletano di una quindicina d’anni fa – ma anche tanti miei racconti e poesie sono costellati di riferimenti storico-artistici espliciti e forse più in generale improntate ad una sensibilità particolarmente visiva. Non di meno questo è solo l’aspetto più esteriore. Il romanzo è composto secondo una logica molto vicina a ciò che mi hanno insegnato le avanguardie storiche, benché forse lette in particolare con la lente dei situazionisti. Si pensi ai “ready made verbali” più disparati e più o meno dissimulati o “aiutati” che vanno dai classici della letteratura di autori europei e non a discorsi di politici, fino a canzoni più o meno recenti e poesie chip. Ecco: tutto ciò probabilmente è anche e forse ancor più appannaggio della tradizione dell’avanguardia letteraria, eppure lo spunto per scrivere in tal modo credo sia partito dallo stimolo dello studio nel versante artistico visivo delle avanguardie, in conformità con la mia formazione e le mie ricerche più specifiche.
Hai una ricetta per far uscire la poesia dallo stato comatoso in cui versa?
Beh, diciamo che prima ancora di indicare una ricetta bisognerebbe intendersi sulle cause all’origine di questo stato comatoso, e come sempre accade se ne troverebbero alcune più propriamente riconducibili alla specificità del momento storico ed altre più interne allo sviluppo della pratica poetica stessa, fermo restando che l’una e l’altra polarità si intersecano decisamente. Credo di aver accennato d’altra parte più volte ad entrambi gli ordini di cause: una società iper-burocratizzata, iper-razionale e insieme irrazionale, in una parola, parafrasando ancora i situazionisti, iper-spettacolare. Resto convinto che non sia affatto una credenza romantica il fatto che la poesia possa scaturire proprio nei contesti che più tendono a negarla, a sopprimerla, a soffocarla. Inoltre in un momento storico parimenti comatoso, o anche non comatoso eppure infiammato da passioni tristi, per non dire mortifere, la poesia non può non accogliere tali negatività, benché la sfida che essa ha di fronte stia proprio nell’additarle, magari anche assimilandole in maniera rovesciata, e non diventare un semplice fenomeno tra i fenomeni della distopia senza fine. Per un esempio un po’ più concreto rimando a quello che ho scritto sopra circa il mio mimare in maniera parossistica ed ironica certi pensieri e discorsi del presente attraverso la mia poesia, ma sono ben lungi dal proporre ciò come una ricetta.
In conclusione quali programmi hai in cantiere?
Credo che a domande del genere si debba rispondere sempre in maniera parziale, sia perché si tratta appunto di un cantiere, e non di un deposito, e i cantieri sono in continuo mutamento e sia perché è bello lasciare un pizzico di vaghezza onde accendere maggiormente la curiosità. Dunque sicuramente conto di far uscire una nuova raccolta di poesie di qui a non molto. Senz’altro ci saranno molti elementi di continuità con Terrestri d’adozione, ma anche delle radicalizzazioni – diciamo così – di certe attitudini che in quella raccolta erano solo minimamente sviluppate. Fino a che punto segnerà elementi di novità con la precedente raccolta forse è meglio lasciarlo dire a tempo debito ai lettori. Aggiungo solo che ai brani in versi vorrei abbinare anche alcune prose. Ho in mente inoltre vari nuovi romanzi, e qualcuno è in parte già steso. Quello che più probabilmente potrei decidere di tirare fuori si ispira alla lunga vicenda della pandemia – che peraltro non è finita – ma con un piglio più fantascientifico – se posso permettermi di usare questa impegnativa etichetta – che veristico, benché l’elemento satirico sarà come sempre importantissimo. Infine sto portando avanti la mia ricerca sulle avanguardie e le neoavanguardie e sono in stato più o meno avanzato nuovi libri e saggi anche su questo terreno. Il mio auspicio è, a proposito di quest’ultimo campo di ricerca, di muovermi sempre più trasversalmente tra le varie arti e in generale alle discipline, senza però mai rinunciare ad un punto di vista politico, nel senso più alto, baudelairiano, del termine.