Il poeta che andiamo ad intervistare è Raffaele Ragone, nato nel 1950 a Castellammare di Stabia (NA), vive a Ercolano (NA). Laureato in Chimica e specializzato in Strutturistica molecolare, ha insegnato, spesso su richiesta dei titolari dei corsi, e svolto ricerche in campo biofisico nelle due maggiori università di Napoli e, per un anno, nell’università di Berkeley in California. Dal 2007 cura il blog RaffRag’s Una Tantum, nato in origine con finalità divulgative e di commento, attualmente dedicato alla sua produzione letteraria corrente. Ha ricevuto premi e menzioni tra i quali “Lorenzo Montano” (2003 e 2006), “Alda Merini” (2012), “Salvatore Cerino” (2013), “Madre Claudia Russo” (2013 e 2015), “Akmàios” (2013), “Poesia a Napoli” (2018), “Aeclanum” (2018 e 2019). Ha pubblicato: La ruggine degli aghi (Manni, 2012); L’amaro delle noci (Guida editore, 2018).
Vorrei incominciare con una domanda del tipo: cosa cerchi nella poesia? Quali sono gli argomenti alla base?
Più che cercare, ricerco, non solo per deformazione professionale, l’espressione sintetica e compiuta del vissuto quotidiano, tentando di conciliare gli schemi classici con un linguaggio che si addentra nei temi della modernità, della scienza, degli affetti, dell’interrogarsi sulle ragioni e sulle modalità dell’esistenza. Non risposte, ma domande senza risposte.
Una mia curiosità: come ci è arrivato alla poesia un chimico di un certo livello come te? Quando ti sei accorto che potevi fare il poeta? Ricordiamo che hai svolto attività presso l’Istituto di Chimica Biologica della “Federico II” di Napoli, e presso il Dipartimento di Biochimica e Biofisica, attualmente confluito nel Dipartimento di Medicina di Precisione dell’Università “Luigi Vanvitelli”, già “Seconda Università di Napoli”.
In realtà, direi che non sono arrivato alla poesia dalla Chimica, ma alla Chimica dagli studi umanistici, la frequentazione con i quali ha avuto come filo conduttore la poesia, fin dall’età infantile, con una pausa di circa quindici anni, tra la metà degli anni settanta e il 1990. Non mi sono “accorto” che potevo fare il poeta, nemmeno ambisco a definirmi tale. Il linguaggio “sintetico”, caratteristico anche della scienza, è lo strumento attraverso il quale rielaboro antichi discorsi e affronto le “novità” dell’esistenza, entro schemi personali, che tuttavia sfuggono alla sperimentazione “tradizionale”, che vedo spesso sconfinare nell’egolatria.
C’è stato qualcuno che devi ringraziare per averti “strappato” dalla chimica, inoltrandoti nel mondo della poesia?
No, alla luce di quel che ho detto sopra. Diciamo che mi considero un eclettico e, in questa prospettiva, la mia vita è stata un continuo susseguirsi di traguardi. Per inciso, le mie frequentazioni con la chimica e con la scienza continuano sul piano divulgativo. Ho discorsi in sospeso, che forse non concluderò mai, ma gli strumenti delle scienze “dure” sono ad ampio spettro. Per esempio, di recente, mi hanno consentito di “scantonare” nell’analisi del decorso della pandemia COVID-19.
In un tuo volume, L’amaro delle noci, pubblicato da Guida Editori, si avverte una sorta di “smarrimento”. I versi che seguono lo stanno a confermare: «E non ti trovi che solitario Icaro / in volo a cieli senza firmamento, / senza cera nell’ale, con l’urlo / del silenzio che grida strozzato / all’anelito dell’aria. Un dedalo / è diventato, dunque, il cielo / delle trascorse ebbrezze del volo / un vischio di irrisolte traiettorie. Cosa sono per te il mistero, la solitudine, lo smarrimento di cui parli, e mettiamoci pure il silenzio, ché non sempre la poesia si manifesta con azioni assordanti?
Il mistero è la vita, il mistero è la scienza, che ci pone interrogativi sul senso stesso della vita. La solitudine e lo smarrimento sono da un lato un riflesso di questo, dall’altro un riflesso di vicende personali, che mi hanno portato a riflettere sul senso della vita e sulla incompiuta potenza della scienza. Il silenzio è l’ovvio corollario di tutto questo. Di fronte all’ignoto non si può che tacere. Ma il silenzio è anche la voce quotidiana di chi non c’è più.
Oggi il compito della poesia sembra un’autocelebrazione. Sembra che i poeti non abbiano più nemici da contrastare. Troppi poeti della domenica. E tu che poeta sei? Quanto prendi sul serio la poesia?
Ho già detto che non mi considero un poeta, nell’accezione corrente del termine e, pertanto rifuggo dall’autocelebrazione. Prendo, invece, sul serio, il confronto quotidiano con la parola e con la sintesi. Un percorso, direi, che adesso risponde ai canoni della formazione scientifica, pur avendo avuto inizio a prescindere da essa. Forse uno “strumento” di cui mancava.
In questo periodo di pandemia e di “arresti domiciliari” forzati, quanto ti ha aiutato la poesia ed in che modo?
In nessun modo, direi. La mia vita è proseguita come al solito, ma con la consapevolezza di nuove necessità. Chi mi segue sa che ho continuato a scrivere con regolarità, ma tra le righe il lettore attento può scorgere lo scenario che è sullo sfondo.
Qual è il tuo rapporto con la politica, con l’ambiente, con i problemi di tutti i giorni?
Con la politica ho un rapporto di consolidata indipendenza, anche se i temi della solidarietà, dell’uguaglianza sociale e della pace mi sembrano imprescindibili. Nei confronti dell’ambiente, se s’intende quello della natura, è necessario assumere atteggiamenti compatibili con la sua cura e la sua salvaguardia, sempre che l’uomo intenda sopravvivere come specie
E a proposito di ambiente. Sembra come non mai che in questo ultimo decennio l’uomo e la natura siano in conflitto. È pur vero che l’uomo distrugge o trasforma qualsiasi cosa quando si tratta di trarne benefici economici. Citando alcuni tuoi versi da La melagrana, «Senza spreco s’incastrano gli arilli, / granati senza un atomo di sole / – in una bacca gli acini vermigli –», salvaguardare la natura è un obbligo e un dovere. Cosa pensi dei movimenti pro-ambiente del tipo quello che sfrutta l’immagine di una ragazzina, cioè Greta Thunberg, anche se con la pandemia del coronavirus per ora è scomparsa dalla circolazione?
Beh, la società in cui viviamo è fondata sullo sfruttamento, dell’ambiente come delle persone. Fa parte delle sue “regole”. Ma stiamo attenti a non confondere la luna con il dito. Gli argomenti che si sottraggono al problema reale, il confondere gli aspetti formali con quelli sostanziali, in tema d’ambiente come in materia di salute, tradiscono la volontà, nemmeno troppo inconsapevole, di lasciare le cose come stanno, a prescindere. Insomma, un atteggiamento cospirazionista più o meno latente, che è contrario a ogni buon senso e a ogni evidenza scientifica. Ben venga tutto ciò che serve a mantenere alto il livello di attenzione.
Alcune politiche se ne fregano se la natura venga incontaminata o addirittura privata della sua azione. L’esempio ci viene dalla scellerata politica brasiliana di Jair Bolsonaro che invece di opporsi al suo sradicamento per far posto a enormi spazi per costruirci i loro imperi, avalli tale sfruttamento. In passato la poeta Marcia Theophilo si è battuta tanto per la sua salvaguardia. Può la poesia oggi, in questa società globalizzata e liberista, dare una mano affinché la natura venga preservata e sottratta agli interessi economici delle multinazionali?
In generale, penso di no, almeno fin quando continuerà la dicotomia tra cosa sia la poesia e cosa rappresenti nel mondo reale chi ne è autore. Tantissimi, tu stesso lo hai ammesso più su, si autoproclamano “poeti”, ma davvero basta questo a scrivere “poesia” e a farne uno strumento per la salvaguardia della natura? Non è questo il sintomo di una società – e di una poesia – che ha come obiettivo l’apparire piuttosto che l’essere?
Cosa ne pensi della poesia attuale in Campania? Hai trovato o trovi difficoltà con l’ambiente letterario in cui vivi e col rapporto con i tuoi “colleghi” campani?
Penso che ci siano degli spunti interessanti, molti defilati rispetto agli esponenti più in vista di quella che viene considerata la “poesia attuale in Campania”. Questi ultimi, poi, coltivando con cura il proprio orticello, tendono a far salotto, ad aggregarsi in club, ad accreditarsi in conventicole che fanno in genere riferimento a nomi “rumorosi”, magari pluripremiati e/o introdotti ad amicizie importanti, escludendo altri che non sono graditi, anzi, diciamo meglio, escludendoli sic et simpliciter, per evitare invasioni di campo. Il risultato è che ogni insulsaggine diventa poesia. In tutto questo colgo che un ruolo fondamentale lo giochi l’idiosincrasia con gli schemi considerati “classici”, la necessità pseudo-modernista di svincolarsene in nome della “novità” del verso libero, che viene inteso come irrispettoso delle “regole”. Personalmente, amo sottolineare che sono partito dal verso libero per giungere a forme più compatibili con gli schemi classici, attraverso lo studio e il confronto continuo con la parola. Da questo mi permetto di dedurre che il “verso libero” è molto più confacente a chi non sa destreggiarsi con la metrica e con il ritmo e viene artatamente confuso con la “libertà del verso”. Insomma, la capacità di articolare forma e contenuti diventa un limite invalicabile. Ritengo che il confronto, se non la competizione, con i “classici” sia irrinunciabile lungo il percorso alla poesia. Per tali motivi, temo che io stesso sia nell’attenzione di molti per ragioni di opportunità legate alla necessità di compiacere persone che, invece, mi stimano e mi considerano.
C’è un tuo volume di poesia cui sei più affezionato e per quali motivi?
Direi di no, ma è facile, perché sono solo due, finora. Sono affezionato di più al blog, che è una sorta di diario delle vicende che hanno scandito un meticoloso percorso di ricerca.
E della poesia degli altri chi ti ha dato o ti dà una ragione per continuare a fare il poeta? A tal proposito, quali parametri deve avere la poesia per farsi “comprendere” da una società culturalmente alla deriva?
Direi nessuno, visto che ho cominciato da bambino e non intendo smettere. Ci sono autori che trovo stimolanti per gli spunti che offrono, ma questo non è un incentivo a proseguire. Non credo che la poesia debba attenersi a dei parametri per farsi comprendere, anche se ritengo irrinunciabile il confronto con gli schemi “classici”. Ritengo, però, che il lettore debba farsi parte attiva nello sforzo di “impadronirsi” del linguaggio di chi scrive. Comprendere chi scrive e perché implica entrare in una “camera dei suoni”, tipica dell’autore, in cui i contenuti si mescolano ai suoni, ma cominciano ad avere un senso solo dopo una lunga educazione delle proprie orecchie.
Si sa che molti premi letterari, direi il 90%, sono costruiti ad personam, per amici e con una tassa di lettura per leggere qualche testo. Hai mai partecipato ad uno di essi e che opinione ti sei fatto, quale beneficio può arrecare un siffatto premio?
Il mio rapporto con i premi è idiosincratico. Ho partecipato a premi, in genere a quelli senza tassa di lettura e talvolta su invito personale. Penso che siano funzionali alla necessità di autoproclamarsi giudici e/o critici, oltre che poeti. Penso che siano animati dalla logica del “do ut des”. Si premiano nomi importanti per guadagnare credito e nomi meno importanti, per ottenere in cambio il favore. Insomma, uno dei tanti giochi delle parti, che fanno leva su un fondamentale narcisismo.
Oggi con la crisi dell’editoria, pubblicare un volume non è semplice: le grandi case editrici non ti filano se non sei legato alla politica o a risorse economiche; per di più le piccole ti chiedono contributi economici, spesso esosi. Hai riscontrato difficoltà editoriali durante il tuo percorso, ti hanno mai chiesto denaro per pubblicare?
Nelle due occasioni nelle quali mi sono deciso a pubblicare (con l’editoria minore), per motivi che non rispondono alla necessità primaria di essere autore di qualcosa, mi è stato sempre chiesto denaro. La richiesta è considerata “naturale” da parte degli editori, totalmente disimpegnati sul piano della diffusione e della pubblicità e, soprattutto, sul piano culturale, che mi pare di facciata. Si pubblica di tutto, a fronte di un corrispettivo economico, con la conseguenza che non è tutto oro quel che riluce. Prendendo a prestito la volpe di Fedro, direi: «O quanta species, cerebrum non habet». Tendo a non credere a chi afferma di non aver mai pagato.
Cosa distingue l’uomo dal poeta?
Per quanto riguarda me, niente. Per il resto, se per poeta intendiamo l’uomo che ambisce ad autoproclamarsi tale, direi ancora niente. Se per poeta intendiamo l’uomo che segue un suo percorso intimo, nella vita pubblica come in quella privata, direi ugualmente niente. È anche questo che rende difficile discernere tra ciò che è umano (nel senso di humanitas, e, pertanto, capace di generare poesia) da ciò che non lo è.
Cosa ti fa paura nella vita e nel mondo artistico?
Paura? Non so, forse ho timore che la notorietà, ammesso che arrivi, in qualunque campo, faccia perdere il senno.
È risaputo che al giorno d’oggi si legge molto poco; gli autori, che siano poeti o narratori o saggisti, a giusta ragione si lamentano di questa inedia. Tu quanto tempo dedichi alla lettura, e quanto alla scrittura?
Non mi dedico alla lettura in maniera sistematica, perché le cose da leggere sono molte e nella mia scala dei valori ci sono altre priorità. In gioventù sono stato assiduo lettore, ma poi ho smesso quasi di colpo, nella prima metà degli anni ottanta, quando per me diventò impellente la necessità di conoscere la scienza che non avevo imparato negli anni della formazione universitaria. Privilegio, in genere, la lettura incompiuta, diluita nel tempo, con molti ritorni. Alla scrittura mi dedico con regolarità, almeno per quanto riguarda il blog e l’attività nei social media.
Qual è l’ultimo volume che hai letto? Ti ha ispirato qualcosa?
L’ultimo in maniera compiuta è stato Il Vesuvio universale, di Maria Pace Ottieri, perché, vivendo a Ercolano, ebbi la fortuna di accompagnare l’autrice in una delle sue perlustrazioni nel territorio vesuviano. Di questo resta traccia in due passi del libro e in diverse cose pubblicate nel blog (https://raffrag.wordpress.com/2017/05/26/la-ferrovia-cook/, https://raffrag.wordpress.com/2019/01/13/il-vesuvio-universale-e-altre-storie/, https://raffrag.wordpress.com/2020/04/05/molto-bella/). In corso, molto diluiti nel tempo, L’ordine del tempo, di Carlo Rovelli, che mi ha ispirato un recente componimento (https://raffrag.wordpress.com/2020/05/22/lordine-del-tempo/), e Il sistema periodico, di Primo Levi. Ho in programma di leggere, al mio rientro in Italia, Loving trekking. Guida sentimentale ai sentieri dell’Alta via dei Monti Lattari, del mio amico Vincenzo Aiello.
Cosa ne pensi dei libri digitali? Possono competere con l’editoria tradizionale, cioè con quella cartacea?
Beh, il digitale è comodo, prontamente fruibile, chi lo può negare. Ma non dimentichiamo che uno dei “padri di internet”, Vinton Cerf, ci ha messo in guardia: le tecnologie digitali diventano ben presto obsolete, i documenti e le immagini salvate con le vecchie tecnologie rischiano di diventare inaccessibili, se già non lo sono, perché la parte soft del digitale è in continua evoluzione. Se non stiamo attenti a questo segnale, la nostra e le epoche future rischiano di diventare un “deserto digitale”.
Oltre che di poesia, di cosa ti occupi?
Come ho già detto, la mia formazione di chimico è quasi totalmente travasata nella divulgazione scientifica, ma mi interesso d’altro. Pratico il reportage fotografico, amo conoscere la natura, la montagna in particolare. Mi occupo di temi ambientali, in primis quello del fiume Sarno. Collaboro con l’Associazione Achille Basile – Le Ali della Lettura e sono socio dell’Associazione Certamen Plinianum, entrambe a Castellammare di Stabia. Traduco testi poetici in e dall’inglese e, in questa qualità, organizzo da alcuni anni Jazz & Poetry, grazie ad amici napoletani, anch’essi chimici, che coltivano la passione per il jazz, associando la lettura di poeti americani alla musica. Sul fronte della famiglia, cerco di essere padre e madre, nonno e nonna.
Hai una ricetta per far uscire la poesia dallo stato comatoso in cui versa?
Direi la diffusione della poesia attraverso la pratica di interessi che non siano strettamente letterari, che la relegano al ruolo di “nicchia”. Guardo con interesse alle personalità eclettiche, e in ambito scientifico, più che in ambito umanistico o para-umanistico, ce ne sono molte, per ovvi motivi. Ma un bello sforzo dovrebbero farlo gli editori, che non investono quasi più nella promozione della poesia, usandola come volano per spunti di riflessione sulle varie sfaccettature della realtà, magari avvalendosi proprio di personalità eclettiche.
In conclusione quale programmi hai in cantiere?
Cercare un editore non a pagamento per pubblicare i miei testi. Ne ho almeno cinque in cantiere. Trovare il tempo e la voglia per imparare a dipingere, oltre che continuare ad occuparmi di elaborazioni digitali.