Dopo le interviste ai poeti residenti in Campania, riprendiamo il discorso delle interviste rivolgendo le domande – le stesse per tutti – ai direttori di riviste non solo con sede in Campania. Oggi intervistiamo Francesco Aprile, co-direttore con Cristiano Caggiula di «Utsanga», rivista on line con redazione in provincia di Lecce.
Incominciamo con una domanda semplice e forse scontata, ma che ci serve per inoltrarci in questa intervista. Chi è Francesco Aprile?
Co-direttore di «Utsanga», direttore di «New Page», il movimento fondato dal poeta Francesco S. Dòdaro nel 2009 e di cui curo le attività dal 2013, ma anche poeta visivo, autore di scritture asemantiche, glitch poem, asemic-glitch writing, code poems, abbecedari asemantici, asemic cinema ecc. Ho pubblicato diversi libri in poesia e poesia visiva, ed esposto i miei lavori in Italia e all’estero.
Come e quando è nata «Utsanga»? A proposito: perché avete scelto il termine utsanga, termine che troviamo nel buddismo, nel pali, nell’induismo, nel sanscrito, nella storia dell’antica India?
«Utsanga» è una rivista trimestrale nata nel 2014. Io e Cristiano avevamo già collaborato su altri progetti e nel tempo abbiamo sentito il bisogno di creare una nostra rivista. La scelta del nome è ricaduta su «Utsanga» che viene dal sanscrito e significa “grembo, ventre, abbraccio”. Il punto di partenza era quello di una rivista non di “partito”, impostata sulle direttrici del lavoro storico e critico guardando al recente passato e al presente. Abbiamo pensato «Utsanga» come una realtà non asservita a nulla se non all’indipendenza della poesia come pensiero critico, non portatrice di nessuna bandiera, neppure di un qualche vessillo personale. Fin dall’inizio abbiamo idealmente aderito a quanto scritto da Corrado Costa in una lettera indirizzata alla redazione di «Tam Tam»: «Scrivere poesia significa non compiere il sacrificio della conoscenza, non porsi al di fuori della vita, non assumere potere». I semi della nostra attività erano quindi quelli già citati, storia e critica, intrecciati con il pensiero costiano e quel laboratorio incredibile rappresentato dalle attività e dal rigore di Francesco Saverio Dòdaro (al quale «Utsanga» è dedicata). La rivista, che pure ospita numerose immagini di opere verbovisive, presenta sulla homepage del sito, ogni volta, l’ultima uscita, ma senza esporre anteprime di materiali grafici, affiancando una serie di schede che riportano il nome dell’autore e il titolo dell’intervento, ospitando e affiancando poetiche anche in contrasto fra loro perché «lo scontro veicola le differenze anziché appiattirle» (Gobetti). In un momento storico in cui l’immagine, statica o in movimento, è ovunque, è invasiva, pur ospitandone numerose, si è scelto di non esporre nulla sulla home, rimandando il tutto alle pagine interne, alla visualizzazione dei singoli articoli. Una scelta volutamente in controtendenza rispetto all’attuale modello sociale e della comunicazione. Abbiamo cercato di dare al tutto una messa in opera orizzontale nel tentativo di tenere conto del ventre e della nascita, di «Utsanga». Ad ogni numero nasciamo diversi.
Siamo nell’era digitale e molte riviste stanno abbandonando il cartaceo o preferendo entrambe le proposte. Perché voi avete preferito solo la versione on line? Scartando il cartaceo, è ovvio che si rinuncia alla fisicità, all’odore dell’inchiostro o al piacere tattile di girare le pagine. Non vi manca tutto questo? Secondo te c’è una peculiarità particolare che distingue le riviste on line da quelle cartacee? Quale?
Per quanto riguarda la rivista non sento la mancanza del cartaceo. La scelta del digitale dipende da alcuni motivi che provo a sintetizzare: volendo lavorare sulla promiscuità dei generi in relazione ai media digitali, ai social ecc., avevamo bisogno di un contenitore che permettesse di ospitare diversi materiali, non cartacei, ad esempio audio e video, senza il bisogno di ricorrere a supporti extra.
Molte proposte, oltre alla poesia visuale, che pubblichi sulla tua rivista, si riferiscono alle scritture asemantiche, cioè ‒ volendo fare gli esterofili ‒ l’asemic writing. Puoi darci la tua definizione di questa disciplina?
Le ricerche italiane hanno posto l’accento, sin da subito, sul venire meno di un rapporto tra significante e significato tale da ridurre la scrittura a svuotamento semantico. Nell’assenza del significato finisce per trionfare il segno. L’area anglofona vede l’attestazione del termine asemic e non asemantic. Questo avviene per la vicinanza terminologica e concettuale che il termine asemic intrattiene con l’asemia, una forma più grave di afasia. Tuttavia, in una scrittura priva di significato, non muore la sfera del senso.
Sul vostro sito è riportato che «Utsanga» è una rivista di analisi liminale che guarda alle forme che la parola poetica assume nell’extraletterario allargando i confini di ciò che chiamiamo scrittura, alle diverse declinazioni dei linguaggi di ricerca. Quali sono queste diverse declinazioni dei linguaggi di ricerca?
Penso alla poesia visiva e alle declinazioni che oggi assume attraverso i media digitali, quindi a tutti quegli autori di questi anni che ibridano i linguaggi proponendo una verbovisualità lontana dal collage del Novecento (ma queste tecnologie portano anche a riflettere e rileggere la dimensione del collage o dell’analogico in generale, attualizzandolo). Penso alle scritture asemantiche che in quegli autori, pochi, dotati di consapevolezza storica, si sviluppano in maniera autonoma rispetto all’asemic novecentesco, al contrario di molti autori che, oggi, non conoscendo la storia recente di queste pratiche finiscono, spesso, per emulare il già fatto senza rendersene conto. Penso a chi oggi si muove nei meandri di una poesia concreta digitale, del tutto differente dalle dinamiche del secolo scorso. Penso a questi fenomeni che si mescolano e dialogano con il testo poetico lineare, ma anche con il video e assumono come forma preponderante il flusso, il tutto disassemblato, la ramificazione delle superfici che sconfinano e si accumulano, nel digitale, in maniera aprospettica, senza quella profondità che viene data dalla materia. Penso ai testi che nel loro farsi risentono delle dinamiche odierne della comunicazione, a quelli che nella contestazione rifiutano l’utilizzo della lingua dominante o ne tentano il sabotaggio, ma anche ai linguaggi informatici e più in generale a quei serbatoi sintattici, linguistici, come la quality assurance o le dinamiche Seo. Penso, infine, al rumore, più che al suono.
Ti affidi a collaboratori e con quali ruoli?
I collaboratori sono autonomi. La redazione è composta da Egidio Marullo, Volodymyr Bilyk, Nico Vassilakis, Bartolomé Ferrando, Gianluca Garrapa, Wellington Amancio Silva, Elisa Carella. Ognuno propone temi, autori da invitare, iniziative da realizzare.
Sappiamo entrambi le difficoltà che incontra oggi la poesia. Cosa bisognerebbe affinché la poesia ritorni a fare, a dire, a guardare avanti? Qual è il contributo di «Utsanga»?
Non credo che il contributo di «Utsanga» o di qualsiasi altra realtà (rivista, online o cartacea, portale web, quotidiano, fanzine, blog ecc.) possa rappresentare oggi una soluzione universale. La società è mutata radicalmente; l’informazione è costante e invadente e spezza la fruizione dei contenuti (arriva una notizia che subito è surclassata da altre ancora), troppa dispersione, troppa omologazione che nasce anche dal sapere in qualsiasi momento cosa avviene in qualunque parte del mondo e, quindi, cosa funziona e cosa no. L’effetto dei “like” sui social e la critica assente (quando presente, o si tratta di marketing o è concentrata nel coltivare il proprio orticello, sono rare le eccezioni) e lo sguardo puntato su ciò che in una nicchia o in un’altra fa tendenza, accrescono l’omologazione e l’appiattimento delle proposte. Oggi, purtroppo, è giusto parlare di nicchie e, spesso, sostituire i termini ricerca e poetica (o poetiche) con trend, perché appurato che in un contesto il trend X funziona, allora bisogna subito cavalcarlo spacciando ciò per scelta consapevole e/o maturità poetica. Oggi questo modo capitalista, mosso da ansia da prestazione, permea ogni ambito in un modo e con una totalità mai visti prima. In questo contesto sarebbe scorretto scomodare il paragone con l’impatto che i vari gruppi e scuole avevano sulla comunità letteraria in passato. Il mutamento è così radicale che parlare di autonomia e influenza significa falsificare la questione. Si tratta, piuttosto, di ego e modi capitalisti che hanno modificato dall’interno la condizione letteraria. Fare qualcosa? Per quanto insufficiente possa essere, dico che bisogna continuare a lavorare non curandosi dei trends e di chi, attraverso questi, fa i giochi di potere che sono sempre miseri.
Se la vita è una continua ricerca di se stessi o di quello che ci fa stare meglio, l’assunto può essere girato alla sfera poetica e come?
Per quanto mi riguarda tendo a non assimilare ricerca di sé e felicità alla sfera poetica, non trasferirei, allora, l’assunto.
La poesia è irreale ‒ a detta di qualcuno ‒ che invita al silenzio, a rappresentare il silenzio, in quanto impotente nel percepire le condizioni umane e per questo avvinghiata da uno spaesamento. Che ne pensi?
Penso che la poesia, con qualsiasi cosa si misuri, sia sempre reale e il silenzio, con la sua impossibilità, una parte del tutto.
Attualmente quali progetti ci sono in cantiere?
Siamo al lavoro sul prossimo numero, quello di giugno, ipotizzando anche soluzioni per i numeri successivi e la pubblicazione, per ora sempre online, di tutta una serie di materiali relativi all’archivio della rivista.
Le proposte di poesia alternativa, di ricerca, come nel vostro caso, oggi trovano molta difficoltà a farsi “comprendere”. Cosa occorre fare affinché la poesia, la letteratura, non sia assoggettata alla dominante tradizione lirico-sentimentale o alla speculazione dell’industria culturale egemone?
Molte realtà propongono una sorta di rifiuto verso le scritture altre. Questo rifiuto è visto, da alcuni operatori, addirittura come una conquista rispetto alle poetiche sperimentali del Novecento. Allora bisogna continuare a lavorare, con costanza, affiancare ai testi opere critiche, teoriche, fare, anche, divulgazione. Penso alla costanza del lavoro di Carmine Lubrano, Mariangela Guatteri, Eugenio Lucrezi, Daniele Poletti, Fabio Orecchini, Enzo Campi, Sonia Caporossi e altri ancora.
Qualcuno azzarda che le riviste letterarie non hanno più motivo di esistere, visto che non ci sono più correnti letterarie e i lettori scarseggiano o al massimo leggono on line. Perché i lettori dovrebbero leggere la tua rivista?
Se non esistono correnti letterarie, dovrebbero leggerla per quello, perché non si eseguono direttive di partito, o comunque dovremmo rivedere il modo in cui intendiamo le correnti.
Da quando si pubblica «Utsanga» ci sono stati argomenti che ti hanno fatto esclamare: «Vale la pena proseguire! Vale la pena spenderci il mio tempo!»? E quali sono?
Ho pensato questo tutte le volte in cui mi sono imbattuto in contributi che gettavano luce su questioni poco trattate del recente passato, ma anche davanti a esplorazioni accurate del presente.
E quelli più interessanti a livello personale?
Dal punto di vista personale penso al lavoro di ricostruzione e sistemazione storica e critica che con Cristiano Caggiula abbiamo affrontato per quanto riguarda l’asemic writing.
C’è chi non crede più nella forza propulsiva delle riviste in quanto la convinzione è che hanno fatto il loro tempo. Per rispondere a questi scettici, che ruolo dovrebbero avere ‒ secondo te, al di là del tuo condizionamento in qualità di direttore ‒ le riviste letterarie in questo periodo dove si legge poco, diciamo così, per non dire altro, in quanto apriremmo un discorso troppo lungo? In generale, quale dovrebbe essere il ruolo di una rivista letteraria in questo “strano” periodo storico affinché torni ad essere protagonista nel mondo letterario come avveniva nel Novecento e maggiormente nel secondo dopoguerra?
Che ci sia o meno un mandato sociale, oggi o domani, poco importa. Dovremmo volere un pubblico? Costruiamo dialoghi o scontri, magari. Continuiamo a portare le riviste fuori dal loro territorio. Promuoviamo azioni parallele, consapevoli dei salti nel buio.
Insomma: un giovane poeta o scrittore, ma anche meno giovane perché oggi dovrebbe affidare le proprie idee letterarie alle riviste?
Per ritrovare il senso del dibattito e/o della costruzione, in generale, dei sensi della scrittura e delle sue forme. Una rivista dovrebbe essere il luogo delle diversità e, come tale, presentare le diverse linee, approfondirle, conoscerle, affiancare ai testi escursioni critiche, storiche, saggiarne la tenuta e questa impostazione non può che far crescere i giovani poeti, i loro testi. Non la vetrina, ma l’esplorazione.
L’accusa maggiore che viene rivolta alle riviste è quella di giacere in una specie di “oblio”, un limbo collimato dal contesto in cui opera. «Utsanga» come si rapporta con l’ambiente in cui opera, cosa propone ai lettori al di fuori della “pagina”, quale altre iniziative nel tentativo di realizzare una concreta amplificazione del suo messaggio?
Partiamo dal fatto che, forse, in questo tempo l’oblio non è poi così male e non è la cosa peggiore. Per il resto abbiamo lavorato da subito su più fronti, organizzando mostre, convegni e incontri vari, come la prima mostra italiana, fra il 2016 e il 2017, interamente dedicata ai percorsi storici e contemporanei dell’asemic writing.
Detto tra noi, a quattr’occhi, quale dovrebbe essere il ruolo di una rivista in relazione al contesto?
Il contesto dovrebbe essere rilevato e analizzato, filtrato criticamente, mai ridotto a linea guida da intercettare nel tentativo di incontrarne i favori. Andrebbe messo in discussione, in crisi, anche attraverso quelle opere che non se ne occupano direttamente, ma che risultano o possono risultare in un certo senso illeggibili per il contesto. Andrebbe filtrato criticamente, sì, ma quindi anche elaborato e affrontato.
Per concludere: cosa ci proponi col nuovo numero?
Con il prossimo numero torneremo ad approfondire aspetti legati alla verbovisualità sudamericana, brasiliana e argentina in particolare, riannodando il filo con le ricerche già ospitate in passato, ad esempio le vicende del “Poema processo” brasiliano.