Ci è rimasta da trattare l’ultima delle nove parti del discorso, e delle 4 invariabili: l’interiezione, che è quella parola o quel suono o quell’insieme di parole che gettiamo lì ogni tanto in mezzo al discorso per esprimere sentimenti immediati o sensazioni più o meno forti (dal latino “interiectum” = “gettato in mezzo”).
Noi napoletani siamo i re dell’interiezione. Ne abbiamo tante, da quelle “nazionali” anzi internazionali come Ah, a quelle polivalenti come Oh.
Ma la madre di tutte le interiezioni napoletane è Azzo!
Ci sono almeno tre modi di pronunciarla, anche se va scritta rigorosamente sempre azzo. La trascriviamo qui in questi tre modi solo per tentare di riprodurne le variazioni di pronuncia:
• [Ázzo], con la o semimuta che abbiamo ormai imparato a conoscere: esprime meraviglia, stupore:
Azzo, ma è proprio bella sta Gioconda ’e Leonardo, si dirà se si va al Louvre e si giunge per la prima volta davanti al celebre dipinto.
• [Azzz…] con la o semimuta che tende a scomparire a favore di un insistere sordo e prolungato sulla z che, pronunciata sempre sorda, diventa così quasi una s. In questo caso la meraviglia è tanta, mescolata all’impazienza (come se dicessimo: “Ma guarda un po’. Costui continua a dire o a fare sciocchezze. E non la smette!”). Questo modo di pronuncia è accompagnato e sottolineato da un potente aggrottarsi delle sopracciglia,
• [Ázzó] con due accenti, sia su A che su zzo, che rafforzano l’intenzione di esprimere meraviglia e/o impazienza.
Forse per una sua derivazione dal membro maschile o almeno per un’assonanza con esso, a volte azzo viene “ingentilita” e depotenziata in Aspito (come “Caspita” per “C…”: Tu che caspita dice?). Analogo procedimento usiamo, ad esempio, quando ci illudiamo di evitare elegantemente la bestemmia con un Pataturco o una Marosca.
Un’interiezione molto comune e polivalente è oh!
Questa, ancor più di azzo, cambia significato a seconda del modo in cui si pronuncia:
• pronunciata con la ó chiusa è vocativa e corrisponde all’italiano “Ehi tu”, o meglio al romanesco “Ahó”:
Oh, ma fusse scemo? (romanesco: “Ahó, ma che sei scemo?”)
• pronunciata con la ò aperta serve a mettere un punto al discorso per passare a un altro argomento o sviluppare delle conseguenze di quanto detto. In questo caso è accompagnata spesso da Venimmencenne a nuje (più o meno: “Veniamo a noi”). Non ha un equivalente in italiano, talvolta corrispondendo a “In breve”, talaltra a “Dunque”, “Orbene” o simili.
Oh, addò eramo arrivate c’ ’o cunto? Così dice (o diceva…) la nonna dopo aver fatto una digressione nel mezzo di un racconto.
• sempre con la ò aperta ma ripetuta più volte (oh oh oh!) e magari accompagnata dal dito indice alzato diventa un modo blando di redarguire un bambino molto piccolo:
Oh oh oh! Te dongo ’e ttottò! (“Ah, ah, ti do le botte, sai?”)
Una classica interiezione napoletana è Ué (usata anche dai ragazzi, che la scrivono erroneamente “we”).
Alcuni anni fa si scriveva Gué, forse per una etimologia che oggi ci sfugge.
È un po’ un incrocio fra “Ehi” e “Ohibò”, ed è l’ideale per esprimere lieta sorpresa nel vedere una persona:
Ué, e tu che ce faje ccà? (“Come mai da queste parti?”)
Ripetuta due volte serve a richiamare l’attenzione:
Ué, ué, stammece accorte ca ccà ce jettano ’a sotto (“Stiamo attenti che non ci investa qualche veicolo!”)
Per incitare qualcuno a dire o a fare qualcosa o a smettere di dire o fare qualcosa adoperiamo spesso Jà oppure E gghià, troncamento del congiuntivo esortativo jammo (“andiamo”, anche nell’italiano parlato).
La stessa voce verbale è usata nelle espressioni Jammo bello (“su, muoviamoci!”), Jammo cuoncio (“Andiamo piano” o “Andiamoci piano”), e Jammo, jà (“Forza, su, muoviamoci!”), che sono esclamazioni più che vere interiezioni.
Molto diverso il nostro Neh (altri lo scrive ne’ ) dal polivalente “ne” piemontese. Derivata, secondo D’Ascoli, dalla particella latina “ne” (usata per le frasi interrogative), serve a richiamare l’attenzione di qualcuno su quanto si va dicendo o si sta per dire, e non ci pare che abbia un corrispondente nell’italiano:
Neh, guagliù, avite capito buono chello ca sto dicenno?
Nel nuovo napoletano dei giovani si sente tante volte Uà, con le due vocali ben distinte fra loro, “cantate” su due note diverse, la prima più alta e la seconda più bassa.
Si tratta – anche se i parlanti non ne hanno consapevolezza – di un ibrido, un incrocio fra l’inglese-americano wow e il napoletanissimo Uh aneme.
Quest’ultimo è l’abbreviazione di un’espressione antica e profondamente permeata di religiosità. Deriva infatti dalla locuzione esclamativa Uh aneme d’ ’o Priatorio! (“Oh, anime del Purgatorio!”), con la quale si invocavano le anime che secondo la fede cristiana, almeno da Dante in poi, soffrono le pene del Purgatorio per espiare i propri peccati e meritarsi poi il Paradiso.
L’invocazione, radicata in un culto popolare di cui sono testimonianza alcune edicole religiose ancora – forse – presenti nella nostra città, poteva esprimere il desiderio che queste anime pregassero Dio per un peccato così grave da suscitare meraviglia.
Da questo il significato in seguito si dovette affievolire, fino ad esprimere la sola meraviglia per qualcosa di strano.
L’espressione si trova ancora, recuperata nella sua interezza, nel film “Così parlò Bellavista” di Luciano De Crescenzo: in casa Bellavista è presente il nonno, che ridotto ormai all’afasia, dalla sua sedia a rotelle apre la bocca solo quando sente pronunciare la parola “milione” (perché ricorda una sua disavventura finanziaria) ed esclama: Nu milione! Uh aneme d’ ’o Priatorio!
Azzo, ma s’è fatto tarde! Jammo a magnà, e bona dummeneca!