Il pensiero è parte imprescindibile ed essenziale di ogni essere umano: pensare equivale ad avere un’attività cerebrale sviluppata, al porsi problemi, interrogarsi per poi tentare un approccio risolutivo. Va da sè che il pensare è un moto complesso e delicato capace di coinvolgerci nella nostra interezza. Basterebbe dunque questo a farci affermare che una macchina non potrebbe mai sostituire completamente l’uomo. E le emozioni? E i sentimenti? In pratica siamo troppo complessi per poter essere riprodotti. Ma è proprio così?
Alan Turing, padre dell’AI (Artificial Intelligence), già nel 1950 si poneva un quesito da cui sono scaturiti tutta una serie di studi ed in primis il test che porta il suo nome: “le macchine possono pensare?”. Supponiamo di far “gareggiare” una macchina ed un uomo in una conversazione testuale e che il “giudice” non sappia quale sia la macchina e chi sia l’uomo. Se alla fine del dibattito, i cui argomenti sono stati i più differenziati, dalla scienza alla filosofia, dalla politica al gossip, il giudice ancora non riuscisse a capire la differenza tra i due “concorrenti”, potremmo concludere che la macchina sia in grado di pensare e che in qualche modo sia dotata di intelligenza. Per Turing le macchine avrebbero superato il test entro la fine del Novecento. Così non è stato. Solo in tempi recenti stiamo assistendo ad un’evoluzione significativa che testimonia, ma solo per certi versi, un testa a testa tra intelligenza umana ed intelligenza artificiale.
Alan Turing, padre dell’AI (Artificial Intelligence), già nel 1950 si poneva un quesito da cui sono scaturiti tutta una serie di studi ed in primis il test che porta il suo nome: “le macchine possono pensare?”. Supponiamo di far “gareggiare” una macchina ed un uomo in una conversazione testuale e che il “giudice” non sappia quale sia la macchina e chi sia l’uomo. Se alla fine del dibattito, i cui argomenti sono stati i più differenziati, dalla scienza alla filosofia, dalla politica al gossip, il giudice ancora non riuscisse a capire la differenza tra i due “concorrenti”, potremmo concludere che la macchina sia in grado di pensare e che in qualche modo sia dotata di intelligenza. Per Turing le macchine avrebbero superato il test entro la fine del Novecento. Così non è stato. Solo in tempi recenti stiamo assistendo ad un’evoluzione significativa che testimonia, ma solo per certi versi, un testa a testa tra intelligenza umana ed intelligenza artificiale.
Due anni fa il quotidiano britannico Guardian ipotizzò la futura estinzione dei giornalisti, destinati a essere soppiantati da computer generatori di articoli. Tutti gridarono ad una supposizione apocalittica decisamente improbabile. Improbabile ecco, non impossibile. Il 17 marzo 2014 è successo qualcosa che ha ridimensionato almeno un po’ l’iniziale scetticismo. Quakebot, un robot programmato per creare notizie sulle base di un algoritmo, ha pubblicato una ‘breaking news’ per conto del Los Angeles Time. Incredibile! Sì certo, ma c’è pur sempre un uomo dietro questo astutissimo marchingegno. L’inventore del sistema è proprio un giornalista del LA Times, Ken Schwencke, cronista ma anche esperto informatico. E se vi dicessimo anche che in un’azienda giapponese che si occupa di biotecnologie e medicina rigenerativa il Cda è presieduto da un robot? Sì, ed ha anche diritto di voto! Il suo nome è Vital (Validating investment tool for advancing life sciences) e nello specifico è un software di intelligenza artificiale deputato alle previsioni di successo degli investimenti.
Questi esempi ci fanno pensare di essere al centro di scenari da “2001 odissea nello spazio”, ma è così soltanto ad uno sguardo poco approfondito. La mente umana è soprattutto memoria, una memoria che si costruisce giorno dopo giorno attraverso l’interazione sociale, con le persone e con l’ambiente circostante, su un tessuto ramificato di pensieri ed emozioni, relazioni ed utilizzo dei sensi a 360°. Inoltre ogni cambiamento ambientale produce un necessario adattamento dell’uomo che, per far fronte a nuovi problemi ed esigenze, è “costretto” a cambiare. Tutto ciò lascia un’impronta indelebile nel cervello.
L’intelligenza artificiale è priva di coscienza, è asettica, disincarnata, è tutto frutto di automatismi e meccanicismi. La macchina, in alcuni campi, può certamente riprodurre le attività umane, dimostrandosi anche più abile: svolgere velocemente calcoli matematici elaborati, gestire un commercio di stock, giocare a scacchi in maniera impeccabile, assemblare macchinari complessi in tempi rapidi, e tanto altro. La chiave di lettura sta però in alcuni termini: emulazione, riproduzione, ma non sostituzione. È pur vero che i robot di moderna generazione stanno diventando sempre più antropomorfi, nella misura in cui aumenta la loro velocità, la precisione, la capacità di carico, addirittura il loro grado di autonomia. Ma se proprio di attività cognitive vogliamo parlare, dovremmo farlo in termini di una cognizione diversa da quella umana, scevra di due componenti essenziali: la consapevolezza e le emozioni. Non esistono ancora robot in grado di cucinare, robot maestri ed educatori, robot antropologi o psicologi, linguisti o giuristi, ecc… La dimensione sociale, che tra l’altro comprende anche un diffuso sottobosco di sensazioni, emotività e creatività, rappresenta un universo strettamente legato alla componente ambientale che nel caso dell’AI è presente solo in forma simbolica.
Ci preme tuttavia sottolineare il carattere non definitivo di certe riflessioni, alla luce del fatto che quotidianamente le scienze e il progresso sono chiamati a superare le sfide della complessità.