Mario Fresa (Salerno 1973), poeta e scrittore che esordisce nel 1999 sulle pagine di «Specchio della Stampa», presentato da Maurizio Cucchi, non è nuovo nella veste di traduttore, anche se in precedenza limitandosi alle lingue morte, quale il latino, traducendo De cura rei familiaris di Bernardo di Chiaravalle (Società Editrice Dante Alighieri, 2012), un monaco e teologo francese dell’ordine cistercense, vissuto nel medioevo. Ha da poco tradotto dal francese In viaggio con Apollinaire, con disegni di Massimo Dagnino (Edizioni L’Arca Felice, 2016), poesie di Guillaume Apollinaire (Roma, 1880 – Parigi, 1918, pseudonimo di Wilhelm Albert Wodzimierz Apollinaris de Waz-Kostrowicky, forse il padre della cosiddetta poesia concreta). Carattere estroso ed irrequieto, Apollinaire è uno dei più grandi avanguardisti storici, che arriva a pubblicare solo a trent’anni (ma già aveva al suo attivo un’intensa collaborazione con riviste letterarie) con i sedici racconti fantastici, L’eresiarca & C., e l’anno dopo come poeta con Bestiario o corteggio di Orfeo, che mira (come gli altri avanguardisti, ormai distaccati dalla poesia di Mallarmé che sosteneva fosse fatta di parole e non d’idee) al superamento degli schemi e delle posizioni dei simbolisti. Nelle poesie di Apollinaire c’è un recupero della vita per cui il poeta scende dal parnaso dei simbolisti per mischiarsi tra la gente, istituendo un rapporto con la società.
È difficile collocare la poesia di Apollinaire, orientata verso il nuovo, la contaminazione, ma al contempo legata alla tradizione. Ad ogni modo ponte che travalica il già dato per incamminarsi verso il futuro. Poesie che si nutrono di una crisi esistenziale che gli permette di sperimentare i vari strati psicologici dell’uomo, tesa al superamento dell’estetica simbolico-naturalistica in favore di un dialogo col mondo.
Il dialogo col mondo sopra citato o piuttosto il difficile carattere apollinariano, frammentario, che non sapeva amare, quanto emergono nella traduzione di Fresa? Metodo lirico o metodo razionale, enfatizzato o rispettoso del testo originale?
«Mes amis m’ont enfin avoué leur mépris
Mes amis m’ont enfin avoué leur mépris
Je buvais à pleins verres les étoiles
Un ange a exterminé pendant que je dormais
Les agneaux les pasteurs des tristes bergeries
De faux centurions emportaient le vinaigre
Et les gueux mal blessés par l’épurge dansaient
Étoiles de l’éveil je n’en connais aucune
Les becs de gaz pissaient leur flamme au clair de lune…
trad.
I miei amici alla fine…
I miei amici alla fine mi hanno tutti confessato che mi disprezzano
A grandi sorsate mi ubriacavo di stelle
Mentre dormivo un angelo ha sterminato
gli agnelli i pastori nei tristi ovili
Certi finti centurioni asportavano l’aceto
Gli straccioni ballavano ridotti male assai dal ricino
Stelle del risveglio io non ne conosco nemmeno una…»
A ben vedere, possiamo azzardare che la traduzione di Fresa non rientra nei registri canonici, cioè testo/testo, ma possiamo dire che si tratti in molti passi di una sovrapposizione al testo originale, una sovrastruttura forse dovuta al cambio di lingua. E crediamo sia la dote migliore che il traduttore Fresa porta al cospetto del lettore. In più, il lavoro di Fresa è basato sul ritmo e sul suono, per una dicotomia altalenante quasi perfetta. A conferma, citiamo ora un passo dello stesso Fresa sull’argomento: «Un traduttore di poesia deve lavorare siccome un interprete musicale. È questo il senso del gioco di queste mie traduzioni-imitazioni confluite nel quaderno “In viaggio con Apollinaire”: ai testi ho voluto applicare minime inversioni sintattiche, dilatazioni o contrazioni metriche, sovrapposizioni, puntature, cadenzine».
La diversità tra testo originale e traduzione, ci immette di fronte ad una domanda, uno spaccacervello per i traduttori: tradurre è uguale a tradire? In linea di massima crediamo di sì, ma è uno svolgimento insito proprio della traduzione. Da sempre questo dualismo assilla il traduttore che spesso cade nella tentazione del tradimento. Ma come sostiene Umberto Eco, il tradimento è insito nella traduzione ed è abbastanza difficile rendersi trasparente, onesto col testo originale. Per dare una risposta alla nostra domanda, ci viene in soccorso Domenico Papa col suo Tradurre/tradire, prefazione a Poesie di Stéphane Mallarmé (Sprint Edizioni, 1999), tradotte da Stelio Maria Martini. «Si discute, spesso, della libertà del traduttore e di quanto, secondo un consumato calembour, gli sia concesso di tradire. Tradurre significa infatti condurre, portare da un luogo ad un altro, grazie da un’assunzione di responsabilità, com’è della guida che meglio conosce il percorso e che promette ad altri di compierlo più agevolmente. […] Il tradire sta, forse, nel rimettere nel testo. una diversa lettura, nel rendere palese un’ulteriore interpretazione, mentre il traduttore si fa intermediario tra l’originale e ciò che ne rappresenta una nuova versione. Si tradisce chi lascia che nel discorso si riveli un’altra verità».
Nel nostro caso, Fresa ha cercato di rimanere ancorato, quanto più possibile, al testo originale, senza metaforizzarlo o usando lessemi e vocaboli significanti (per intenderci, alla Franco Fortini, per es.), e riconducendo il ritmo e il suono della lingua francese quanto più vicino a quello italiano, con la medesima intenzione semantica, traendo origine da corrispondenze apparentemente simili, con una ironia divertita e una imitazione dal francese al punto da non esserci differenza tra l’Apollinaire francese da quello italiano. E in questo ci sembra un ottimo lavoro. È ovvio che certi termini francesi non possono essere tradotti alla lettera in italiano, ma al contempo occorre mettere in campo una mediazione per cui il testo originale rimanga tale.
I punti di vista sull’argomento sono molteplici: c’è chi sostiene che tradurre non è facile senza tradire; e chi sostiene che occorre armonizzare i due linguaggi cercando di non sviare il risultato finale in un’essenza diversa. Ciò che non si può imputare al traduttore è la censura di parole intraducibili che lo costringe a crearne altre ex novo, in uno specifico contesto ritmatico ed estetico. D’altronde, neanche ciò che è riportato nei dizionari di italiano, ci aiuta molto. In essi, si dà risalto sia al tradurre alla lettera, in modo letterale, parola per parola, fedeli alla sintassi dell’originale, sia tradurre a senso, liberamente.
Allora dove abita la verità? «Come tradurre, allora, la poesia? Come “riprodurre” lo stile? Sono le domande che a questo punto un traduttologo si sente porre. La risposta potrebbe prendere l’avvio dalla constatazione che le dicotomie (fedele/infedele; fedele alla lettera/fedele allo spirito; ut orator/ut interpres; “traductions des professeurs”/“traductions des poètes”) ? da Cicerone a Mounin ? inevitabilmente portano a una situazione di impasse, configurando, da una parte, l’intraducibilità dello “stile” e dell’“ineffabile” poetico, e dall’altra la convinzione che sia trasmissibile soltanto un contenuto» (Franco Buffoni, La traduzione del testo poetico, a cura dello stesso, ed. Marcos y Marcos, 2004). In conclusione, sperando di aver fatto un po’ di chiarezza su questo dilemma, tradurre = tradire (?), citiamo ancora un passo di Fresa: «L’elemento di maggiore fascino nella traduzione poetica è d’altronde costituito, secondo me, soprattutto dalla forma e dalle modalità del processo di trasformazione del testo da cui deriva la traduzione stessa; un processo che non è un “contra factum” o un travestimento, ma una forma di scrittura trasversale che assume il valore di un omaggio-variazione, in cui si accolgono e si uniscono sia l’eco imitativa, sia la rielaborazione, fiorita e ampliata, del modello di partenza».